L’emergenza strisciante dell’università

Con il ritorno dell’austerità si torna a intervenire sui contratti e sul funzionamento degli atenei in generale. Precarizzazione e accentramento di potere sono forme di governo della scarsità di fondi

Se ne parla a sussurri, nei dipartimenti, tra una riunione e l’altra. Le notizie si rincorrono. «A Siena hanno bloccato le prese di servizio dei vincitori di concorso». «A Pisa hanno disdetto gli abbonamenti delle riviste». «A Venezia hanno stabilito la riduzione dei corsi opzionali ovunque possibile». Qua e là spariscono fondi di ricerca, bandi di progetti, iniziative previste, concorsi attesi e pianificati da tempo. 

Nell’università italiana c’è un’emergenza strisciante, e lo sanno tutti. L’abbiamo scritto su queste pagine già a giugno. Nel frattempo l’hanno ripetuto organizzazioni, assemblee, rettori, società scientifiche, scioperi, agitazioni. L’unica a negarlo continua a essere la ministra Anna Maria Bernini, che sui giornali smentisce categoricamente le cifre che tutti gli altri danno, e annuncia nuove riforme senza mai concretizzarne il contenuto, nel tentativo di spostare l’attenzione da ciò che è evidente a tutti: è tornata l’austerità.

L’università italiana, nel decennio post-Gelmini, è stata un grande Titanic, sulla cui plancia si è continuato allegramente a suonare. Il contesto pandemico ha messo due grandi toppe, con i piani straordinari di reclutamento tenure-track (posizioni precarie che, dopo una valutazione, diventano stabili) varati dal governo Conte e la riforma, parzialmente migliorativa, del precariato introdotta dal governo Draghi. Il Pnrr, pur con le dinamiche distorte di cui si dirà, ha dato poi per qualche anno l’illusione che la barca galleggiasse. Non è così. Si è subito ricominciato a imbarcare acqua. Con il ritorno dell’austerità di bilancio, tornano i tagli all’università, e non a caso si torna a intervenire sui contratti precari e sul funzionamento degli atenei in generale. Come si diceva già a giugno, il disegno è lo stesso: precarizzazione e accentramento di potere sono forme di governo della scarsità di fondi.

Oggi, 6 febbraio, non esiste una forma contrattuale per assumere un ricercatore post-doc. I vecchi assegni di ricerca, massimo emblema della precarietà a bassi salari e zero diritti, formalmente abrogati nel 2022 ma esplosi nei numeri negli anni successivi a forza di proroghe, non si possono più bandire dal 31 dicembre. Il nuovo contratto di ricerca, forma contrattuale precaria ma finalmente dignitosa, a 2 anni e mezzo dalla sua introduzione legislativa è ancora impantanato nella palude della bollinatura ministeriale. Una situazione che sembra costruita ad arte per creare la domanda delle nuovissime forme contrattuali proposte dal governo l’estate scorsa, pensate per far rientrare dalla finestra il vecchio assegno. Il Ddl, però, non si schioda dalla settima Commissione del Senato, sotto la spada di Damocle di un intervento europeo.

Nel frattempo, un gruppo di lavoro nominato dalla ministra a settembre, espressione della governance di alcuni importanti atenei, sta scrivendo la nuova riforma dell’università, che nelle attese dovrebbe ristrutturare tutto, dal reclutamento al finanziamento. A cinque mesi dall’inizio dei lavori, però, non ci è dato sapere nulla della discussione che vi si sta svolgendo, e in molti si fa strada il sospetto, augurabilmente infondato, che dietro le quinte si stia mercanteggiando, in termini di discrezionalità nella gestione degli atenei e dei concorsi, la contropartita dei tagli. 

Delle mobilitazioni di queste settimane, espressione di un movimento embrionale che si sta lentamente sviluppando, dall’assemblea nazionale del 25 ottobre agli Stati di Agitazione di dicembre fino all’incontro nazionale delle assemblee precarie previsto per l’8-9 febbraio, si è già scritto nei giorni scorsi. Dall’adesione molto significativa allo sciopero generale fino alle occupazioni simboliche delle scorse settimane, non mancano i segnali di una preoccupazione diffusa e di una volontà di attivazione e organizzazione maggiore che in passato, che attende una scintilla per dispiegarsi. 

Il collo di bottiglia e il tappo

I tagli ci sono stati, checché ne dica la ministra. Si può giocare finché si vuole tra valore nominale e indicizzato all’inflazione, o comprendere o meno questo fondo specifico o quell’altro: la sostanza non cambia. A ogni intervista, Bernini ripete che «agli atenei sono arrivati tanti soldi in questi anni con il Pnrr», come per dire: «ora accontentatevi».

Su questo la ministra ha ragione. Il nodo dell’uso delle risorse Pnrr è spesso eluso, dentro l’università. Non perché quei soldi siano stati sperperati in maniera arbitraria, cosa ben difficile dati i vincoli. Ma perché discutere il modo in cui il Pnrr ha finanziato l’università vuol dire mettere in discussione il meccanismo grant-based e precarizzante su cui funziona ormai non solo buona parte del finanziamento, ma perfino il reclutamento. Le risorse Pnrr, per indirizzo ministeriale ed europeo, sono state strutturalmente destinate al finanziamento di progetti specifici: borse di dottorato, bandi Prin (Progetti di Rilevante Interesse Nazionale), bandi Fis (Fondo Italiano per la Scienza), bandi per attribuire contratti triennali da ricercatori ai vincitori di grant europei, e così via. Il risultato è stata l’esplosione del numero di dottorandi, assegnisti, e ricercatori a tempo determinato di tipo A (figura che non permette il passaggio a professore associato). Il Pnrr ha creato negli atenei un esercito di precari, e il governo, invece di porsi il tema di come costruire un percorso di stabilizzazione per queste migliaia di persone su cui sono state investite risorse ingenti, taglia i finanziamenti, mettendo di fatto un tappo sul lungo collo di bottiglia del precariato.

Ma la logica del finanziamento occasionale, grant-based e produttore di precariato non è limitata al Pnrr: è sempre di più come funziona la ricerca, in tutto il mondo ma in particolare in Italia, dove il finanziamento ordinario e strutturale, quello che dovrebbe durare nel tempo a prescindere da bandi e progetti, è ben più carente che altrove. Tant’è che una generazione di precari e precarie è stata allevata all’idea di «comprarsi» il posto di lavoro portando le risorse vinte con un progetto. Un meccanismo perverso a sua volta alimentato dagli incentivi premiali introdotti nello scorso decennio (grazie ai quali, ad esempio, a un ateneo conviene, in termini di finanziamento governativo, ospitare vincitori di progetti), in una grottesca corsa al bando che ha distorto completamente il ruolo e il significato dei progetti di ricerca.

Eppure, nello stesso momento in cui il governo taglia agli atenei i fondi necessari a dare continuità, se non un orizzonte di stabilità, ad almeno alcuni dei precari reclutati in questi anni, vengono messi 475 milioni di euro sulla terza tornata del Fis, un bando per progetti individuali da oltre un milione di euro l’uno. E migliaia di precari si mettono all’opera, durante le feste di Natale, per scrivere il progetto con cui poi, in caso di vittoria, «comprarsi» un posto stabile. Posti che, tra l’altro, con i tempi che corrono, sempre meno università sono pronte a garantire. In cosa sarà spesa, poi, la grandissima maggioranza di quei 475 milioni di euro? In contratti precari di post-doc da assumere per lavorare a quei progetti, ca va sans dire

Questo meccanismo è rivelatore di un elemento su cui raramente si riflette nei movimenti universitari: non è vero che si vogliano cacciare tutti i precari dall’università. Se l’obiettivo fosse questo, non si spiegherebbe il finanziamento spropositato attribuito al Fis, in un contesto di generale austerità. Né si spiegherebbe perché il governo abbia proposto un Ddl che moltiplica le forme contrattuali precarie. L’obiettivo non è né l’espulsione di massa né la stabilizzazione: è evitare entrambe mantenendo un numero consistente (che chiaramente può essere ridotto o aumentato a seconda della contingenza) di persone qualificate, poco pagate e strutturalmente subalterne e ricattabili. La forza lavoro ideale, pensano alcuni.

La verità, vi prego, sul contratto di ricerca

Quando la ministra segnala che il Ddl sul precariato è stato scritto con il contributo di una parte importante del mondo universitario, non mente. Se è vero che non sono mancate, nel corso dei mesi, le prese di posizione contrarie all’ulteriore precarizzazione, come quella dei presidenti delle maggiori società scientifiche, degli organi collegiali di molti atenei e anche di alcuni rettore, è altrettanto vero che a partorire il Ddl è stato un gruppo di lavoro guidato dall’ex rettore del Politecnico di Milano e presidente della Conferenza dei rettori Ferruccio Resta, riprendendo parte di un documento prodotto dalla stessa Crui. Viene quasi da pensare che si tratti della contropartita offerta dal governo agli atenei di fronte ai tagli: le risorse diminuiscono, ma se si livellano verso il basso diritti e salari di una parte della forza lavoro della ricerca universitaria, l’impatto di quei tagli sul finanziamento degli atenei diventa sicuramente minore. Si affamano gli atenei con i tagli, e si offre a chi li gestisce la via d’uscita di scaricarne in basso le conseguenze.

A spianare la strada al Ddl, del resto, è stato in questi anni il pianto greco in nostalgia dell’assegno di ricerca perduto: un genere piuttosto diffuso, in una parte del corpo docente. Si è diffusa l’idea, attraverso una serie infinita di editoriali, discorsi pubblici, addirittura interventi in Senato, che il contratto di ricerca introdotto nel 2022 fosse una gabbia rigidissima e costosissima che avrebbe bloccato l’intero sistema della ricerca e condannato alla disoccupazione migliaia di persone. Così facendo si sono strumentalizzate anche le legittime preoccupazioni di quei precari e di quelle precarie che giustamente temevano per il loro rinnovo e si attivavano per chiedere continuità di lavoro. Ma si tratta, è bene ribadirlo, di una cortina fumogena: il contratto di ricerca è un semplice contratto di lavoro dipendente a tempo determinato, di durata da due a sei anni, che non dà diritto ad alcuna stabilizzazione futura. La differenza con il vecchio assegno sta nel fatto che, essendo un vero contratto di lavoro e non una borsa, oltre a garantire a ricercatori e ricercatrici contributi e tredicesima, è tassato e quindi costoso per gli atenei, riducendo la possibile platea degli «assunti». Ma si tratta di un mero artificio contabile, dato che il destinatario di quella tassazione è sempre il Tesoro dello Stato da cui escono i finanziamenti per gli atenei. Se il problema fosse veramente il costo, niente vieterebbe al governo di restituire il gettito agli stessi atenei o di garantire uno sconto fiscale e contributivo per questi contratti, come ha proposto nelle scorse settimane la Rete delle società scientifiche. Il punto non è che con contratti migliori aumentino troppo i costi: il punto è che il governo vuole diminuire il dell’università, ponendo di conseguenza i rettori nella condizione di negoziare verso il basso diritti e salari per una parte di chi lavora nei loro atenei, in modo da garantire la continuità del lavoro anche a costi più bassi.

Beetlejuice e l’ope legis

Il Ddl, come si diceva, è tuttora impantanato in Senato, nonostante nelle scorse settimane si prevedesse un’approvazione rapidissima. L’intoppo sembra essere dovuto al fatto che la riforma del 2022, su cui ora il Ddl fa dietro-front, era nel pacchetto dei provvedimenti previsti dal Pnrr, al cui compimento sono legati i fondi ricevuti in questi anni. Nei giorni scorsi Flc-Cgil e Adi hanno segnalato il problema alla Commissione europea, creando quantomeno un ostacolo sulla strada per l’approvazione del Ddl così com’è.

L’irritazione che si registra negli ambienti governativi è dovuta al fatto che la questione del precariato universitario, nelle previsioni, sarebbe dovuta essere liquidata molto velocemente. Tutto avrebbero voluto Anna Maria Bernini e Giorgia Meloni tranne trovarsi, come avverrà l’8 e 9 febbraio a Bologna, centinaia di precarie e precarie che discutono della loro condizione. È il genere di discussione che non si sa mai dove possa portare. Per ora, ad esempio, l’iniziativa legislativa del governo ha portato l’Flc-Cgil a proporre alla discussione comune del movimento un piano straordinario per riassorbire il precariato e riallineare l’università al contesto europeo: la bozza prevede di assumere nei prossimi sette anni 45 mila persone, tra docenti (25 mila), tecnologi a tempo indeterminato (5 mila), tecnici amministrativi e bibliotecari (10 mila) e contratti di ricerca (5 mila). Dare una prospettiva a lungo termine sia agli attuali precari sia a chi li seguirà (grazie al turnover), ribaltare il rapporto numerico tra contratti stabili e precari, con questi ultimi ridotti a eccezione e non normalità, e portare le dimensioni dell’università italiana a un livello paragonabile con quello del resto d’Europa, secondo il sindacato, costerebbe 2,2 miliardi di euro: molto meno della differenza tra ciò che l’Italia spende per l’università e la media europea.

Colpisce che si torni a parlare di stabilizzazione, dopo anni in cui questa parola è stata un tabù nel dibattito universitario. Ma il tema è davvero ulteriormente evitabile, quando il precariato ha raggiunto i numeri attuali e i tagli chiudono gran parte delle strade per il futuro? La parte di corpo accademico che in questi anni si è barricata contro ogni tentativo di proporre un’alternativa al modello Gelmini, gridando al pericolo di ope legis (cioè di ingresso in ruolo per forza di legge, senza concorso, come avvenuto a migliaia di ricercatori all’inizio degli anni Ottanta) anche di fronte a regolari e competitivi concorsi, forse dovrebbe farsi qualche domanda. L’impressione è che l’ope legis sia come Beetlejuice, lo spiritello interpretato da Michael Keaton nell’omonimo film del 1988 (recentemente oggetto di remake): anche lei, se viene evocata troppe volte, tende ad apparire, e a fare qualche scherzetto.

Guerra culturale e università che seleziona

Se il governo sta provando a chiudere più in fretta possibile la questione precariato, è perché a seguire è prevista la riforma dell’università nel suo complesso. Un gruppo di lavoro composto da tecnici di area governativa e docenti universitari, tra cui la presidente della Crui e rettrice dell’Università di Milano-Bicocca Carla Iannantuoni, è attivo da settembre. La scelta conferma la doppia strategia con cui il governo Meloni si rapporta all’università: da una parte, guerra culturale sui media, dall’altra, tentativo sistematico di cooptazione delle élite. Al di là di voci e sussurri, in questi mesi, nessuno dei documenti che si dice siano stati predisposti dal gruppo è stato diffuso pubblicamente. Una scelta che non può che dare adito a una ridda di voci e sospetti che è tutto tranne ciò di cui c’è bisogno. Nel frattempo, un membro del gruppo di lavoro ha esposto sulle pagine del Foglio la sua idea di università: un’università più piccola e stratificata, che concentri le risorse sugli atenei più forti, che non esageri con controlli e vincoli nell’uso delle risorse, che integri nel sistema gli atenei telematici, avanguardia della privatizzazione. Idee rispettabili, per quanto radicalmente diverse da quelle che presentiamo su queste pagine, e su cui ci sarebbe bisogno di una discussione pubblica dentro e fuori dalla comunità accademica e non di gruppi di lavoro a porte chiuse.

Davvero vogliamo interrompere il percorso di graduale e limitatissima crescita imboccato dall’università italiana per andare verso un modello ancora più piccolo di quello attuale, in un paese la cui quota di laureati nella popolazione è tra le più basse in Europa? Davvero il modello da seguire è quello di una maggiore concentrazione dei pochi fondi disponibili? Davvero riteniamo che il ruolo dell’università sia selezionare, valutare e certificare? Può essere che una parte della comunità universitaria la veda così: in queste settimane si stanno manifestando però anche punti di vista profondamente diversi, ed è evidente il bisogno di una discussione aperta.

Dalla questione dei tagli, va ribadito, non si esce senza un nuovo patto sociale che stabilisca presupposti e obiettivi del finanziamento all’università. Non è un caso che al centro della discussione del movimento ci sia, oltre a tagli e ddl, il rapporto tra università e guerra. Per cosa si chiedono risorse e stabilizzazioni? Se il ruolo degli atenei è quello di riprodurre, attraverso selezione, valutazione e certificazione, un’élite numericamente sempre più ristretta, e che resiste al calo demografico solo grazie alla commercializzazione di sé stessa nei confronti di clienti esteri da attrarre, allora l’università così com’è, e come la vogliono trasformare Bernini e Meloni, magari con l’aggiunta di un disciplinamento orbaniano di ciò che viene insegnato, è più che sufficiente. Ma il nostro paese è attraversato da sfide che dovrebbero attrarre e motivare chi fa lavoro di ricerca e didattica, dal riscaldamento globale alle disuguaglianze crescenti, fino alla marginalità territoriale, al declino produttivo, alle fratture culturali. Dalla capacità della comunità universitaria di immaginare un proprio ruolo di insediamento e propulsione sociale nelle trasformazioni della nostra epoca passerà molto del suo futuro e di quello di chi ci lavora.

Lorenzo Zamponi è docente di sociologia alla Scuola Normale Superiore ed editor di Jacobin Italia. È coautore di Resistere alla crisi (Il Mulino, 2019).

7/2/2025 https://jacobinitalia.it/

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