La repressione non è sicurezza

Il governo annuncia un nuovo pacchetto sicurezza incentrato sulla vecchia retorica della repressione e della punizione, e su un’idea di città lontana dai reali bisogni delle donne

Lo stupro di Caivano ha dato il via a grandi operazioni repressive, spesso raccontate come “pulizia”, e il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha annunciato un nuovo pacchetto sicurezza.

Sono politiche e terminologie che conosciamo già: non è la prima volta che il corpo delle donne diventa la leva per un restringimento delle libertà. Per esempio, i pacchetti sicurezza hanno spesso incluso misure contro i migranti. 

Per protestare contro uno dei vari pacchetti sicurezza, anni fa con un gruppo di femministe avevamo organizzato un’azione militante: chiedevamo alle persone di disegnare o scrivere cosa le facesse sentire al sicuro e poi abbiamo attaccato nel quartiere dei cartelli con su scritto “la nostra sicurezza”; abbiamo anche preparato dei pacchettini con dentro i nostri messaggi di sicurezza e li abbiamo distribuiti alle persone.

“Le mutande”, “la sciarpa”, “la coperta”, “un libro”, “la gente per strada”, “le luci”, “i negozi”, “la mamma”, “il miele”, “salutarsi” sono alcune delle parole che le persone avevano scelto. Una bambina aveva scritto “il pesce, perché mangiarlo ci rende intelligenti”. Nessuno ha scritto invece: “militari”, “armi”, “carcere”. Eppure, quando nel discorso pubblico si parla di sicurezza, questo è quello che viene proposto: forze dell’ordine, controllo, repressione. Sono argomenti purtroppo trasversali a varie forze politiche, ma particolarmente cari alla destra. 

In questi primi mesi di governo abbiamo assistito a un proliferare di innalzamenti di pene in risposta a episodi di cronaca particolarmente efferati. Alcune violenze, per il tipo di vittima o di aggressore, risuonano di più nell’opinione pubblica, e sulla loro scia vengono disegnati apparati repressivi che poco hanno a che vedere con le politiche di cambiamento culturale, di prevenzione, di promozione del benessere e di riduzione delle disuguaglianze, e molto con l’idea che la punizione esemplare funzioni da deterrente, o quanto meno sia un buon pasto per l’opinione pubblica e abbia, quindi, un ritorno in termini di consenso.

Eppure, dati, pratiche, studi ci dicono di quanto le politiche orientate a colmare i divari sociali, economici e territoriali funzionino, mentre non c’è nessuna evidenza sul fatto che funzioni, invece, un approccio teso all’inasprimento delle pene.

Prendiamo per esempio la violenza contro le donne: sappiamo che richiede politiche come l’educazione all’affettività e alla sessualità, la formazione per docenti, forze dell’ordine, servizi sociali e giornalisti, pool antiviolenza nei tribunali, campagne di informazione e, soprattutto, una rete capillare di servizi antiviolenza gestiti da associazioni di donne. Sono politiche che implicano visione e investimenti, mentre rispondere alla violenza contro le donne alzando le pene per gli aggressori non produce cambiamenti né sul breve, né sul medio, né sul lungo periodo.

La sicurezza diventa securitaria quando, nel discorso pubblico e politico, viene associata a un’idea di ordine e quando viene separato ciò che si considera “normale” come appartenente, appunto, a un ordine (che viene descritto come “naturale”) da ciò che viene considerato come disordine, fuori dalla “norma”, che viene descritto come deviante. Questa dicotomia tra ordine e disordine ha un impatto sul modo in cui viene pensato lo spazio pubblico.

La città è sicura quando corrisponde a un’idea ben determinata sull’uso del tempo: il giorno corrisponde alla produzione, la notte corrisponde al riposo. L’idea di ordine fa leva sulla paura dell’ignoto, di ciò che avviene o potrebbe avvenire nello spazio pubblico. Per questo, durante la notte l’ordine prevede che tutti siano nelle case. La città sicura è una città che possiamo raccontare come la città del silenzio. 

Nella città del silenzio non c’è rumore, non c’è musica, non c’è vociare; quando ci sono, si invoca “la movida” – spagnolizzazione di un divertimento che eccede i decibel e la compostezza. La città della sicurezza è contraria agli spazi di aggregazione spontanea: il divertimento dev’essere addomesticato dal consumo, irregimentato dalle occupazioni di suolo pubblico, garantito negli orari. La città del silenzio crede che tutto vada bene quando le persone sono ognuna a casa propria a guardare la televisione.

La città della sicurezza è quella in cui le donne non escono da sole la sera, sono sempre in tensione e hanno sempre un uomo che le tuteli, che può essere il padre, il marito o il poliziotto. La città della sicurezza fa sentire le persone, in particolare quelle più vulnerabili, al sicuro solo se sono a casa. Questo rafforza l’idea che le case siano il luogo “naturale” per le donne. Restringere con la paura la loro libertà di movimento, è, infatti, un modo per ribadire che non appartengono allo spazio pubblico.

Mentre le politiche securitarie stabiliscono orari, regimentano spazi, portano le armi tra le persone con i presidi militari e anche la tentazione di estenderne la circolazione e l’uso per “difesa personale”, gli studi di urbanistica femminista ci raccontano che la sicurezza delle donne è legata alla presenza di negozi e alla loro eterogeneità, al fatto che siano aperte diverse attività in diversi orari. Alla presenza, per strada, di persone, in particolare di persone diverse tra loro (la presenza di soli uomini, per esempio, non aiuta la percezione di sicurezza) e di altre donne. È importante la presenza di donne che lavorano di notte, per esempio che guidano autobus o taxi, gestiscono attività come bar o ristoranti.

Quindi, quello che fa sentire le donne sicure è di segno inverso rispetto all’idea di un ordine basato sulla repressione e la punizione. La città del silenzio è una città che spaventa e “le strade sicure le fanno le donne che le attraversano”.

Barbara Leda Kenny

12/7/2023 https://www.ingenere.it/

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