Lavoro: quanto pesa il “sentito dire”.

Cancellare diritti

Uno stimolante articolo di Carlo Clericetti: “Lavorare meno, fare la fame (quasi) tutti” – recentemente pubblicato sul sito “Eguaglianza & Libertà”, la rivista di Critica sociale diretta da Antonio Lettieri – rimanda i lettori al famoso slogan: “Lavorare meno, lavorare tutti” che rese ancora più popolare tra i lavoratori italiani l’ex Segretario generale della Cisl, Pierre Carniti.

Si era sul finire degli anni settanta e anche quella – al pari dell’odierna – era epoca di grande austerità; con un tasso di attività molto basso, rispetto a quello degli altri Paesi europei; in particolare tra le donne.

La proposta nasceva con l’obiettivo di combattere la disoccupazione aumentando, in sostanza, il numero degli occupati attraverso la ripartizione del lavoro disponibile. Essa, sebbene non ufficialmente ostacolata, non raccolse il plauso ed il sostegno delle altre OO.SS. in particolare quello della Cgil, perché – in effetti – rappresentava un atto di carattere totalmente “difensivo”. A parere della Confederazione sindacale nella quale all’epoca già militavo, essa equivaleva alla sostanziale presa d’atto che, alla disoccupazione, non esistesse possibilità di trovare soluzione, quindi, si rendeva necessario “ridistribuire” tra più soggetti il lavoro disponibile. Una vera e propria “resa”; dal punto di vista della contrattazione e del “respiro” confederale di Cigl, Cisl e Uil.

Negli anni successivi, lo slogan fu riproposto, con l’aggiunta della preposizione “per” – che non cambiava la sostanza della proposta – da Maurizio Sacconi, Ministro del Lavoro nel corso del quarto governo Berlusconi.

Quell’erede al Dicastero – appartenuto prima a Giacomo Brodolini, “padre” dello Statuto dei Lavoratori e successivamente a personalità del calibro di Marco Donat-Cattin e Gino Giugni – che sarà ricordato solo per aver prodotto, come suo primo atto di governo, la sconsiderata abrogazione della legge 188 del 17 ottobre 2007; norma di civiltà, prodotta dal governo Prodi II, per debellare la vergognosa pratica delle “dimissioni in bianco” (tesa ad obbligare i neoassunti a firmare una lettera di dimissioni priva di data, contestualmente alla sottoscrizione del contratto di lavoro).

Tra l’altro – e non si tratta(va) di un particolare di secondaria importanza – ancora oggi, mi pare di ricordare, che il Segretario Cisl, non avesse mai precisato se, alla riduzione generalizzata del numero di ore lavorate, dovesse corrispondere o meno un proporzionale taglio delle retribuzioni!

Clericetti esordisce affermando che Carniti, comunque, non avrebbe mai potuto immaginare che il suo slogan sarebbe stato realizzato, “a modo suo”, dal capitalismo del terzo millennio.

Infatti, in tutto il mondo, salvo eccezioni, il numero delle ore di lavoro di ciascuno occupato diminuiscono e si è realizzato un consistente aumento del numero dei soggetti che lavorano. Quello che manca è l’auspicato miglioramento della qualità della vita, cui aspirava, in contemporanea, il progetto Carniti degli anni ’80.

Dall’ultima, affidabile, ricerca – risalente a circa sette anni fa – si rileva che i lavoratori, dal 1980 al 2010, erano aumentati di circa 1,2 miliardi di unità; fino a raggiungere i 2,9 miliardi di soggetti. Contemporaneamente, nei paesi economicamente più avanzati si generalizzava una riduzione delle ore di lavoro pro-capite. In Italia, il fenomeno è particolarmente accentuato. Infatti, se il numero degli occupati è tornato più o meno pari a quello del 2008, non si è realizzata la stessa cosa in termini di ore di lavoro. Nel 2006 esse erano state pari a poco meno di 460 milioni; nel 2016 – ultimo dato disponibile – non hanno raggiunto i 428 milioni!

In definitiva, considerando le c. d. Ula (unità di lavoro standard, a tempo pieno), passate da più di 25 milioni a meno di 23.8, è come se avessimo – sempre rispetto al 2008 – circa 1 milione 353 mila posti di lavoro (a tempo pieno) in meno.

Ciò nonostante, tanto Renzi quanto Gentiloni, continuano a trastullarsi cercando di    convincerci che le loro famigerate politiche – in termini di mercato del lavoro –  abbiano prodotto un aumento dell’occupazione!

In effetti, a conferma dell’autorevolissima previsione di Luciano Gallino – che lo diagnosticava già agli albori delle controriforme del mercato del lavoro, avviate agli inizi degli anni 2000 – la globalizzazione e l’apertura delle frontiere, unite ai fenomeni delle c. d.  “delocalizzazioni” per sfruttare, da parte dei datori di lavoro, le migliori condizioni possibili – in termini di minori salari, mancanza di sicurezza sul lavoro, libertà sindacali, orari di lavoro, ambiente e diritti dei lavoratori – hanno prodotto un risultato incredibile, solo fino a pochi anni fa.

Dal 1970 la quota di Pil (prodotto interno lordo) che va ai salari è diminuita, nei paesi economicamente più “avanzati”, di oltre 7 punti percentuali.

In Italia, la situazione è peggiorata in modo particolare.

Se si dividono i salari (per importo) in cinque classi, dalla 1° alla 5°, si rileva che, nel nostro Paese, dal 2008 ad oggi, è aumentato di molto il numero dei salari più bassi (rientranti nella 1° classe), la 2° classe ha avuto un lievissimo aumento mentre la 5° presenta un considerevole del numero dei soggetti che godono di un salario più alto rispetto a prima.

Il numero dei salariati rientranti nella 3° e nella 4° classe – quelle dei salari medi e medio/alti – è, invece, drasticamente diminuito.

A sostegno di questi dati, Clericetti cita una recente affermazione (Roma, ottobre 2017) del Presidente dell’ Istat (Istituto nazionale di statistica), secondo il quale, dal 2008 ad oggi, è drammaticamente crollata l’occupazione a reddito medio, cresce (alquanto) quella a reddito alto e subisce una vera e propria impennata (nel numero di coloro i quali vi ricadono) quella a baso reddito.

L’autore dell’interessante articolo chiude l’articolo con una condivisibile considerazione.

Le varie riforme che si sono succedute negli ultimi anni, tese a ridurre drasticamente il costo del lavoro e, con esso, le garanzie e i diritti dei lavoratori, oggi dimostrano la loro assoluta inefficacia. In sostanza, sostiene Clericetti: “La flessibilità, senza domanda interna, senza investimenti e senza politiche del lavoro adeguate serve solo a perseguire una politica autodistruttiva di contenimento del costo del lavoro e a gettare in condizioni drammatiche una parte crescente di cittadini”!

Non è condivisibile, invece, il fatto che egli – nell’indicare la data di avvio della   sfrenata rincorsa alla riduzione del costo del lavoro e delle garanzie – faccia riferimento al varo del c. d. “Pacchetto Treu” dell’anno 1997.

Non lo è perché le norme previste dalla legge 196 del 24 giugno 1997 nulla hanno da spartire, a mio avviso, con le scellerate contro-riforme del mercato del lavoro avviate, negli anni successivi, dai governi Berlusconi, Monti e, dulcis in fundo, Renzi!

Non condivido la posizione di Clericetti perché ritengo che l’insieme della legge 196/97 – meglio conosciuta attraverso il nome del Ministro del Lavoro del primo governo Prodi – nonostante avesse prodotto la sperimentazione del c. d. “lavoro interinale”, cioè la sostanziale dicotomia tra le figure “classiche” del datore di lavoro e del lavoratore subordinato, lo aveva fatto salvaguardando al massimo i lavoratori interessati. Si trattava, infatti, di norme “in deroga”, che lasciavano assolutamente inalterata la complessa intelaiatura di diritti e tutele che garantivano il rapporto di lavoro subordinato.

Basti pensare, tra l’altro, che era vietato ricorrere al lavoro interinale per le mansioni di più basso livello e per quelle prestazioni lavorative particolarmente pericolose dal punto di vista della sicurezza.

Tutt’altra cosa, invece, lo scempio dei diritti e delle tutele operato negli anni successivi.

Senza nascondere che “l’inizio della fine” – rispetto alle controriforme del mercato del lavoro, che hanno stravolto e distrutto il complesso di norme a tutela del lavoro e dei lavoratori – cominciò con i primi “Accordi separati” degli anni 2000, si può certamente ritenere, senza tema di smentite, che l’unica, vera, “Rottamazione” operata in Italia negli ultimi anni, sia stata quella dei diritti dei lavoratori, concretamente avviata con la legge-delega 30/03 e il suo decreto applicativo 276/03!

Nulla a che vedere, quindi, con la legge 196/97.

Renato Fioretti

Studioso dei diritti del lavoro

Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

8/1/2018

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *