L’ESSERE della MEDICINA e il POTERE del MALESSERE

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di Stanislao Loria

2° parte –

«E’ il malessere che regna nella società che costringe le persone ad ammalarsi e poi a ricoverarsi in questi ospedali, perché naturalmente uno che ha benessere non si butta nel bere né fa stravaganze, è molto difficile, è la miseria che porta a tutte queste cose»

Maso, ricoverato nell’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Gorizia
Assemblea generale del 17 maggio 1967 (1)

IL MALESSERE

Al fine di non commettere lo stesso errore dell’OMS che ha collegato la salute con il “completo benessere”, finendo con il considerare solo l’approccio individuale alla persona in un contesto economicamente favorevole, conviene innanzitutto precisare che il malessere non può semplicisticamente essere collegato con la malattia, né che è il contrario del benessere.
E’, anche e piuttosto, il disagio dell’essere, e dello stare in questo tipo di mondo.
Quindi è più intimamente e fortemente collegato all’ambiente e alla comunità nei quali si svolge la storia dell’individuo, a cominciare da quanto si è integrati e come si è accettati, dal valore attribuito al ruolo svolto e dal gradimento della gratifica ricevuta, dalla reciprocità dei rapporti familiari e sociali e dalla qualità e dall’accessibilità ai servizi disponibili.

Anche in questo caso ci può servire la definizione del Vocabolario Treccani.
«Stato di vaga sofferenza e di leggera indisposizione fisica, che, improvviso e privo di una causa apparente, provoca in genere un senso di prostrazione e di inquietudine interna: si dice avere, sentire, avvertire, accusare un malessere.
Per estensione, stato di apprensione, di scontentezza, di angoscia; anche, come fenomeno collettivo, dovuto a cattive condizioni economiche o finanziarie, a sfiducia nella situazione politica e simili; talora in contrapposizione diretta a benessere: malessere economico, sociale
»
Si intravede in questa definizione sia una competenza medica, quando descrive il malessere come sintomo dell’individuo, sia una competenza sociologica, quando lo descrive come una situazione collettiva di disagio socio economico.
E’ molto interessante osservare che il malessere è presentato come percezione soggettiva … che si ha, si sente, si avverte, si accusa.
E manca invece ogni riferimento a un dato oggettivo, riscontrato o osservato … del tipo presenta, mostra, esibisce.
Non è quindi una malattia, solitamente descritta come una combinazione di sintomi e segni.
La malattia è generalmente ricondotta ad una lesione organica e/o ad uno spostamento dalla condizione di funzionamento normale dell’organismo. La medicina se ne occupa avvalendosi di un metodo diagnostico che, dopo avere registrato ed esaminato il sintomo, si concentra sull’analisi di organi, apparati e funzioni alla ricerca del danno, al fine di tentare una terapia , medica, chirurgica o riabilitativa. In questo percorso arriva a scomporre l’individuo in pezzi, circuiti e ingranaggi, così negandone, non solo l’unità e l’integrità fisica, mentale e sociale, cioè la salute che pretendeva di preservare in maniera completa, ma anche lo sottrae al contesto di vita e di relazioni, il luogo dove le percezioni si formano e si sviluppano; con il rischio di danneggiare la soggettività, la fonte espressiva del malessere.
Inoltre, configurandosi il malessere come un generico e indefinito “stare male” in assenza di segni oggettivi di malattia, si concede talvolta all’individuo sofferente un riconoscimento parziale, incompleto, insoddisfacente, talaltra si arriva al disconoscimento come malato e gli si assegna l’etichetta di disturbatore dell’ordine medico, scientifico e sociale.

Il malessere non colpisce tutti. Si manifesta in chi ha fiducia negli altri, e invece si ritrova a lavorare in una organizzazione che lucra sul tradimento della fiducia. Si manifesta in chi ha la sensibilità di cogliere l’umanità, la diversità, la fragilità degli altri, ed è invece chiamato all’esercizio di un ruolo che afferma la rigidità di regole, procedure e protocolli prestabiliti per uniformare e omologare. Si manifesta in chi deve sottostare e cedere a pressanti e vincolanti richieste, soprattutto di tipo produttivo, e non ha libertà di scelta, non ha il controllo delle proprie azioni né l’autonomia decisionale.

LO STRESS, CAUSA di MALESSERE … e MORTALITA’

Nello studio Whitehall (1978-1984) si analizzò la mortalità degli impiegati statali di ogni ordine e grado, dal più umile fattorino al direttore generale.

«Negli anni Settanta … tutti “sapevano” che le persone che occupavano posti importanti avevano un elevato rischio di cardiopatia coronarica dovuta allo stress cui erano sottoposti …» (5)
Il presupposto di questa pretesa “conoscenza universale” era che lo stress lavorativo colpiva maggiormente manager e dirigenti pubblici, gravati dall’impegno di fare funzionare la macchina della produzione. In realtà, questa affermazione conteneva, come cura del loro presunto malessere, il progetto di aumento della produzione, per il conseguimento dei relativi incentivi, comprensivo dell’individuazione, e della rimozione, di ogni causa di rallentamento produttivo, compresi i lavoratori “pigri”.
«… Noi trovammo l’opposto. Gli uomini di alto livello avevano un rischio minore di cardiopatia coronarica, e delle altre cause di morte, rispetto a tutti gli altri loro sottoposti; si trattava di un problema dovuto al gradiente sociale, con una mortalità progressivamente più elevata che andava a braccetto con i livelli impiegatizi di grado progressivamente inferiore» (5)
Il risultato dello studio ristabilisce, oltre alla verità, il punto esatto in cui si concentrano gli effetti dello stress, e le conseguenze del malessere, individuando come fondamentale causa l’intensità della produzione e la tracotanza del capitale.
«I fattori di rischio convenzionali erano importanti (il fumo, la colesterolemia, l’obesità, l’ipertensione arteriosa), però qualcos’altro aveva un ruolo nei diversi rischi di malattia fra i diversi gruppi sociali … Non era la richiesta elevata che provocava lo stress, ma la combinazione di richiesta elevata e scarso controllo»(5)

Le conclusioni dello studio sembrano anticipare la definizione di stress contenuta nell’Accordo Europeo sullo stress da lavoro del 8/10/2004: «Lo stress è una condizione che può essere accompagnata da malessere o disfunzioni di natura fisica, psicologica o sociale ed è conseguenza del fatto che taluni individui non si sentono in grado di corrispondere alle richieste o alle aspettative riposte in loro»; che, a sua volta, non è molto distante dalla definizione iniziale di malessere.
Un concetto che, in maniera precisa e inequivocabile, era stato anticipato da Giulio A. Maccacaro:
« … il capitale può arrivare a dire – con la voce autorevole della sua medicina scientifica – che la disuguale distribuzione della patologia nelle classi sociali – documentata da una quantità impressionante di inoppugnabili dati – non è da intendersi in termini di malattia ma in termini di malessere. Addirittura: la classe del lavoro non sarebbe ma si sentirebbe più malata di quella del capitale». (4)
Questo ragionamento ci conduce a pensare che … un segno oggettivo del malessere esiste …
Ed è rappresentato dalle condizioni socio economiche, che la medicina non è abituata a prendere in considerazione; segni omessi in quanto non riconducibili ad alterazioni del meccanismo biologico, non rilevabili con la clinica, né con specifiche analisi né con appositi strumenti.
Così, il malessere, lo stato di insofferenza, di apprensione, di scontentezza … che talvolta sfociano in isolamento, rifiuto, ribellione, causa di malattia e di morte, diventano invece un fastidio, sia per la medicina, incapace di un inquadramento nosografico preciso, sia per la produzione, che ne risulta disturbata.
Accade anche che queste manifestazioni, in un modo o nell’altro, tanto nella sofferenza quanto nell’insofferenza, finiscono con il condurre la persona alla dipendenza dagli altri per la necessità assistenziale e che, sul piano sociale, possono comportare la perdita di autonomia e di potere decisionale e, in qualche caso, della dignità umana.

In tal senso, sono paradigmatiche le malattie psicosomatiche, le malattie mentali, le malattie professionali e gli infortuni sul lavoro che testimoniano rispettivamente che il malessere fisico, il malessere mentale e il malessere sociale sono ancora ben radicati, quasi connaturati, nella cosiddetta società del benessere, e che le strategie adottate dalla medicina del capitale, piuttosto che prevenirle e curarle, sono finalizzate a negarle e escluderle …, e a risarcirle, in monotona e ripetitiva continuità con l’esigenza del ciclo produttivo che trova in questo caso più profittevole usare i sofferenti come assistiti (e consumatori di prestazioni sanitarie) piuttosto che come addetti alla produzione.

il MALESSERE negato – la malattia psicosomatica

E’ la pecora nera della medicina, il sintomo che sfugge alla sintomatologia, il quadro che non è riconducibile all’inquadramento nosografico, l’evidenza che non si riconosce nella descrizione da manuale, è lo spostamento oltre il limite della competenza della medicina, è la realtà clinica che reclama una dimensione sociale e politica e non una parvenza di diagnosi, e si lamenta, strepita e insiste per essere riconosciuta come disagio, malessere, incapacità di adeguarsi alla sceneggiatura dell’efficienza.
E’ questo il caso delle malattie psicosomatiche, o anche neurosi viscerali.

In realtà, essendo conseguenti al carico di stress necessario per accedere a tutti i beni e servizi disponibili sul mercato, attestano la impossibilità di sostenere il ritmo che è richiesto dal modo di vivere e di lavorare che ci viene imposto.
«Un errore della medicina attuale è quello di limitarsi a constatare una base, o prevalenza, di componenti ‘funzionali’ per numerose malattie, nelle quali non sono dimostrate lesioni di organo. Si tratta, comunque, di una affermazione generica se non si tende a precisarne le entità e le tipizzazioni. E’ ingenuo limitarsi a registrare queste malattie come un prezzo da pagare alla ‘società del benessere’: che il benessere produca malessere rimane un non senso semantico oltre che scientifico. L’opinione che un miglioramento delle condizioni di vita coincida necessariamente con determinati “stati morbosi” offre una copertura e una connivenza alla ideologia dominante: significa accettare la inevitabilità di alcune malattie e respingere la salute come bene primario; e significa ritardare la estensione del “benessere”» (3), e attesta che la produzione e il consumo sono prioritari rispetto alla salute.

Molto frequentemente, queste malattie non hanno una base organica, una lesione d’organo e, talvolta, mancano di qualsiasi oggettività strumentale. Il motivo risiede nel fatto che «investono non solo il fisico o l’organo colpito, ma la persona umana nel suo complesso; per queste malattie le motivazioni di causalità trovano un preciso riscontro con le modalità di organizzazione della vita sociale e, in definitiva, con il sistema socio economico di produzione» (3)
Eppure, questi stati morbosi “disfunzionali”, dal punto di vista medico impegnano risorse sia professionali che tecniche, senza altro riscontro di risultato che quello sintomatico, pur ammettendo nel contempo che la causa è spesso proprio la “società del benessere”.

Questo introduce, per la medicina organicistica abituata a intervenire su un corpo frammentato in organi ed apparati, anche una difficoltà di attribuzione di competenza, se esse sono di interesse per il medico internista o di uno specialista d’organo o di apparato o se richiedono l’affidamento allo psichiatra o allo psicologo; il tal modo, allo smembramento si aggiunge il disorientamento del paziente, smistando, non lui ma le parti del suo corpo, nei reparti ospedalieri, proprio come le forniture di pezzi meccanici arrivano nei reparti della fabbrica.
Laddove, questi casi richiederebbero invece un approccio relazionale e personalizzato, che non si limiti a trattare i sintomi ma, soprattutto, valuti le cause, i problemi familiari, gli stress psico-sociali più rilevanti, lo stile di vita, e consideri la peregrinazione del paziente verso altri specialisti come uno stress aggiuntivo aggravante, che oltretutto mina la sua fiducia nella guarigione.

E così, mentre il medico e lo psicologo competono sullo scivoloso terreno della definizione diagnostica e terapeutica, il malato, sballottato e confuso nell’ambito delle varie specialità ed escluso dalla comprensione, assume la connotazione di un caso clinico particolare e meritevole di consulto, di un destino individuale e solitario, perde la inscindibilità psico-fisica della persona e, sempre più, viene isolato dal contesto biologico, sociale e storico nel quale la malattia si è sviluppata.
E viene catalogato come ‘malato funzionale’, intendendo così da un lato spostare la causa sul funzionamento della persona e sulla colpa individuale piuttosto che sul danno subito e dall’altro stabilire la necessità di un trattamento sostitutivo, di sostegno o di modulazione della funzione carente, che sia persistente, continuo … e “redditizio”, talvolta anche rieducativo per le esigenze del capitale.

il MALESSERE escluso – la malattia mentale

E’ questo l’ambito in cui il malessere e la sofferenza della persona hanno travalicato i limiti morali imposti al capitale che, per non disturbare e distogliere dalla produzione i rassegnati lavoratori e gli indaffarati imprenditori, è arrivato a convalidare la reclusione, la costrizione e la sedazione … come sistema di cura.
L’ambito in cui «la società cosiddetta del benessere e dell’abbondanza, scoperto di non poter esporre apertamente il suo volto della violenza, per non creare nel suo seno contraddizioni troppo evidenti che tornerebbero a suo danno, ha trovato un nuovo sistema: quello di allargare l’appalto del potere ai tecnici che lo gestiranno in suo nome e continueranno a creare – attraverso forme diverse di violenza: la violenza tecnica – nuovi esclusi … Così, lo psichiatra, lo psicoterapeuta, l’assistente sociale, lo psicologo di fabbrica, il sociologo industriale non sono altro che i nuovi amministratori della violenza del potere, nella misura in cui – ammorbidendo gli attriti, sciogliendo le resistenze, risolvendo i conflitti provocati dalle sue istituzioni – non fanno che consentire, con la loro azione tecnica apparentemente riparatrice e non violenta, il perpetuarsi della violenza globale» (1)

Qui si è concretizzata la trasformazione del malessere, inteso come inagibilità produttiva e inabilità funzionale delle persone, nella più cruda delle diagnosi, quella che ha il significato di sentenza definitiva, la malattia mentale.
Qui il sistema economico neoliberista si è svelato pazzesco nel progetto, disumano nella realizzazione, spersonalizzante negli effetti, falso e odioso nell’aspetto più nascosto e meno pubblicizzato della produzione, quello che riversa ogni fondata e infondata preoccupazione di recessione produttiva sulle singole persone, scegliendo i più deboli; così mostrando lui stesso i sintomi e i segni della sua malattia, che produce sofferenza e morte nei lavoratori, nei disoccupati, nei migranti in fuga dalla povertà, nelle conseguenza della crisi climatica, nella violenza delle politiche che arricchiscono le multinazionali e i paesi ricchi, e sempre più determinano disuguaglianza e ingiustizia sociale.

Tutto questo per dimostrare definitivamente come, attraverso la cultura medica asservita, «trasferisce il fenomeno della sofferenza solo in chi la esprime, occultando lo stretto legame con la situazione responsabile del suo insorgere, e privandola quindi del suo significato più essenziale. Una volta attuato questo spostamento, una volta attuata la rottura fra sofferenza individuale e realtà sociale (quindi condizione di vita materiale, psicologica e di relazione) sarà semplice dedicarsi alla malattia come puro fenomeno naturale, isolato dal mondo di cui il soggetto fa parte ed è espressione, e organizzare attorno ad essa la cura e la terapia. Cura e terapia che saranno tanto più impotenti, quanto più totale risulterà la frattura fra l’individuo e la propria storia, confermando come incomprensibile il fenomeno di cui si occupa» … Nasce così «l’occultamento sistematico di ciò che, nell’organizzazione del lavoro e della vita sociale, produce sofferenza e malattia e la conseguente frattura fra individuo e storia» (6)
In passato era l’internamento in manicomio, oggi è l’assegnazione di un marchio, quello del malato mentale, lo stigma.

E alla sofferenza provocata dalla malattia mentale si aggiunge la colpa, la vergogna, l’emarginazione, un altro malessere, a delineare la rottura anche dei legami affettivi, particolarmente grave nelle aree periferiche, dove la frammentazione del tessuto civile è già determinata dalla depressione socio economica ed educativa.
E al diniego di avere un posto nella società che produce e consuma “benessere”, si aggiunge il rifiuto all’interno della famiglia e del contesto sociale. Un rifiuto talmente forte e persuasivo da radicarsi talvolta nel paziente stesso, persino convincendolo a trovare la sua ragione d’essere e la sua realizzazione nel presentarsi come soggetto asociale, pericoloso per gli ingranaggi produttivi, privo di stimoli al consumo e, quindi, un esempio da evitare; in tal modo “internando” il suo malessere.
Lo stigma si sostituisce così alle mura manicomiali, e diventa il nuovo confine che divide lo spazio sociale e culturale, in gran parte ormai colonizzato dall’imbroglio della produzione e del consumo illimitati, tra “noi”, gli efficienti e necessari, e “loro”, gli inutili e superflui, una separazione che in realtà segna la distanza tra “noi”, sani e servi, e “loro” malati e liberi.

il MALESSERE risarcito – il danno da lavoro

Anche i lavoratori, pur fondamentali nel ciclo produttivo, hanno sperimentato la sofferenza e il malessere, l’esclusione e l’isolamento, nelle fabbriche e nelle officine, obbligati a condizioni di vita e di lavoro talmente gravose e prolungate da soddisfare ogni necessità di sperimentazione ad indebite esposizioni a sostanze pericolose e tutte le latenze e le incubazioni dei molteplici fattori della nocività del lavoro.
Ed è proprio da questa condizione, appieno realizzata e perfezionata dalla rivoluzione industriale in avanti, dall’avvento di una produzione che conosce e rispetta solo la regola del profitto, che si è evidenziato che «la morte e la malattia imparano a discriminare sempre più severamente e attentamente entro la stessa collettività tra ricchi e poveri, tra la classe del capitale e quella del lavoro» (4)

Fino agli anni Settanta del secolo scorso, le soluzioni proposte dal capitale, più per salvaguardare il processo produttivo che la salute dei lavoratori, erano sempre state di carattere risarcitorio, nella logica di pagare per il danno “procurato”.
Si ricorreva all’assicurazione dei lavoratori che, a fronte del versamento di un premio, garantiva la liquidazione del danno da lavoro al lavoratore e alla sua famiglia, e alla “monetizzazione del rischio”, che attribuiva un valore economico al rischio per la salute, scambiandolo con la produzione.
In entrambe le soluzioni la classe medica si è sempre prestata agli interessi padronali.
Arrivando addirittura a proporre, anziché la bonifica degli ambienti di lavoro e dei cicli produttivi, la preliminare selezione dei lavoratori, persino su base genetica, per escludere quelli più suscettibili rispetto ai rischi da lavoro, così perseguendo il risparmio sui premi assicurativi e sui risarcimenti invece della prevenzione. Poco considerando che così, cinicamente, privava di reddito i lavoratori giudicati suscettibili, probabilmente aggravando anche la loro fragilità socio-economica e avviandoli definitivamente alla sofferenza e al malessere. Ed anche preferendo arroccarsi nella nicchia medico legale, più propensa ad accertare e quantificare il danno procurato ai lavoratori ai fini della liquidazione dovuta dal capitale, piuttosto che a tutelare la salute, identificando e denunciando gli effetti sanitari, economici e sociali dello sfruttamento del lavoro e della contaminazione ambientale.

Un fenomeno inatteso ha, però, inopinatamente svelato la natura e i piani del capitale: la maturazione della coscienza di classe, da cui sono scaturite due logiche implicazioni: «La prima è che la classe operaia, che vende la propria forza-lavoro non sia più l’ultima rotellina della macchina sociale, ma riconosca invece se stessa come ciò da cui deriva in ultima istanza la produzione sociale … La seconda sta nel riconoscere che la sottrazione di anni-vita, l’alterazione del ricambio uomo-natura, la degradazione della corporeità che si verificano nel lavoro industriale non sono fenomeni particolari della fabbrica capitalistica ma sono fenomeni generali della società capitalistica che hanno nella fabbrica l’origine, la massima frequenza, ma che si riverberano in modo crescente verso tutti gli uomini, e anche verso la totalità della biosfera» (2)

CONCLUSIONI

Quello che risalta all’osservazione, in questa alternanza di finto benessere e vero malessere, è il modo di ESSERE della medicina che, ormai integrata nell’attività industriale della società capitalistica, con le sue fiorenti fabbriche ospedaliere e le sue affollate officine ambulatoriali, si è inserita tra i fattori patogeni, così automaticamente rinunciando alla sua vocazione più incisivamente curativa: l’identificazione delle cause.

E così, NEGARE, ESCLUDERE e RISARCIRE i malesseri, le malattie e i danni più palesemente collegati allo sviluppo della società capitalistica, privilegiando sempre e solo l’approccio individuale alla singola persona e omettendo l’analisi distributiva dei fenomeni patogeni nella collettività, sono diventati una necessità di questa medicina, la base per stabilire il suo vero potere, quello della gestione del malessere.
Eppure è chiaro che il malessere, comunque lo si voglia declinare, sia come fenomeno individuale che collettivo, sia come premessa che come sostanza della malattia, ha origine dai modi di produrre e di vivere, ed è fortemente influenzato dalle condizioni economiche, sociali, culturali e ambientali.
Lo strumento per correggerlo è la politica, cui la medicina deve sempre fare riferimento.
Anzi. La deve continuamente pungolare, sollecitare … fino alla pedanteria e alla denuncia, per indurla a progettare e realizzare un modello di sviluppo proteso alla solidarietà, che contrasti alienazione, disagio e tensione emotiva derivanti dalla divisione sociale e dai rapporti di potere, tra chi detiene i mezzi di produzione e chi vende forza lavoro, tra chi dirige e chi esegue, tra chi orienta la scienza alla produzione e chi ne subisce gli effetti sulla salute, tra chi abita i luoghi e chi occupa gli spazi.
Un modello che contenga una idea di salute, piuttosto che di benessere, che sia necessariamente in discontinuità e in contraddizione con quella del capitale e che, quindi, consideri l’Uomo e l’ambiente, ma anche le comunità, le relazioni interpersonali e le connessioni con i fattori naturali circostanti.

Bibliografia

1- Franco Basaglia: “L’Istituzione negata” – Einaudi 1968
2- Giovanni Berlinguer: “La salute nelle fabbriche” – De Donato 1969
3- Massimo Gaglio: “Essere o malessere. Le neurosi viscerali” – Collana Medicina e Potere – Feltrinelli 1975
4- Giulio A. Maccacaro: “Per una medicina da rinnovare” – Collana Medicina e Potere – Feltrinelli 1979
5- Michael Marmot: “La salute disuguale” – Il pensiero scientifico – edizione 2016
6- Franca Ongaro Basaglia; “Salute/malattia: Le parole della medicina” – Einaudi 1982

15 dicembre 2022
La prima parte sul numero di dicembre 2022 https://www.blog-lavoroesalute.org/vita-e-potere-del-malessere/

Stanislao Loria
Medico del lavoro Napoli

In versione interattiva https://www.blog-lavoroesalute.org/lavoro-e-salute-gennaio-2023/

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