Le bugie di Eni hanno le sei zampe corte

Nessuna illegittimità nel provvedimento con il quale a fine 2019 l’Antitrust ha sanzionato con 5 milioni di euro Eni per la diffusione di messaggi pubblicitari – ritenuti ingannevoli – utilizzati nella campagna promozionale che ha riguardato il carburante “Eni Diesel+”. L’ha deciso il Tar del Lazio con una sentenza con la quale ha respinto un ricorso proposto dalla multinazionale. Secondo l’Autorità l’ingannevolezza dei messaggi derivava «dalla confusione fra il prodotto pubblicizzato EniDiesel+ e la sua componente biodiesel HVO (Hydrotreated Vegetable Oil), chiamata da Eni “Green Diesel”; e alcune delle vantate caratteristiche del prodotto, relative alla riduzione delle emissioni gassose “fino al 40%”, delle emissioni di CO2 del 5% in media, e dei consumi “fino al 4%”, non sono risultate confermate dalle risultanze istruttorie.

Il Tar in sentenza ha rilevato che l’Autorità «muovendosi nel solco interpretativo indicato dalla Commissione europea, ha puntualmente motivato sulle ragioni per cui nei messaggi pubblicitari diffusi da Eni il termine ‘green’ era idoneo a generare una ‘elevata confusione’ nei confronti dei consumatori, in quanto all’uso del carburante pubblicizzato era associato un vantaggio ambientale di carattere assoluto e non relativo, incompatibile con l’intrinseca natura inquinante del diesel”; e «risulta immune dai vizi sollevati dalla ricorrente l’affermazione dell’Autorità secondo cui, in assenza di ‘claim di supporto’, non è consentito nella comunicazione pubblicitaria considerare ‘green’ un gasolio per autotrazione, ovvero un carburante che per sua natura è un prodotto altamente inquinante, né dichiarare che attraverso il suo utilizzo è possibile prendersi cura dell’ambiente».

L’analisi dell’Agcm, quindi, per i giudici «non presenta carenze o elementi di illogicità in grado di inficiare il giudizio espresso», avendo la stessa «diffusamente argomentato circa le ragioni per cui i messaggi pubblicitari erano connotati da vaghezza, genericità e da imprecisioni tali da non rendere ‘veritiera’ l’asserzione ambientale di Eni».

E «i risultati scientifici presentati nel corso del procedimento da Eni sono stati sottoposti a un giudizio particolarmente accurato, conclusosi con il riscontro della presenza di vizi metodologici e di una parziale rappresentazione degli effettivi vantaggi sulla riduzione di consumi ed emissioni gassose, tali da rendere le affermazioni veicolate con i claim pubblicitari non attendibili». Immune da vizi, infine, è stata ritenuta anche l’attività di quantificazione della sanzione inflitta.

Una «sentenza storica» che colpisce un’operazione di greenwashing, «una una vittoria completa» commentano Legambiente, Movimento Difesa del Cittadino e Transport&Environment ricordando che «avevano dato inizio al ricorso presso l’Autorità garante per la Concorrenza e il Mercato nel febbraio 2019 e aggiungendo che «ora è il governo che deve limitare l’abuso di biocarburanti dannosi e le vendite di motori diesel». Le tre organizzazioni spiegano che il Tar ha confermato che «non è consentito nella comunicazione pubblicitaria considerare ‘green’ un gasolio per autotrazione, ovvero un carburante che per sua natura è un prodotto altamente inquinante, né dichiarare che attraverso il suo utilizzo è possibile prendersi cura dell’ambiente». «Neppure un gasolio con una elevata componente di olio di palma, causa di deforestazione nel mondo».

Tra l’altro quel “biocarburante” è alla base della riconversione delle ex raffinerie di Porto Marghera e di Gela alimentati con olio di palma proveniente dall’Indonesia con buona pace delle chiacchiere sull’economia circolare.

Tutto nasce da un articolo pubblicato a gennaio 2019 dalla rivista “La nuova ecologia”, la storica testata di Legambiente, che solleva dubbi sull’affermazione “-40% di emissioni gassose” e rivolge pubblicamente 6 domande ad ENI. La risposta di ENI, conferma sospetti e dubbi, ribaditi sulla rivista e all’origine di una segnalazione per “pratica commerciale scorretta in violazione del Codice del Consumo” all’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato” depositata il 27 febbraio 2019.

Eni, ricorda Greenpeace, «è una delle aziende italiane più inquinanti al mondo e il maggior emettitore di CO2 in Italia. Brucia gas e petrolio, importa olio di palma e richiede cospicui finanziamenti pubblici per poter “nascondere” la CO2 sotto il mare, mentre promette di investire in energie rinnovabili. Le bugie di Eni hanno le zampe corte».

Da tempo il cane a sei zampe ha impostato una narrazione green che mette al centro del discorso le rinnovabili ma spende il 65% delle risorse per gas e petrolio mentre solo il 20% del suo budget per investimenti “verdi” compresi quelli farlocchi come combustione dei rifiuti e bioraffinerie.

Anche i FFF,  chiedono a Eni di smettere di dipingersi come un’azienda verde e sostenibile quando continua a finanziare le fonti fossili per il 77% degli investimenti totali: «vogliamo che i media non sponsorizzino più queste campagne fake di Eni e si rifiutino di farle pubblicità, infine, pretendiamo che il governo attui delle politiche nel campo della sostenibilità ambientale che siano svincolate dagli interessi delle grandi multinazionali».

Disponibile in rete e particolarmente prezioso c’è “Follow the green, la narrazione di Eni alla prova dei fatti “, il dossier che smaschera il greenwashing di Eni: “verso una transizione energetica socialmente equa” ma a colpi di aumenti di produzione di petrolio, è uno dei tanti paradossi di Eni, messi alla luce dal dossier curato dall’associazione A Sud e dal Centro di Documentazione dei Conflitti Ambientali.

Il report accende i riflettori sulle modalità, spesso mistificatorie, con cui il colosso energetico italiano si racconta su temi sempre più centrali nel dibattito pubblico: economia circolare, cambiamenti climatici, fonti rinnovabili. Da una parte la narrazione, dall’altra la realtà. Mentre si impegna, e impegna milioni, a promuovere un’immagine ecologica delle proprie attività, gli investimenti previsti fino al 2023 per lʼesplorazione e la produzione di idrocarburi rappresentano ancora il 74% del totale. Spesso sono gli stessi numeri forniti dall’azienda a contraddire lo storytelling. Solo nel 2019 Eni ha speso in attività di comunicazione 73 milioni di euro. Molte volte si è trattato di vero e proprio greenwashing, proprio come nel caso della campagna pubblicitaria sul Green Diesel sanzionata dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.

Nel piano strategico a lungo termine, le prospettive dell’azienda puntano fino al 2050 – un orizzonte temporale che neanche lo Stato italiano si è dato – quasi tutto sulla progressiva sostituzione del petrolio col gas naturale. Da una fonte fossile a un’altra, un’idea discutibile di transizione energetica di Eni che pure avrebbe soldi e risorse per un credibile percorso di decarbonizzazione. Ma la multinazionale italiana, 30% di proprietà pubblica, è allergica perfino a discuterne. A Sud e CDCA, attraverso lo strumento dell’azionariato critico, hanno provato a prendere parola all’Assemblea degli azionisti di Eni ma l’azienda ha deciso di svolgerla a porte chiuse senza permettere, neppure attraverso gli strumenti telematici, i consueti interventi da parte dei singoli azionisti.

Checchino Antonini

8/11/2021 https://www.popoffquotidiano.it

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