LA NOTTE PIÙ BUIA Cronache di una generazione

PREFAZIONE
...i tempi storici non sono mai quelli che vorremmo.
A volte sono lunghi e limacciosi, altre hanno delle accelerazioni spaventose. Nel tempo dei nostri venti anni
l’accelerazione era massima, la rivoluzione sembrava dietro l’angolo. Ora è massima la stagnazione anche se
non mancano elementi che lasciano intravvedere non solo l’opportunità di una trasformazione radicale ma la
sua urgenza.

In questa frase, lasciata cadere da Roberto Gramiccia in uno dei primi capitoli di questo libro, mentre in un misto d’umorismo e nostalgia s’attarda a descrivere le prime esperienze sentimentali di un protagonista che perennemente oscilla fra l’autobiografia e la laboriosa estrinsecazione d’una sorta di consapevolezza collettiva, di un fiero irregolare e di un uomo scrupoloso, risiede forse, non solo l’essenza del volume che tenete fra le mani, ma pure la chiave per capire e sopportare il complicato frangente storico in cui ci troviamo. Ceci n’est pas une pipe, è scritto, con grafia da antica scuola primaria, appunto sotto una pipa, in un famoso quadro di René Magritte, fin troppo citato e parafrasato. Ma poiché giustamente le nostre coscienze si contagiano e s’influenzano, più volte il lettore, pagina dopo pagina, sarà costretto a ripetersi che questa qui non è un’autobiografia. Molti di noi – accecati dalle tenebre dell’orgoglio o abbagliati dalle inibizioni, in maniera studiata o casuale, vittime degli scherzi della memoria o crogiolandosi nell’impostura –, per non dire tutti, sono del resto abituati a ripercorrere gli eventi della loro esistenza scrutandoli attraverso il gioco di specchi della menzogna, dell’insicurezza, del convincimento e del compiacimento. Ed è questo un gioco senza vincitori né vinti, dove la verità rinuncia ad aver voce in capitolo e preferisce acquattarsi nell’ombra, per scoprire se, attorcigliandosi e aggrovigliandosi su se stessa, la bugia non finirà per assomigliarle.
Sotto questa lente, però, ci sono due tipi di verità: quella personale, che concerne le vicende private del protagonista –
amori, rivelazioni, interessi, paure, sconforti – che suscita immediata empatia, in cui ognuno potrà riconoscere vicende parallele nella propria esistenza; e quella globale, che non fa mai da sfondo, e che sovente è l’autentico motore della narrazione.

Intorno a questa seconda – come scrutandola da un satellite fluttuante in quelle tenebre spaziali che gli esseri umani hanno popolato con le loro fantasticherie, le loro ubbie, i loro dei –mi piacerebbe discutere in questa prefazione. Volontariamente, irrefrenabilmente, l’io narrante si dedica infatti a intessere una trama di interrelazioni fra vicende minime e fratture nella Storia.
Mi è capitato, sempre più spesso man mano che c’inoltravamo in questo millennio, d’incontrare numerose persone
talmente indignate con l’umanità da auspicarne l’estinzione. È piuttosto frequente che s’addivenga a rimpiangere epoche lontane e idealizzate: in un evo di sonno e di regresso, la gente a Roma ha contemplato le vestigia dell’impero non comprendendo come erano state costruite; e, negli ultimi secoli, ci si è rammaricati, volta per volta, di non essere circondati dagli illuministi francesi o dai filosofi greci, dalle oppiacee e geniali speranze della Belle Époque o dai vigorosi slanci che spingevano intrepidi esploratori a rivelare i segreti nascosti del globo terracqueo, in stagioni più floride e quiete o, al contrario, in quelle più avventurose ed emozionanti. Raramente, però, l’indignazione a raggiunto le ambizioni autodistruttive di oggi.
Ecco: in questo processo di trasfigurazione del passato e di recriminazioni a me sovente è capitato di dolermi di non appartenere alla generazione di Roberto, e ancora di più a quella che l’ha preceduta. E scorrere le pagine di questo libro ha acuito questo senso di disdetta.

Perché? Molto semplicemente, molto direttamente, perché avrei voluto vivere in una società caratterizzata dall’ottimi-
smo. In un contesto ancora agitato dalla passione.
Uno degli aspetti che in questo testo mi ha colpito è il resoconto, implacabile e lineare, del progressivo disfacimento
di regole e ideali. Una pagina dopo l’altra, si passa dagli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale in cui il concetto di privacy – oggi in voga prevalentemente su- gli aspetti più superflui dell’esistenza – era ignorato, a quelli delle contestazioni in cui, con una naïveté tutto sommato invidiabile, si condividevano aspirazioni, sogni e amori in nome dell’appartenenza a un gruppo di individui spesso più eterogeneo di ciò che appariva, fino al crollo delle barriere fisiche – il muro di Berlino – sfruttato per erigere ostacoli culturali – la tracotanza del capitalismo – che si pretendono insormontabili.

Mala tempora…, a cui seguirono guai ulteriori che impregnarono di sé tutti gli anni Novanta e il decennio successivo:
guerre (bombe persino su Belgrado!), stragi di mafia (Falcone, Borsellino e rispettive scorte), trattative Stato-mafia, Torri Gemelle, nuove guerre e terrorismo internazionale, catastrofica crisi dei subprime, pareggio di bilancio in costituzione, fiscal compact, austerità, troika e ogni genere di iatture. Il miraggio di una globalizzazione capace di socializzare universalmente profitti e benessere inaugurò una stagione che osservò le nefaste conseguenze di un fenomeno inverso: oscena concentrazione delle ricchezze e diffusione della miseria e della povertà, non solo nel Sud del mondo ma anche in larghissimi strati sociali appartenenti ai paesi cosiddetti evoluti, nei quali per la prima volta nel dopoguerra si impoverivano anche i ceti medi.

In questo libro, anche Roberto Gramiccia usa con estrema parsimonia una parola un tempo molto in voga: imperialismo. Termine che, nel dibattito attuale, si vuol fare apparire come desueto, concetto oggi spesso ignorato, diluitosi nell’acquitrino di una polemica politica sempre più superficiale e mucida.
Eppure l’imperialismo ha negli ultimi due decenni più che mai assunto virulenza e pericolosità: certo, esso non è tanto legato al potere diplomatico o militare di una nazione che tenta d’im- porre la propria visione della società ad altri paesi succubi; piuttosto, in conseguenza del millantato disfacimento delle al- ternative, si è insinuato in un modello economico che fa della competizione – iniqua – e dell’accumulo illimitato di ricchezza i suoi farneticanti punti di forza. Si pretende – e pure con discreto successo – che la personalità del cittadino si affermi attraverso l’acquisto e il possesso di oggetti caduchi e brutti, il cui valore è stato stabilito da convenzioni irragionevoli. Que- sto può riferirsi a prodotti della tecnologia o abiti fabbricati da schiavi nelle aree più agevolmente sfruttabili del pianeta o a banane appiccicate al muro di cui gruppi organizzati di furfanti si servono per spostare denaro – o meglio: numeri senza senso
– da una banca all’altra. In tal senso, questo ritorno alla narrativa di Gramiccia s’inserisce perfettamente nel solco tracciato dai suoi precedenti viaggi nel territorio delle arti figurative: e se ieri il nostro autore è stato uno dei paladini pronti a difendere la musa dalla volgarità, dal mercantilismo e dall’inganno, domani, come testimone del mutare delle epoche e della disgregazione collettiva, egli ci suggerisce che, al cospetto degli immani sconvolgimenti che caratterizzeranno i prossimi anni, abbiamo – tutti – il diritto e il dovere di recuperare l’indipendenza e la dignità.
La pandemia ha lacerato il velo omertoso che nascondeva la verità a chi fosse interessato a conoscerla. Questa verità è
che il capitalismo, sia nella variante globalista iperliberista che in quella sovranista autoritaria e nazionalista, non solo non è in grado di garantire delle condizioni di vita media accettabili (persino per la sua classe storica di riferimento: la borghesia) ma è causa dell’esplodere di contraddizioni che rischiano di portare il mondo alla rovina.
L’Art vient réparer le réel: ha detto il regista francese Arthur Nauzyciel con una capacità di sintesi da autentico simbolista. Ovvero L’Arte rinnova i popoli e ne rivela la vita: frase, attribuita allo scrittore Francesco Paolo Perez, che campeggia sul frontone del Teatro Massimo di Palermo. Niente di più vero.

Con ineludibile tenacia, l’insondabile enigma della nostra evoluzione, aggrovigliato dentro di noi, nascosto in un pas-
sato troppo remoto, si dipana e si strugge in ciò che abbiamo ideato, costruito, inventato, sfidando innumerevoli ostacoli e innescando i meccanismi – positivi o negativi – del progresso. In questo anno che per convenzione chiamiamo 2021 dopo Cristo, le piramidi egizie e quelle delle civiltà precolombiane, le mastodontiche costruzioni inghiottite dalla giungla di Angkor Wat, i primordiali centri urbani costituiti da case prive di porte e addossate l’una all’altra di Çatalhöyük, gli enigmi di Tiahuanaco e Cuzco, il Colosseo circondato dal traffico delle automobili, o intorno al quale manipolazioni e minacce hanno silenziato il gioioso vociare della folla, le cattedrali gotiche, rinascimentali o barocche disseminate per l’Europa, le maschere inquietanti e variopinte dell’Oceania o dell’Africa nera, le incisioni praticate dagli Inuit sulle zanne dei trichechi, le magnifiche marionette di cuoio che, a Giava come in altre regioni dell’Asia, danno vita al teatro delle ombre, le melodie composte da Mozart o da Sibelius, da Berlioz o da Beethoven, i quadri nei nostri musei ed infine quei beni intangibili che affiorano dalle parole che, fin dai tempi dei cantori epici, fin dai tempi degli sciamani, donne e uomini con il dono di concepire delle trame e di associare eloquenze ci hanno regalato per farci commuovere o per farci divertire, per farci riflettere e per darci un’anima: ogni forma d’arte concorre a perpetrare in noi il senso di appartenenza ad una specie animale diversa da tutte le altre. Dinnanzi ad ogni opera dell’ingegno umano noi contempliamo noi stessi. In ogni opera del nostro ingegno, ambiamo a conquistare un briciolo d’immortalità. E l’immortalità non è mai vanesia.

Fabrizio Catalano

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