LAVORARE CON LA BARA ACCANTO

COPERTINAles4luglio19

In Italia si sta stabilizzando un dogma: la morte prematura degli ultimi come eventi normali, sia quando si assiste alle stragi dei migranti sia di fronte alla media di tre morti al giorno sul lavoro. Un dogma fondato sul verbo dettato all’inizio di questo secolo dall’odioso Fondo Monetario Internazionale (FMI) “I poveri devono morire prima”. E ne muoiono tantissimi se venisse alla luce la strage silenziosa delle malattie da lavoro, chiamate “professionali” che mostrano una ben più elevata mortalità annuale rispetto agli infortuni.

Difficili da quantificare perchè il loro riconoscimento segue un iter lungo e tortuoso, poi ci sono tanti casi che sfuggono alla attenzione mediatica ma continuano , dopo decenni e per tanti altri lustri ancora, a mietere vittime. Per parlarne occorre istruire grandi processi con decine di imputati, decine o centinaia di morti, ma trattandosi di eventi passati, non vengono più considerati attuali, come se, oggi, contaminazioni da sostanze tossiche e cancerogene, da organizzazione del lavoro stressante e debilitante, non esistessero più.

Significativa è la bassa attenzione e la relativa definizione che sui media si continua a dare rispetto ai decessi sui luoghi di lavoro, le definiscono “morti bianche” come se fossero dettate dal destino ineludibile e non dal criminale sistema che governa la produzione capitalista.

Questa ipocrisia dei mezzi di comunicazione, subordinati agli interessi, a prescindere dalla vita dei lavoratori, degli imprenditori, fa si che non si rifletta su un dato tutto italiano: i morti sul lavoro aumentano anche di fronte alla forte diminuzione delle ore lavorate causa licenziamenti e delocalizzazioni all’estero. Ma il lavoro nero registra schiavismo di dieci ore.

Dall’inizio dell’anno i decessi sono stati 358 (720 con quelli in itinere). Questi i numeri reali in base al lavoro d’inchiesta quotidiana condotto da Carlo Soricelli dell’Osservatorio sui morti sul lavoro. Quindi aumentano infortuni e malattie professionali in una situazione di generale crisi del lavoro. Soprattutto quando si parla di occupazione femminile (il tasso di impiego al femminile è del 49%). Nei primi due mesi del 2019 le denunce di infortuni sul lavoro presentate all’Inail sono state 100.290, oltre 4mila casi in più rispetto al primo bimestre del 2018.

A farne di più le spese sono le donne, in particolare aumento sono quelli in itinere: più della metà degli incidenti mortali avviene nel percorso di andata e ritorno tra casa e lavoro. A chi interessa il loro carico di doppio lavoro e lo stress derivante dall’ormai inconciliabile binomio lavoro/ famiglia, con figli da crescere e anziani da accudire, con servizi sociali latitanti se non assenti dopo le politiche di tagli?

L’ultimo rapporto dell’Inail ci consegna il dato relativo al 2018: si sono contati 704 infortuni mortali, con un forte aumento del 4,5% rispetto al 2017, di cui 421, pari a circa il 60% del totale, verificatosi “in itinere. Complessivamente, le denunce di infortunio mortale sono state 1.218 nel corso dell’anno, mentre sono già 391 quelle registrate nei primi cinque mesi del 2019. Rispetto al 2017, le denunce di infortunio mortale sono risultate in crescita del 6,1%. Infine, le malattie professionali sono state circa 59.500, il 2,6% in più rispetto all’anno precedente.

Su questi dati ufficiali e fondamentale fare una precisazione: i numeri sono drammaticamente molto più alti, e non solo perchè il lavoro nero è quasi disconosciuto dalle inchieste statistiche ma anche perchè le fase istruttorie tendono a chiudersi con mesi di ritardo.

La distanza tra le denunce registrate e gli infortuni mortali effettivamente riconosciuti, pari a 514 casi. «L’Inail dovrebbe spiegare nei dettagli, come mai, ogni anno, dalle 400 alle 500 denunce di infortunio mortale, non vengono riconosciute come morti sul lavoro. È un numero enorme. È evidente che una buona parte erano lavoratori non assicurati all’Inail.». La pertinente osservazione è di Marco Bazzoni, rappresentante dei lavoratori per la sicurezza di Firenze.

L’Inail dice la sua a partire dalle risorse umane disponibili: L’Istituto ha potuto contare su 284 ispettori, a fronte dei 299 del 2017 e dei 350 del 2016. Sul versante dei controlli della regolarità delle aziende, nel 2018 gli ispettori dell’Inail hanno regolarizzato 41.674 lavoratori, dei quali 3.336 totalmente “in nero”, richiedendo il pagamento di premi non versati dalle aziende per 76 milioni di euro. Complessivamente, sono state accertate retribuzioni imponibili non dichiarate per circa 3,5 miliardi di euro, mentre le aziende controllate sono state 15.828, il 5% in meno rispetto al 2017 e il 24% in meno rispetto al 2016. «La forza dei controlli – ha denunciato il presidente dell’Inail, Massimo De Felice – si sta depauperando, a causa della riduzione della forza disponibile. A conferma di quanto affermato risulta che le aziende controllate sono una piccolissima parte: poco piu’ di 15 mila. Intanto sul fronte del bilancio, l’Istituto di assicurazione ha chiuso con un attivo di 1,8 miliardi di euro. Risorse che, secondo il presidente del Comitato di indirizzo e vigilanza (Civ), Giovanni Luciano, dovrebbero essere impiegate per «aumentare le prestazioni agli infortunati».

A livello normativo a che punto siamo? Ad oggi ciò che è stato fatto rispetto al Testo Unico 81/2008 al più è stato aumentare alcune sanzioni per il contrasto al lavoro nero, a quello somministrato e sul potere di controllo delegato alle Prefetture. Niente è stato investito, ad esempio, sulla formazione certificata in azienda. In un recente rapporto del Cnel (Consiglio nazionale dell’economia del lavoro) è stato evidenziato come il tasso di irregolarità nelle aziende sia aumentato di oltre il 3% nel solo ultimo anno.

Ricordiamo che l’articolo 2087 (a) del Codice Civile stabilisce che: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Inoltre l’articolo 18 (Obblighi del datore di lavoro e del dirigente) del D.Lgs.81/08 al comma 1, lettera c) stabilisce che “Il datore di lavoro […] e i dirigenti […] devono nell’affidare i compiti ai lavoratori, tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza”. Tutto chiaro a livello normativo ma a livello politico contano i rapporti di forza sociali e sindacali che oggi sono totalmente a sfavore dei lavoratori, rapporti che accomunano quelli stabili e quelli precari. rapporti che determinano la passività e la conseguente accettazione fatalistica della possibilità di infortunio. Come dell’impossibilità di esigere il rispetto e l’esecuzione di ciò che altri soggetti stabiliscono, senza essere più attore capace di influire e influenzare, con il suo apporto. Il 28 aprile nella “Giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro”, istituita nel 2003 dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) il segretario generale Cgil Maurizio Landini afferma “In Italia si continua a morire come si moriva 50 anni fa. Evidentemente il diritto alla salute sui luoghi di lavoro non è considerato elemento indispensabile di tutta la fase produttiva”. Vero compagno Landini, ma altrettanto vera è la responsabilità sindacale nel determinare un ritorno alla civiltà del lavoro.

Franco Cilenti

Editoriale del numero 4 luglio 2019 del periodico cartaceo Lavoro e Salute www.lavoroesalute.org

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *