La salute dei lavoratori oggi, osservazioni sparse

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In questo articolo i problemi sono solo evidenziati, ci vorrebbero degli studi più approfonditi che invece non vengono svolti; eppure, quando invece sono effettuati, sia pure in modo sporadico, indicano situazioni e contraddizioni interessanti. Il tutto aspettando che il sistema informativo nazionale per la prevenzione – previsto da una legge del 2008 – ci permetta di integrare e correlare i dati sui lavoratori dell’Inps con quelli dell’Inail e del Servizio Sanitario Nazionale.

Nel mondo

Troviamo sul sito dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, l’Ilo:

nel mondo, muore un lavoratore ogni 15 secondi a causa di un infortunio o di una malattia che hanno origine nel lavoro. 6300 morti al giorno, più di 2,3 milioni di persone in un anno

http://www.ilo.org/global/topics/safety-and-health-at-work/lang–en/index.htm

Questi dati si ripetono di anno in anno e siamo ormai alla terza rilevazione dell’Ilo.

Le speranze di vita

L’ulteriore notizia è che negli Stati Uniti le speranze di vita degli operai di pelle bianca si sono ridotte, per la prima volta. Paul Krugman ne da una spiegazione: hanno origine nella disperazione derivante dalla condizione economica e sociale, e l’aumento dei morti è influenzato dai suicidi, dall’alcolismo e dall’uso di droghe.

http://www.tomdispatch.com/post/176075/tomgram%3A_barbara_ehrenreich%2C_america_to_working_class_whites%3A_drop_dead!/#more

Viene da dire: per fortuna che qui, in Italia, la situazione sia molto diversa, visto che aumentano di anno in anno l’età pensionabile in ragione degli studi sulle speranze di vita. Noi conosciamo l’esito di questi studi ma non conosciamo i dati utilizzati per la sua elaborazione. Sicuramente l’Inps è una fonte ed i dati li ha ma non sono accessibili neppure ai rappresentanti del sindacato nel Consiglio di Indirizzo e Vigilanza. Si è riusciti a carpire solo un dato: nel 2013 la vita media di un artigiano era di 74 anni, derivante dalla media aritmetica dell’età degli artigiani che avevano cessato di percepire una pensione essendo intervenuta la morte. Ognuno di noi potrebbe fare in confronto con le speranze di vita calcolate per il trattamento pensionistico e quelle reali. L’Inps potrebbe dirci a che età smette di versare la pensione agli operai(e) o agli impiegati(e) con 20, 30 o 40 anni di contribuzione per la morte delle persone coinvolte, lo sa perché fa parte della sua contabilità ma non rende pubblico il dato. Sappiamo quanto camperemo ma non sappiamo quanto campano i pensionati oggi.

Le speranze di vita in buona salute

Sappiamo che – mediamente – la vita attiva ed in buona salute termina una decina di anni prima della fine della propria esistenza. Esistono degli studi dell’Organizzazione mondiale della Sanità per ogni paese. Per le donne le inidoneità arrivano prima dei maschi, questione statisticamente nota ed assai poco studiata.

Per le lavoratrici ed i lavoratori una utilissima fonte di informazione deriva dall’obbligo dei medici competenti di comunicare i dati sulla sorveglianza sanitaria conseguente ai rischi cui sono sottoposte le persone che lavorano. L’obbligo ha origine da una norma del decreto legislativo del 2008, bloccata dal governo Berlusconi e riattivata nel febbraio 2012. Non è una norma ancora completamente applicata, ma il ministero della sanità assieme alle regioni ha pubblicato un primo rapporto

http://www.workingclass.it/workingclass/mercato/Salute_it/salute0019.pdf

si possono leggere molti dati interessanti.

Vorrei però sottolineare il problema dei problemi: l’elevato numero di lavoratori e di lavoratrici inidonei(e). Nel 2013:

–       Il 20% dei lavoratori maschi sottoposti a visita medica hanno ricevuto un giudizio di inidoneità. Il 6% per inidoneità temporanea ed il 13,6% per parziali inidoneità permanenti e lo 0,4% per inidoneità totale

–       Il 16,9% delle lavoratrici con il 5,7% di inidoneità temporanee, il 10,9% con inidoneità parziali ma permanenti ed il 0,3 per inidoneità totale allo svolgimento della mansione.

Sappiamo dai recenti dati dell’Istat che l’occupazione è aumentata di poco e quel poco è avvenuto per gli over 55. Il blocco del turn over dal 2008 ed il prolungamento della vita lavorativa per effetto della legge Fornero hanno contribuito all’invecchiamento della forza lavoro occupata e questo ha contribuito alla maggiore incidenza dei lavoratori inidonei. C’è però da chiedersi quanto invece abbia contribuito a ridurre il numero dei lavoratori inidonei l’uso massiccio della cassa integrazione guadagni che ha sottratto alla esposizione dai rischi professionali ed alle relative visite mediche centinaia di migliaia di lavoratori. L’esperienza ci dice che le “ridotte capacità lavorative” vengono largamente utilizzate come criterio di selezione del personale da porre in cassa integrazione. E, per molti di loro, questa selezione è l’anticamera del licenziamento che, prima del secondo provvedimento di legge della signora Fornero, si chiamava mobilità ed ora non più.

Citiamo il caso della Azimut di Avigliana. Le lavoratrici ed i lavoratori giudicati inidonei venivano spostati nei lavori di magazzino posti a latere di ogni fase del ciclo di produzione, poi vennero tutti concentrati nel magazzino centrale, poi vennero posti in cassa integrazione con molti di mesi di cassa ed alcune settimane di lavoro, quando lavoravano in magazzino non era chiesto loro di operare con i carrelli elevatori e per questa ragione non erano soggetti alle visite mediche di controllo contro l’alcol e la tossicodipendenza, poi è arrivata la procedura di riduzione del personale per “ragioni economiche”, quindi non impugnabile, dei lavoratori operanti in magazzino non abilitati a condurre il carrello elevatore.

La salute quando si perde il lavoro

Gli studi internazionali sugli effetti sulla salute del lavoro precario sono moltissimi e, ovviamente, tutti stanno ad indicare uno stato di sofferenza psicologica.

Incrociare i dati i dati dell’Inps e degli osservatori regionali sul mercato del lavoro con i dati del servizio sanitario è possibile avendo in comune il codice fiscale della persona interessata.

Facciamo due esempi.

Il medico di base prescrive dei farmaci – classificati ufficialmente dal SSN come psicofarmaci – ad un proprio paziente ed il paziente è registrato all’Inps come lavoratore con un contratto precario o come lavoratore in cassa integrazione o percettore di una indennità a seguito della perdita non volontaria del lavoro. Sia per l’Inps che per il Servizio Sanitario il singolo cittadino è registrato con il codice fiscale personale, incrociando i dati si può conoscere se l’incidenza dell’uso di psicofarmaci è più o meno elevata della media della popolazione che lavora. Esperienza già compiuta quindici anni fa su oltre 2000 lavoratori torinesi che compilarono un questionario sullo stress, indicando il loro codice fiscale ed autorizzando un ente pubblico ad elaborare i dati. I lavoratori che facevano maggiore ricorso a farmaci utili a ridurre la fatica nervosa erano ancora gli operai impegnati al lavoro vincolato, di linea ma non solo.

I disoccupati che percepiscono dall’Inps una indennità di mobilità (perché licenziati prima del 2012) o di disoccupazione possono essere soggetti a malattie psicologiche o a infarto cardiaco e devono ricorrere al ricovero ospedaliero. Sempre con il codice fiscale si possono incrociare i dati. Ricerca fatta, l’incidenza dell’infarto cardiaco negli ultra cinquantenni con tre anni di disoccupazione è del 20% superiore alla media. Una malattia “non professionale”.

I dati delle morti sul lavoro

Molti quotidiani pubblicarono ai primi di dicembre dello scorso anno un dato inaspettato e preoccupante: nei primi dieci mesi dell’anno gli infortuni mortali sul lavoro erano aumentati da 628 a 629. Considerando anche gli infortuni cosiddetti “in itinere”, avvenuti cioè nel tragitto tra casa e lavoro o ritorno, il bilancio era ancora più grave passando da 833 a 988 morti, una volta chiamate “bianche”.

Sempre il giorno dopo l’istituto nazionale di assicurazione contro gli infortuni, l’Inail, ha emesso un comunicato in cui si dichiarava che i dati comparsi sui quotidiani, pur essendo di loro fonte, “si riferiscono a casi oggetto di procedimenti istruttori ancora in corso. Soltanto in esito all’attività istruttoria sarà, pertanto, possibile accertare quali e

quanti di questi casi debbano essere ricondotti a cause di lavoro”.

Per chi, per ragioni professionali, segue da molti anni i temi della sicurezza e della salute dei lavoratori sorge subito una domanda: l’Inail ha cambiato il sistema di analisi dei dati degli infortuni? Sono almeno vent’anni che l’indicatore dell’andamento degli infortuni fa riferimento alle denuncie degli infortuni, cosa è cambiato? E scopriamo così che negli ultimi anni l’Inail tende sempre più a fare riferimento solo agli infortuni riconosciuti per i quali si esborsa un indennizzo. E’ cambio di approccio non trascurabile, la priorità non è più la prevenzione ma l’assicurazione ed i costi degli indennizzi. La relazione del Presidente dell’Inail relativa all’anno 2014 dedica 249 parole (1360 caratteri) per commentare l’andamento degli infortuni nell’anno di riferimento e 510 parole (3039 caratteri) per illustrare l’andamento economico dell’istituto. D’altra parte, se bisogna ogni anno ridurre le tariffe dell’assicurazione a carico delle imprese, come è avvenuto con le leggi di stabilità del 2014 e del 2015, e se si devono acquistare edifici e immobili di altri enti pubblici per concorrere a garantire equilibri di bilancio l’attenzione alle risorse finanziarie non può che aumentare.

Per andare oltre ai dati statistici e cercare di comprendere se il peggioramento della situazione sia influenzato dai cambiamenti nel lavoro, nella sua composizione e nella sua organizzazione è necessario svolgere una analisi qualitativa dei dati. L’Inail aveva ereditato dalla chiusura e dall’assorbimento dell’Istituto nazionale di prevenzione (Ispesl) un ottimo strumento di analisi degli infortuni mortali e gravi denominato “Informo”: se lo si va a cercare oggi sul sito dell’istituto si trova l’annuncio che il servizio “Informo” offre importanti informazioni in materia ma, quando lo si vuole aprire, compare ormai da mesi che è stato chiuso.

Negli anni 2007 e 2008 grazie all’intervento delle istituzioni pubbliche ed una diffusa sensibilità sociale al problema delle morti sul lavoro anche alimentata dai costanti appelli del Presidente della Repubblica si era finalmente ridotto il loro numero di quasi il 20%. Questa tendenza alla riduzione è proseguita sino al 2014 anche per effetto della crisi produttiva, della diminuzione dell’occupazione – basti pensare all’edilizia – e del numero di ore lavorate per effetto della cassa integrazione: se la ripresa produttiva del 2015 non è tale da giustificare questa crescita delle morti bianche, quali sono le altre ragioni? Alcune dovranno essere approfondite, mentre si può affermare che la cultura e la sensibilità al tema è fortemente diminuita, nelle imprese e nelle istituzioni preposte.

Ma alcune riflessioni sui dati qualitativi si possono fare.

Il primo aspetto attiene all’andamento degli infortuni mortali tra i lavoratori anziani. Con la legge Fornero di allungamento considerevole della età di raggiungimento delle pensioni è avvenuto quello che già conoscevamo: aumenta l’incidenza dei morti sul lavoro delle persone anziane sia in agricoltura (dato tradizionale che continua a presentarsi, soprattutto per lavoratori autonomi che non dovrebbero più lavorare in quanto pensionati ma continuano a farlo) che in altri settori. I dati dei rapporti annuali dell’Inail(2) ci dicono che dal 2010 al 2014 sul totale degli infortuni l’incidenza di quelli dei lavoratori di età compresa tra i 55 ed i 65 anni è passata dal 9,40% al 13,42%, con un incremento di quasi il 50%. È vero che l’occupazione degli over ’50 è aumentata ma non della stessa entità, si conferma ancora una volta che gli anziani sono – assieme ai giovani neoassunti o con contratto di lavoro precario – tra le figure più esposte sia per il peso della fatica e la perdita di attenzione sul lavoro che per l’eccesso di confidenza al rischio. In Piemonte il dato è ancora più – drammaticamente – evidente con 28 morti sul lavoro di età superiore a 64 anni su un totale di 98.

Un lavoratore ogni sei che perde la vita sul lavoro è un immigrato (il 16% degli infortuni mortali), molte volte impegnato nei lavori più pericolosi in edilizia, in agricoltura e nel settore della logistica e dell’immagazzinamento. Questo dato si ripete da più di sei anni e non si è ancora superata la fase simbolica dell’azione di promozione di azioni mirate di sensibilizzazione, informazione e formazione rivolta a chi non padroneggia la nostra lingua.

Venendo a mancare il sistema informativo “Informo” sugli infortuni mortali e gravi non ci sono più gli aggiornamenti sulla composizione sociale degli infortunati. Gli ultimi dati risalgono al 2010 ed erano molto significativi: solo il 49% degli infortuni mortali interessavano i lavoratori dipendenti, il restante 51% erano lavoratori autonomi, piccoli imprenditori, coadiuvanti familiari, soci di cooperative e pensionati. L’osservatorio della Regione Piemonte continua invece a studiare il fenomeno ed i dati sugli infortuni mortali tra il 2010 e 2014 tendono a sottolineare come questo fenomeno sia in crescita. Hanno perso la vita: 36 lavoratori dipendenti, 17 pensionati, 15 lavoratori autonomi senza dipendenti, 11 soci (anche di cooperativa), 6 lavoratori autonomi con dipendenti, 5 coadiuvanti familiari, 4 con rapporto di lavoro atipico e 4 “irregolari” (in nero). In totale, su 98 infortuni mortali, ben 72 sono avvenuti nella microimpresa sotto i 10 addetti. Anche in questo caso senza specifiche azioni di sostegno rivolte alla microimpresa il sistema tradizionale di prevenzione – che si dimostra efficace, dato che in Piemonte non c’è più stato un infortunio mortale nelle imprese con più di 250 addetti dopo il tragico incidente alla ThyssenKrupp – escluderà i lavoratori più esposti. Con la fine del governo Prodi nel 2008 ogni politica attiva è stata dimenticata, tranne in alcune – poche – Regioni.

Sempre ricordando le esperienze del 2006-2008 conviene ancora ricordare il lavoro di contrasto del lavoro nero. Sino al 2006 più di un infortunio mortale ogni dieci avveniva al primo giorno di lavoro, dato paradossale reso possibile dal fatto che l’azienda poteva assicurare il lavoratore morto per infortunio nelle ore successive all’incidente. Nel 2006 venne approvata una norma che obbligava all’assicurazione contro gli infortuni prima che venisse stabilito il rapporto di lavoro; non si cancellò il fenomeno ma l’incidenza degli infortuni mortali al primo giorno passò a uno ogni cinquanta. Ora l’evasione della norma e della assicurazione sta assumendo una nuova forma: l’imprenditore compera subito dopo l’incidente mortale un voucher per pagare la cosiddetta “prestazione occasionale” e dimostrare la regolarità del rapporto di lavoro. Ovviamente questo vale non solo per gli infortuni mortali, la trasmissione televisiva di Report ha dedicato una propria inchiesta al fenomeno.

Ognuno di questi temi dovrà essere ulteriormente approfondito. Lo faremo nel prossimo futuro.

Fulvio Perini

9 febbraio 2016 www.workingclass.it

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