Letteratura ed energia solare: una fabbrica di sogni

Il grande successo, malgrado il sabotaggio padronale, della seconda edizione del Festival di Letteratura Working Class è l’ultimo episodio della resistenza creativa delle e degli operai* della GKN, una clamorosa smentita a chi sostiene che la classe operaia non esisterebbe più sul piano politico e culturale

Lotta di classe e immaginario

«Dobbiamo denunciare un altro fatto gravissimo accaduto durante questi tre giorni del festival: un gruppo di strani criminali si è introdotto in fabbrica e ha commesso il crimine di installare pannelli solari. Da questo momento il bar è interamente alimentato da energia solare. Non sappiamo chi è stato, ma abbiamo dei sospetti». È domenica pomeriggio; sotto il sole cocente di Campi Bisenzio, il Festival di Letteratura Working Class si avvia alla conclusione.

Al suono di queste poche frasi, pronunciate da Dario Salvetti (rsu della ex-Gkn di Campi Bisenzio), la platea del festival scoppia in un moto di gioia collettiva trascinante, contagioso, a tratti fuori controllo: ai sorrisi della velata ironia della dichiarazione seguono lacrime e abbracci. I cori aumentano di volume e proseguono per molti minuti; le oltre duemila persone presenti in quel momento vivono istanti di estasi e di energia pura. Non vi diremo certo noi chi è stato, ma vi possiamo dare un indizio: la grande solidarietà nazionale e internazionale, sociale ed ecologista, che si è aggregata intorno alla vertenza di fabbrica della ex-Gkn negli scorsi mille giorni, dal 9 luglio 2021 a oggi, ha saputo fornire allo stabilimento venti pannelli solari, che da domenica alimentano alcuni degli spazi del presidio permanente.

A pochi giorni dal festival, infatti (nella notte di martedì 2 aprile), ignoti avevano forzato l’ingresso della cabina elettrica e manomesso la centralina della fabbrica, con precisione e conoscenza dell’impianto, lasciandola senza corrente. Anche in questo caso, non sappiamo chi è stato, ma qualche sospetto è lecito: alcuni giorni prima del distacco elettrico, un’agenzia investigativa privata mandata dalla proprietà inerte e parassitaria dello stabilimento (Borgomeo) aveva fatto irruzione all’interno dei cancelli, provocato il presidio degli operai, svolto sopralluoghi e tentato di installare – prontamente bloccati dai presenti – un servizio di investigazione ambientale. Guarda il caso, avevano anche tentato di far entrare un elettricista esterno, malgrado ve ne siano già tra quei 150 lavoratori rimasti dipendenti dell’azienda e che ormai da tre mesi non vedono più lo stipendio. 

Foto Gianmarco Tavolieri

Il Festival come narrrazione emancipativa

La seconda edizione del Festival di letteratura working class ha ripetuto il grande successo e partecipazione dell’anno precedente: secondo le rilevazioni della casa editrice Alegre, co-organizzatrice dell’iniziativa (insieme al Collettivo di fabbrica, alla Società operaia di mutuo soccorso Insorgiamo e all’Arci Firenze), circa 5.000 persone hanno preso parte ai tre giorni di festival; 2.500 (tanti!) i libri venduti; oltre 200 lə volontariə che hanno auto-gestito i servizi di bar, ristorazione, sicurezza, parcheggio; 400 lə partecipanti al crowfunding che hanno consentito al festival di auto-finanziarsi, senza alcun finanziamento né privato, né pubblico, né ticket all’ingresso; 50 lə relatorə che sono intervenutə, provenienti un po’ da ovunque, da Spagna, Francia, Svezia, Danimarca, Inghilterra, Stati Uniti, Cile.

Letteratura working class è la classe operaia che scrive di sé e per sé, che racconta la propria storia, che non nasconde le proprie contraddizioni e difficoltà, bensì le mette a nudo, ne fa narrazione politica trasformativa ed emancipativa.

Si tratta di un genere letterario che mobilita una costante auto-inchiesta di classe, con cui lə protagonistə cercano di capire e capirsi, scrivendo di sé, poi rileggendo quel che si scrive, poi riscrivendo ancora: «voglia di capire e necessità di mangiare» sono i due tratti della letteratura di classe, secondo Sonia Possentini, autrice della graphic novel La prima cosa fu l’odore del ferro, presentata sul palco del festival e anche recitata in un reading da alcunə operaiə del collettivo. La fabbrica diventa luogo di ricerca, di curiosità, dove si capiscono le cose, si manifestano i rapporti di dominio; e nel tempo sottratto al lavoro o al riposo, lə operaiə scrivono quel che vedono e scoprono nella loro ricerca su se stessə e sulla realtà sociale esterne.

Ma la working class non si ferma ai cancelli di una fabbrica: a questo assunto pressoché scontato, il festival ha dato espressione, portando sul palco le storie di lavoratorə della ristorazione, dei bar, dell’editoria e del giornalismo, animando quel tentativo di ricomposizione di classe che ha attraversato molti degli sforzi di questi mille giorni di mobilitazione della ex-Gkn. Alla domanda “e tu come stai?” che gli operai hanno più volte domandato a tutte lə altrə lavoratorə, nella letteratura viene cercata una risposta condivisa, capace di diffondersi e allargarsi. Così, la presentazione di Tea Rooms di Luisa Carnés ha portato nella vita di una proletaria della ristorazione, costretta a sorrisi, abiti eleganti, sforzo fisico, paghe da fame e straordinari non pagati, di fronte a clienti arroganti o pretenziosi. È una storia ambientata in una sala da tè della Madrid degli anni Trenta, eppure così attuale: non a caso il libro è stato recentemente riscoperto e fortemente diffuso nella nuova ondata del femminismo spagnolo dal 2016 a oggi. 

Sempre negli anni Trenta, ma questa volta negli Stati Uniti – durante il processo di industrializzazione e desertificazione selvaggia degli Stati centrali – e nell’ambito lavorativo del giornalismo, si collocava invece Dynamite! di Louis Adamic. L’autore, emigrato sloveno, si costruisce un percorso auto-didattico che lo porta dall’esperienza proletaria nei cantieri e nelle fabbriche, tipica degli emigrati di quei decenni, al lavoro come scrittore e giornalista. L’autore inizia a scrivere rubando il tempo della scrittura al padrone. Precursore del new journalism dei decenni successivi, Adamic incrocia lo stile del reportage e quello della finzione, quello dell’inchiesta e di altre tecniche letterarie. Proprio tra le fila del lavoro editoriale e giornalistico – il suo, quello che lo affama – Adamic trascina il lettore: l’attentato dinamitardo del 1910 ad opera dei lavoratori sindacalizzati contro il quotidiano filo-padronale “Los Angeles Times”, uno dei tanti episodi della violentissima guerra armata in cui sfociò lo scontro di classe degli Stati Uniti a cavallo tra XIX e XX secolo.

Nel restituire la violenza della lotta di classe negli USA di quegli anni contribuisce alla reintroduzione del conflitto in una società da sempre narrata come priva di classi, pacificata, meritocratica, governata dalla mobilità verticale. Così anche un testo che ha ormai quasi un secolo contribuisce a ricostruire un indispensabile immaginario di classe.

Proprio il lavoro nell’editoria è stato infatti uno dei focus di questa seconda edizione del festival. Sul palco è salita la lotta sindacale all’interno di Grafica Veneta, condotta dal sindacato di base Adl Cobas, contro turni massacranti, caporalato e razzismo di un’azienda leader del settore in Italia, capace di stampare 20.000 copie in 24 ore sulla pelle dei propri dipendenti. «Avete presente le fascette intorno ai libri? – ha tuonato Massimo Carlotto – Quella non è meccanizzata, ma deve essere messa a mano. A Grafica Veneta i lavoratori vengono svegliati alle tre di notte, caricati sui pulmini e trasportati in azienda a mettere le fascette».

Foto Gianmarco Tavolieri

Il mondo della cultura e della letteratura – secondo Alberto Prunetti, direttore del festival e della collana Working Class presso Alegre – si è chiuso alla classe operaia, sotto il mantra secondo cui “la classe operaia non esiste più”. La stragrande maggioranza di chi scrive romanzi è andato al ristorante come cliente, mai come camerierə. Lo stesso può dirsi per il pubblico a cui tendenzialmente si rivolge, una classe media semicolta dotata di un discreto capitale culturale. E questo accade – e qui sta l’importanza dell’affermazione di un genere working class – anche quando oggetto della narrazione è la classe lavoratrice. 

Chiarificatrici sul punto sono le pagine dedicate dallo stesso Prunetti in Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class, raccolte in un capitolo dedicato allademonizzazione della classe operaia piombinese ottenuta dal bestseller Acciaio di Silvia Avallone. L’operazione intellettuale condotta dal Collettivo di Fabbrica Gkn, dalla Soms Insorgiamo e dall’editore Alegre tenta proprio di riaprire quella finestra letteraria.

Difficile scegliere la più incredibile ed emozionante delle proposte politiche uscite dal laboratorio Gkn in questi anni, ma tra queste ne citiamo una senza dubbio: il fatto che alcunə operaiə siano diventatə attorə, che abbiano iniziato per la prima volta in vita loro a fare reading  e spettacoli teatrali, che abbiano sbancato i botteghini di teatri di tutta Italia ed Europa, che il reading “Alla linea” (tratto dal romanzo working class francese di Joseph Pontus) ti arrivi dritto in petto come una scheggia incandescente, che lo spettacolo “Il Capitale: un libro che non abbiamo ancora letto” faccia sold-out anche a Bruxelles e a Berlino.

La letteratura – ce ne siamo accortə in questi giorni – può generare relazioni politiche tra diversə, produrre ponti di dialogo e confronto tra differenti figure del lavoro e dello sfruttamento. Scrivendo si dialoga e ci si riconosce. I romanzi proposti e presentati al Festival hanno avuto la forza di creare riconoscimento e reciprocità tra esperienze di sfruttamento e ricatto geograficamente distanti, tecnicamente eterogenee, eppure così simili tra loro.

Ma non solo: la letteratura si rivela anche uno strumento potente di connessione tra gli operai e il territorio. È stata chiamata “convergenza culturale”. Ed è quello che ha portato sul palco Anthony Cartwright, autore di Come ho ucciso Margaret Thatcher: quando la Lady di ferro del neoliberalismo muore, uccisa dal protagonista Sean, tutte le fabbriche che aveva chiuso, sotto il segno incrociato delle privatizzazioni e delle delocalizzazioni, riaprono e le famiglie tornano a respirare. Secondo Cartwright, la letteratura operaia è un costante richiamo al rapporto costitutivo tra la fabbrica e il suo ambiente circostante: lə operaiə sono immersə nel territorio in cui producono e che producono. Per questo, la letteratura aiuta a guardare fuori di sé, a porsi le domande giuste, ancora una volta a “capire”.

Quando le fabbriche chiudono, invece di riconvertire la produzione e modificarsi secondo i bisogni e i desideri della società, la de-industrializzazione lascia il deserto di un’intera comunità territoriale. Le parole dello scrittore britannico, il cui zio e padre rispettivamente lavoravano, prima di essere travolti dalla deindustrializzazione thatcheriana, nella Gkn britannica e nel suo indotto, colgono alla lettera il sogno di costruire, a Campi Bisenzio, una fabbrica “socialmente integrata” con il proprio territorio. Un territorio intero, d’altronde, quello di Firenze e della piana fiorentina, ha difeso la fabbrica dagli attacchi ricevuti e riempito la platea del festival, mosso dall’esigenza di prendersi del tempo per riflettere, insieme alla letteratura, sull’utilità sociale di una fabbrica e sul senso del lavoro in quel territorio devastato dalla cementificazione e dalla recente alluvione.

Forse proprio per questo il Festival ha spaventato così tanto l’attuale proprietà, la QF di Borgomeo, scatenandone reazioni scomposte e molto violente nei giorni precedenti al festival.

Prima il festival è stato associato a un “business illegale” simile a quello mafioso, poi sono seguite: la minaccia di denunciare tutti i partecipanti, l’attacco a Elio Germano, la richiesta di un tavolo sull’ordine pubblico al ministro dell’Interno, con conseguente richiamo allo sgombero, le incursioni e provocazioni di guardie private all’interno del sito, il distacco della corrente, infine lo spionaggio attraverso un drone durante le giornate del festival. Per costoro, evidentemente, chi lavora non ha il diritto di fare cultura e raccontare la propria storia. L’immaginazione è un campo di battaglia fondamentale, oggi dominato dalla produzione neoliberale di individui in competizione tra loro e perpetuamente insoddisfatti, dalle forme della coppia individuo-identità. È la forza associativa dell’immaginazione, la capacità di generare relazioni e combinazioni tra dimensioni distanti della società, ad alimentare la convergenza e l’alternativa eco-sociale. 

Foto Gianmarco Tavolieri

«Si dice che i vinti non scrivano la storia. E siccome vogliono gli operai vinti, bisogna che la working class non scriva la propria storia» – così aveva risposto Elio Germano al liquidatore dell’azienda, che lo accusava di istigazione all’illegalità. Chi licenzia, precarizza e delocalizza vede in un festival di letteratura Working Class una terribile minaccia: con il precariato e la riduzione del reddito, si vorrebbe togliere allə lavoratorə il tempo di coltivare l’immaginario collettivo e chiuderli in un eterno presente in cui l’unico pensiero deve essere quello di sopravvivere, in cui “mangiare” senza “capire”, disarticolando questi due movimenti. La risposta della classe ha allora bisogno di prendere parola, di scrivere la propria storia, coltivare il proprio immaginario eco-sociale.

Il festival di letteratura working class è stato, è e sarà parte della lotta, strumento dell’assemblea permanente più lunga della storia del movimento operaio italiano: «un festival permanente», ha proposto Salvatore Cannavò, giornalista del “Fatto Quotidiano”; «un festival che è anche presidio e mobilitazione; una lotta che fa della letteratura un suo strumento» – così ancora Prunetti. «Dobbiamo immaginare il festival di letteratura working class come un atto di sciopero, intendendo però questo sciopero in maniera non tradizionale, come una variante strategica dei nuovi modi creativi e alternativi di scioperare» – aveva scritto nei giorni precedenti al Festival. E non è un caso, allora, che sabato sera il festival sia diventato un corteo, abbia attraversato le vie industriali della Piana per raggiungere il centro storico di Campi Bisenzio e riprendersi la piazza centrale. In quella piazza, nel comune alluvionato e insorto, si sono tenuti i reading teatrali, in cui nuovamente lə operaiə della fabbrica sono diventatə attorə, in cui si è raccontata la vicenda dell’Ilva e del ricatto salute-lavoro.

Ai pannelli abbiamo accennato in apertura. Adesso forniamo un ulteriore indizio: sono arrivati in dono percorrendo quasi 3.000 chilometri, sono figli della solidarietà internazionale e internazionalista che si è costruita in questi anni intorno al Collettivo di fabbrica.

La stessa che può farti incontrare in un quartiere di Monaco una coppia di anziani cantare la versione tedesca, da loro stessi tradotta, di “Occupiamola”, il coro-canto-inno che anima dal primo giorno ogni corteo o iniziativa del Collettivo. Pur senza avere idea di dove sia Campi Bisenzio. Questa rete, appresa la notizia del sabotaggio alla cabina elettrica, ha organizzato in tre giorni il finanziamento e il trasporto di venti pannelli fotovoltaici, un inverter e una batteria. Qua “alcuni complici” hanno costruito in un giorno i telai. Il risultato è alle 16.00 del pomeriggio di domenica lo spegnimento del generatore endotermico del bar e del presidio e la loro alimentazione a energia solare. Sembra un miracolo, può apparire come un potente simbolo. Forse però non è niente di tutto questo. È un piccolo pezzo di lotta, immerso nelle contraddizioni ecologiche da cui siamo circondati, di cui non dobbiamo accontentarci ma che è coerente e funzionale con quello che gli operai dentro a quello stabilimento svuotato da chi sa solo fare il vuoto un giorno – il prima possibile – vogliono costruire: pannelli fotovoltaici, mobilità leggera, competenze per una transizione che deve essere sempre più rapida.

Foto Gianmarco Tavolieri

Insorgenza di classe e illegalità padronale

Sullo stabilimento di Campi Bisenzio, lo abbiamo detto, pochi giorni prima del Festival era calato fisicamente il buio – che come abbiamo visto, però, è durato poco. Alle 3:00 di mattina del 2 aprile ignoti si sono introdotti nello stabilimento e hanno sabotato la cabina elettrica in modo irreversibile. «Sapevano dove mettere le mani», ha subito affermato il Collettivo di fabbrica valutando la dinamica degli eventi. Trattasi però solo dell’ultimo degli atti volti a provocare e a soffocare il presidio permanente prima dell’inizio del Festival. 

A inizio dello scorso ottobre viene avviata una procedura di licenziamento collettivo dei 185 operai rimasti, una decisione non certo inaspettata da parte di una proprietà, la società QF, messa in liquidazione già a febbraio 2023.  Lo scorso 28 dicembre il Tribunale di Firenze dispone l’annullamento per condotta antisindacale della procedura di licenziamento. A essere violati sono obblighi informativi previsti sia dal CCNL Metalmeccanici che dalla legge 234/2021, la c.d. Orlando-Todde, un testo normativo anti-delocalizzazioni insufficiente ma pur sempre approvato sotto la pressione della lotta del Collettivo di fabbrica dopo i primi mesi di vertenza. Si tratta del secondo decreto ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori che garantisce la reintegra ai lavoratori, dopo quello del settembre 2021 contro il primo licenziamento collettivo. A Capodanno migliaia di persone si sono quindi strette di nuovo intorno alla fabbrica.

L’attuale proprietà ha poi deciso a febbraio di abbandonare la strada dei licenziamenti, che prevedono forme di coinvolgimento, seppur deboli e meramente informative, della RSU, delle organizzazioni sindacali e delle istituzioni, nonché la presentazione di un piano sociale che avrebbe dovuto – sempre secondo il disposto della legge Orlando-Todde 234/2021 – tenere in considerazione anche il piano di reindustrializzazione elaborato dai lavoratori, optando per il più subdolo dei tentativi: il logoramento attraverso il mancato pagamento degli stipendi e la proposta di accordi individuali con buonuscite inferiori a diecimila euro.

La cassa integrazione è infatti cessata a dicembre 2023. È una brutta storia quella di un sussidio pubblico, che nasce e resta un diritto dei lavoratori da non mettere minimamente in discussione, messo a disposizione però, in assenza di qualunque piano industriale e credibilità della proprietà, del logoramento del corpo operaio.

Una forma surrettizia di mobbing che ha indotto centinaia di dimissioni in questi anni che di volontario hanno solo l’apparenza avendo invece il corpo e la sostanza dei licenziamenti. Emblema inoltre di un intervento pubblico malato, come diremo in conclusione, dato che l’ammontare complessivo della cassa integrazione erogata in Gkn supera i 55 milioni di euro nel biennio 2022-2023. Qui avevamo ricostruito i tratti atipici e malati della cassa straordinaria e retroattiva, richiesta da Borgomeo e accolta infine dal Ministero nello scorso maggio 2023, nel caso della vertenza Gkn.

Si trattava di un ammortizzatore non motivato dalla cessazione dell’attività, nonostante la messa in liquidazione dell’azienda, ma una cassa in deroga senza causale specifica, concessa a un’azienda che prima della chiusura aveva un bilancio in attivo e che Borgomeo aveva rilevato con il compito di farla ripartire. La cassa in deroga retroattiva rappresentava una novità legislativa recente, introdotta nel “decreto lavoro” dello scorso 1 maggio, poi convertito in legge: come vedremo sotto, uno dei molteplici regali alle imprese del governo italiano in carica. L’ammortizzatore, inoltre, non era stato concordato con le rappresentanze sindacali e non è dunque vincolato ad alcun accordo. Nonostante tutto ciò, essa ha consentito fino a dicembre 2023 di tirare il fiato alle trecento famiglie sempre più strette nella morsa della discontinuità di reddito, del carovita e della morosità incolpevole. 

Foto Gianmarco Tavolieri

Con una cifra assai inferiore, le stesse istituzioni avrebbero potuto acquisire lo stabilimento e far ripartire la produzione su iniziativa pubblica. Eppure, quelle istituzioni politiche hanno sinora preferito il logoramento della cassa integrazione alla reindustrializzazione produttiva e socialmente utile del sito. Il Ministero si è fatto carico del tentativo di logorare e cuocere a fuoco lento, gli operai attraverso l’erogazione della cassa in deroga, mentre le proposte di buonuscite individuali da parte della proprietà dovevano poi chiudere i giochi, convincendo così gli operai ad abbandonare la lotta e trovare occupazione altrove.  Cessata la cassa integrazione e dichiarati illegittimi i licenziamenti, da gennaio l’assedio si è poi tradotto nella mancata (e illegale) erogazione degli stipendi e nell’assenza totale di qualunque forma di reddito, nonostante gli operai siano ancora dipendenti dell’azienda. 

Il 21 marzo scorso il liquidatore di QF, la società attualmente proprietaria dello stabilimento, si è presentato ai cancelli con vigilantes di una società laziale di investigazioni private. Con il suo ingresso ha dimostrato, contrariamente a quanto sostenuto per mesi, che lo stabilimento è agibile.

Ciononostante ha replicato con narrazioni distorte all’allontanamento dei bodyguard dal presidio e ha chiesto, viste «le denunce presso la procura di Firenze, Roma, Frosinone, visto l’ immobilismo della prefettura di Firenze e i fatti gravi, ivi inclusi rave party» (sic!) un “tavolo di sicurezza” al Ministero dell’Interno. Poche ore dopo la provocazione subita, centinaia di solidali si radunavano insieme agli operai ai cancelli dello stabilimento.

Restava il tentativo di trasformare un tavolo sociale e occupazionale, quello voluto da sindacati e Regione e che si sarebbe dovuto tenere – come è poi infatti avvenuto – il 26 marzo al Ministero delle imprese e del Made in Italy, in un tavolo di ordine pubblico. Il più classico dei tentativi padronali di trasformare una questione sociale in questione di ordine pubblico: un diversivo maldestro per non parlare di reindustrializzazione dal basso, transizione ecologica, stipendi non pagati, interessi speculativi sullo stabilimento e del ruolo dello stesso Borgomeo – il quale, lo ricordiamo, a oltre due anni dalla torbida acquisizione dell’azienda, non ha mai presentato un piano industriale, ma solo iniziali quanto confuse e vuote promesse su una presunta transizione alla produzione farmaceutica –  nel completamento della delocalizzazione avviata da Melrose.

«L’avversario politico diventa un delinquente comune e quindi la legge lo colpisce come tale», risuonano drammaticamente attuali le parole pronunciate da Concetto Marchesi in Assemblea Costituente discutendo proprio di libertà fondamentali e di ordine pubblico. Quella legge ancora non esiste. La legittimità sociale di un presidio operaio è in grado da quasi tre anni di privare di efficacia ogni sanzione formalmente applicabile. L’invocazione del potere esecutivo da parte dell’espressione del peggior capitalismo italiano può però purtroppo cambiare le cose. Così, il Collettivo di fabbrica coglie la portata degli eventi: «Se il movimento sindacale, le lotte sociali, e perfino le cosiddette forze democratiche – qualsiasi cosa voglia dire questo – non capiscono che ormai qua la partita è ampia e devastante, noi ci possiamo solo dichiarare sereni: se alla fine di questa vicenda saremo chiamati banditi e non partigiani del lavoro, Gkn sarà l’ ultimo dei problemi». 

Un drone ha sorvegliato per tre giorni il Festival, forse l’unico evento di letteratura a poter vantare tale privilegio. Guardie private si aggiravano intorno al perimetro dello stabilimento. Sintomi della «psicosi aristocratica verso l’operaio che parla, scrive, racconta», come l’ha definita Dario Salvetti. Ma anche della risoluzione della proprietà a spazzare via l’assemblea permanente. Niente lascia quindi sperare che le prossime settimane saranno migliori. Solo l’intervento pubblico può cambiare le cose.

Lotta di classe e intervento pubblico

Come già analizzato su queste pagine, gli operai hanno sviluppato un piano di reindustrializzazione autonomo, scritto dal basso, dal punto di vista operaio ed ecologico, insieme a un gruppo di ricerca solidale, che include ricercatorə solidali di economia, ingegneria, storia, diritto e sociologia. La produzione di pannelli fotovoltaici e di mezzi per la mobilità leggera sono le due direttrici del piano. Sin dalle prime mosse di questa ipotesi politica, la riconversione ecologica e sostenibile del sito produttivo passa in parte attraverso la costituzione in più fasi di un azionariato popolare, in parte attraverso un intervento pubblico. 

Sin dalle prime battute della lotta, gli operai della Gkn mostrano una consapevolezza politica: per la tutela del salario e dei contratti e per puntare alla vittoria, la loro non può essere una battaglia difensiva – una tradizionale, seppur radicale nelle pratiche e nella massificazione, battaglia sindacale per la difesa dei posti di lavoro –, ma una lotta controffensiva e tout court politica.

Il settore dell’automotive è duramente colpito dalla spirale inflattiva e dagli obiettivi green delle politiche europee. Si registra un calo drastico di oltre il 30% rispetto alle immatricolazioni pre-pandemiche e anche la filiera dell’elettrico, malgrado i sussidi pubblici, non decolla – con le auto elettriche in calo nel 2022, per la carenza di infrastrutture di rifornimento e, più in generale, di una politica industriale capace di dare una direzione chiara agli investimenti. La crisi apre scenari di una de-industrializzazione acuta in Toscana, dove si contano oltre duecento aziende impegnate nella filiera, con 5mila addetti diretti e 13mila indiretti a rischio. La convergenza della lotta operaia con i movimenti ecologisti e l’elaborazione del piano di reindustrializzazione dal basso scrive una nuova pagina dell’ambientalismo operaio, che prosegue la lunga storia delle lotte degli anni Settanta contro la nocività del lavoro e per la salubrità dell’ambiente. Guardando sia dentro che fuori alla fabbrica.

La fase 1 del crowdfunding, rivolto alla solidarietà nazionale e internazionale intorno a Gkn, fu entusiasmante e raggiunse in un batter di ciglio oltre il doppio della cifra preventivata (174.000 €). La fase 2 dell’azionariato popolare, per l’acquisizione di quote all’interno della società cooperativa GFF (Gkn-for-future), si è conclusa attestando una grande partecipazione e un buon successo, oltre i 700.000€. L’azionariato popolare ha raccolto partecipazione, consapevolezza, sostegno. Abbiamo contato 350 persone fisiche e 84 persone giuridiche (associazioni nazionali, circoli, sindacati, reti fuori mercato, ecc.). Più di 100.000€ sono arrivati da azionisti stranieri (Francia, Spagna, UK, Germania, Austria, Svizzera, USA, Slovenia, Olanda, Portogallo). Lə azionistə diventano parte dell’assemblea della cooperativa, esercitando un controllo sociale sul processo di reindustrializzazione. Nella stessa assemblea, lə sociə lavoratorə saranno così affiancatə da sociə sostenitorə: cittadinə, associazioni, delegatə sindacali, solidali, movimenti climatici.

Tuttavia, esso non può sostituire l’intervento pubblico: lo sfida, gli mette pressione e toglie alibi, lo affianca in una compenetrazione di “pubblico” e di “comune”. Lo stabilimento, secondo il progetto di reindustrializzazione dal basso, deve essere rilevato dal pubblico e messo a disposizione del condominio industriale. Purtroppo, finora, la necessità dell’intervento pubblico non ha ancora trovato alcuna risposta e rappresenta dunque la fase “finale”, decisiva, interamente politica, della lotta. 

Foto Gianmarco Tavolieri

Da pochi giorni è stata presentata la proposta di legge regionale per la costituzione di un consorzio industriale e lo sviluppo di un polo di eccellenza della mobilità leggera e delle rinnovabili. È lo strumento di cui ha deciso di dotarsi il Collettivo di fabbrica per dare sostanza alla campagna sull’intervento pubblico.

Il testo della proposta disciplina le modalità di costituzione e funzionamento di questi consorzi industriali: enti pubblici economici che svolgono attività strumentali a quelle finali di produzione di beni e servizi svolte dalle imprese coinvolte. Tra queste, l’acquisto di uno stabilimento e il finanziamento del progetto di reindustrializzazione, conservando la destinazione industriale di luoghi produttivi colpiti da processi di deindustrializzazione che stanno colpendo ovviamente anche la Toscana. Si tratta di uno strumento normativo che permetterebbe di adempiere all’obiettivo di conservazione del legame tra i territori e gli insediamenti produttivi che vi insistono. Di fronte a una proprietà che non presenta alcun piano industriale e si è disconnessa da qualsiasi funzione produttiva e utilità sociale della fabbrica, con probabili progetti di natura immobiliare e speculativa, l’intervento pubblico regionale che viene rivendicato è anzitutto quello di “affittare o acquisire” gli stabilimenti di aziende o rami di azienda a rischio di delocalizzazione. Alla Regione Toscana viene dunque chiesto di stimolare «lo sviluppo di attività produttive nei settori della mobilità leggera e sostenibile così come in quello delle energie rinnovabili», supportando processi innovativi e cooperativi, in sinergia con il territorio circostante, garantendo al tempo stesso la formazione di occupati e inoccupati, «prioritariamente attraverso il recupero, l’utilizzazione, la riconversione e la valorizzazione di aree produttive dismesse, nonché al fine di attivare azioni di reindustrializzazione […] finalizzate al recupero e alla riqualificazione degli insediamenti esistenti».

Il Consiglio regionale dovrebbe farsi carico di discutere e approvare la legge. Quindi un ente tra quelli elencati come possibili promotori del Consorzio (enti pubblici locali, Comuni, province, camere di commercio, università, ma anche associazioni di imprenditori e di cooperative, istituti di credito) dovrebbe attivarsi per costituire un primo consorzio industriale che favorisca la reindustrializzazione, attraverso il piano elaborato dagli operai e la loro cooperativa, dello stabilimento della ex-Gkn di Campi Bisenzio. Sarebbe un’alternativa regionale – quindi su un piano certo inadeguato rispetto ai processi di deindustrializzazione che stanno colpendo il settore automotive in tutto il paese – all’assenza di politiche industriali cui l’attuale governo di centrodestra, in piena continuità con i predecessori, non sta dando alcuna risposta a livello nazionale. 

Accanto alla questione dell’intervento regionale sullo stabilimento, naturalmente quella dei finanziamenti, in cui il sostegno pubblico si profila su più fronti: oltre a quello regionale, l’anticipo dei 24 mesi di Naspi che spetterebbero a ciascun socio dipendente, procedura prevista per la pratica di auto-recupero (Workers Buyout) di un’impresa in forma cooperativistica; infine, l’intervento di Cfi (Cooperazione Finanza Impresa), investitore istituzionale sui progetti cooperativi, partecipato e vigilato dal Ministero – insieme a Invitalia, ai fondi mutualistici di Legacoop e Confcooperative, ecc. – che potrà finanziare il capitale sociale dell’impresa se la liquidazione della ex-Gkn è considerata come un fallimento aziendale non dichiarato e su cui dunque applicare la legge Marcora (l. 49/1985, che destina fondi per la formazione di cooperative di ex-dipendenti di aziende in crisi).

L’intervento pubblico a cui il Collettivo si richiama implica un controllo sociale diffuso, crescente, dal basso, per destinare la spesa pubblica a finalità sociali positive e contenderla all’immobilismo, all’inefficienza e alla dispersione del capitale privato.

Il grande capitale privato non ha interesse all’intervento pubblico se non in perdita. Il pubblico si è fatto carico di mantenere dormienti gli operai attraverso l’erogazione della cassa in deroga, cuocendoli a fuoco lento. Come già scrivevamo, governo e Regione, in buona o in mala fede, con la propria inazione hanno contribuito a logorare lentamente la lotta. Disinteressati a sviluppare una politica industriale pubblica, la loro tattica è fin troppo evidente: non fare nulla, lavarsene le mani, perdere tempo in attesa che lo stabilimento, privo di alternative, possa essere svuotato e svenduto. 

Il capitalismo neoliberale, alle nostre latitudini, è oggi pesantemente sostenuto dall’intervento pubblico. Secondi i dati Istat, nel 2023 le imprese private italiane hanno percepito aiuti e sussidi per oltre 55 miliardi di euro, circa sette volte quella che era la spesa complessiva annua per il reddito di cittadinanza, accusato proprio da Confindustria di trasformare l’Italia in un “Sussidistan” e prontamente abolito dal governo Meloni. Di questi, 23,8 miliardi di euro sono stati erogati come contributi alla produzione e 31,4 miliardi di euro come contributi agli investimenti, di cui una componente significativa derivano dai fondi dell’Industria 4.0. Risorse che quindi arrivano sia dall’Italia che dall’Ue. 

Foto di Gianmarco Tavolieri

Incentivi alla (ora ex) Fiat, fiumi di denaro destinati all’Alitalia, il sostegno all’industria del cemento, del mattone, delle armi. Ogni anno decine di miliardi di euro finiscono nelle casse delle aziende sotto forma di sussidi alla produzione o alle esportazioni, incentivi fiscali e contributivi, oltre che sostegni agli investimenti. Ma, in assenza di una politica industriale e di una legislazione in difesa del lavoro, il beneficio dell’intervento pubblico è stato tutt’altro che pubblico, insieme al fatto che negli ultimi decenni molte imprese hanno spostato la produzione in Paesi con un minor costo della manodopera o leggi più vantaggiose.

Dopo aver preso tonnellate di fondi pubblici, infatti, le aziende dismettono e lasciano dietro di sé solo macerie, come la ritirata dal paese della Stellantis al centro delle mobilitazioni sindacali al Lingotto in queste settimane. Intanto Stellantis continua a battere i pugni sul tavolo dell’intervento pubblico: dopo l’ottenimento di incentivi per un miliardo, lo scorso febbraio ha chiesto ancor più soldi pubblici per garantire la continuità produttiva di Mirafiori e Pomigliano, scatenando la reazioni dei sindacati. Quello preteso era un ulteriore intervento italiano di altri 6 miliardi da qui al 2030, nel continuo braccio di ferro tra Roma e Parigi sulle quote della società franco-italiana. In nessun caso, tuttavia, l’eclissi della produzione automobilistica in Italia, con il progressivo disinvestimento dell’ex Fiat nel nostro Paese, sembra destinato ad eclissarsi, nonostante un bilancio societario a dir poco ricco di utili. La stessa transizione verso il motore elettrico si è rivelata un ottimo volano per la pretesa di ancor maggiori incentivi.

L’industria italiana da sempre beneficia di enormi sussidi pubblici e di un costo del lavoro relativamente basso, non investe capitali propri e tanto meno lo ha fatto in ricerca e sviluppo, mantenendo basso non solo il costo del lavoro, ma anche la produttività.

In assenza di una strategia industriale, la miriade di imprese italiane di media dimensione, molto spesso fornitrici dell’industria tedesca, sono deboli e ricattabili all’interno delle filiere internazionali. Così, anche nel settore dell’automotive, il calo delle commesse da Stellantis e la diminuzione degli ordini dal mercato tedesco sta mettendo in ginocchio l’occupazione e determina una crisi senza precedenti: molte vertenze come quella della ex-Gkn ci aspettano. La presenza di fondi finanziari e di soggetti speculativi, che si aggirano come avvoltoi intorno a queste crisi aziendali e occupazionali (specie di medie aziende produttrici di componentistica) non è quindi casuale: fiutano il business della deindustrializzazione. 

Da un lato la proposta di legge e la reindustrializzazione, dall’altro la mobilitazione: due piani inscindibilmente legati e dipendenti l’uno dall’altro. Il 19 aprile lo sciopero globale per il clima lanciato da Fridays For Future porterà nelle piazze la campagna sull’intervento pubblico legando la vertenza Gkn a una proposta generale di ripensamento del ruolo dello Stato nell’economia e per la transizione ecologica nei termini che abbiamo sopra descritto. Poi il 20 aprile a Milano, dove si uniranno alla convergenza tra movimenti ecologisti e Collettivo di fabbrica anche i movimenti palestinesi per chiedere anche un cessate il fuoco immediato e permanente in Palestina. Quindi un “tenetevi liberi per il 18 maggio” lanciato dal Collettivo di fabbrica: due giorni prima dell’anniversario dell’approvazione della legge 300/1970, lo Statuto dei lavoratori che rappresenta un patrimonio di diritti sindacali messo sempre più in discussione. E che questa vertenza, con la sua capacità di riadattare gli strumenti a mutate condizioni, tutela e promuove. Nella ferma convinzione che sia il movimento dei lavoratori, tanto dentro che fuori alle organizzazioni sindacali, la più grande centrale di promozione, con scioperi, contrattazione collettiva e assemblee permanenti, di una vita qualitativamente migliore

Andrea Moresco, Giorgio De Girolamo

13/4/2024 https://www.dinamopress.it/

foto di copertina Gianmarco Tavolieri

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