L’insalata dello sfruttamento

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«Per alcuni anni siamo stati costretti a lavorare anche 16 ore al giorno. In un mese arrivavamo a sostenere quasi 340 ore di lavoro. Lavoravamo spesso anche la domenica. Eravamo tutti stranieri, ci sembrava normale lavorare così tanto. I sindacati in fabbrica non si sono mai visti, per anni e anni non abbiamo mai fatto una assemblea. Solo lavoro, lavoro, lavoro». A parlare così è Amit (il nome è di fantasia, ma la sua storia è vera) giovane operaio di nazionalità indiana, che racconta: «Eravamo umiliati continuamente dai nostri responsabili. È capitato persino che c’abbiano tirato delle piante in faccia, quando facevamo errori durante la lavorazione, o anche qualche minuto in ritardo per essere andati in bagno». E ancora, si sfoga Amit: «Una volta uno di noi è morto all’interno del reparto dove lavorava, e l’azienda si è rifiutata addirittura di pagare le spese per il trasporto della salma in patria».

L’azienda è la Ambruosi & Viscardi, con sede nelle Marche, a Sant’Elpidio a Mare, in provincia di Fermo, tra le leader italiane – con un fatturato annuo che si attesta attorno ai 30 milioni di euro -nella coltivazione, commercializzazione e distribuzione in busta di insalata riccia, scarola, spinaci e radicchio rosso.

Loro sono Amit e più di un centinaio di suoi colleghi, per lo più indiani sikh, molti dei quali hanno varcato la prima volta i cancelli della fabbrica più di 10 anni fa, e oggi ne sono stati estromessi, «solo perché, attraverso la loro organizzazione sindacale, hanno rivendicato i loro diritti».  Racconta  Ylenia Gironella, responsabile del sindacato Si Cobas delle Marche: «Stare accanto a questi operai è una vera e propria esperienza di vita ancor più che di lotta. Raramente ho visto una organizzazione, una compattezza, una tenacia, un fervore che a tratti è emozionante, una forza espressa in questo modo. Così come raramente ho avvertito un senso così forte di nauseabonda repulsione per le falsità che in questi mesi sono state riversate sulla lotta di questi 140 lavoratori».

La lotta di cui parla Ylenia Gironella è quella che ha visto il suo culmine lo scorso 21 dicembre, quando gli operai hanno manifestato la loro rabbia sfilando per le vie del centro di Fermo «anche a nome anche di quelle migliaia di lavoratori e lavoratrici della filiera agroalimentare ancora invisibili e sotto ricatto di un sistema che sfrutta, opprime ed evade in nome del profitto a tutti i costi», così si leggeva in un volantino preparato per l’occasione. In realtà i lavoratori erano in mobilitazione davanti ai cancelli della fabbrica già dallo scorso 28 ottobre; dal giorno in cui ai 140 dipendenti dell’azienda agricola Ambruosi-Viscardi di Porto Sant’Elpidio (Fermo) iscritti al sindacato Si Cobas è stato impedito dall’azienda l’accesso al lavoro.

«Perché la loro colpa era stata quella di aver aderito la settimana precedente allo sciopero generale nazionale della categoria indetto proprio dal sindacato autonomo». Spiega ancora la sindacalista, Ylenia Gironella: «Da più di un mese Ambruosi-Viscardi si rifiuta di ricevere il nostro sindacato, e, tramite il proprio legale, giustifica il suo operato aggrappandosi alla formalità del CCNL agricoltura che prevede l’utilizzo flessibile della manodopera». In verità, prosegue Gironella: «Proprio dal punto di vista giuridico la questione non torna. Perché i lavoratori della Ambruosi&Viscardi sono stati assunti, per anni e anni, con contratti a tempo determinato di breve durata che si avvicendavano nel corso dell’anno. E, dunque, proprio in virtù dell’articolo 23 del contratto collettivo nazionale, il ricorso continuo alle assunzioni a tempo determinato senza vincolo di durata determinerebbe il diritto alla conversione dei rapporti di lavoro in tempo indeterminato. Non certo al licenziamento in tronco».

Conclude la sindacalista: «Questa storia ha avuto il merito, però, di far venire fuori i fantasmi nascosti nel cassetto dell’azienda in questione, insieme ai comportamenti antisindacali tenuti dalla stessa, ed avallati dai sindacati confederali, che in tutti casi fanno il paio con tutta una serie di vicende nefaste di sfruttamento dei lavoratori che coinvolgono alcune fabbriche leader del sistema agroalimentare italiano».

I FANTASMI NELL’ARMADIO DELLA AMBRUOSI – VISCARDI

È accaduto, infatti, che in seguito ai licenziamenti dei 140 operai, gli stessi hanno raccontato al sindacato i meccanismi alla base della lavorazione degli alimenti, mettendone un dubbio la qualità. In particolare, hanno riferito le cattive condizioni igieniche – sanitarie in cui sono stati costretti ad operare, laddove è capitato che i lavoratori addetti alle lavorazioni degli alimenti sono stati impiegati, contestualmente, persino nelle opere di pulizia delle condotte di scarico. E, allo stesso tempo, è ritornata di attualità una vicenda di inquinamento del territorio marchigiano in cui l’azienda Ambruosi – Viscardi era stata coinvolta in passato. Il cui vertice era stato denunciato dal corpo forestale dello Stato per danneggiamento aggravato di acque pubbliche, gettito pericoloso di cose, e smaltimento illecito di rifiuti, perché «la ditta utilizza i materiali prodotti dalla centrale a biogas per la fertilizzazione dei terreni e li mescola con l’acqua per spargerli, poi, al suolo.  Il terreno, però, va preparato, ieri non era compatto e il liquido non è stato assorbito ed è tracimato nel fiume», spiegò allora il responsabile locale della Forestale, denunciando lo «sversamento illecito di liquami nei fiumi Chienti ed Eta».

L’INDUSTRIA ITALIANA E LA REPRESSIONE DEL SINDACATO AUTONOMO  

In tutti i casi, la vicenda Ambruosi – Viscardi, al di là persino dello sfruttamento dei corpi a cui sono sottoposti i lavoratori, è emblematica di una vera e propria offensiva politica e repressiva portata avanti su vari livelli e con diversi metodi, in varie città italiane, contro i lavoratori iscritti ai sindacati autonomi. Da Modena a Tortona, da Brescia a Fermo, appunto. Si va dall’ordinario cambio appalto con mancato rinnovo degli iscritti, ai licenziamenti mirati allo scopo di far fuori il personale sindacalizzato. Emblematica, in questo senso, è la delegittimazione subita dallo stesso  Si Cobas nel 2018, quando il suo coordinatore nazionale, Aldo Milani, viene arrestato mentre conduce una vertenza nei confronti dell’azienda Alcar Uno che commercializza carne proveniente dall’Europa e dall’estero, per conto della famiglia Levoni, un’azienda che conta 200 dipendenti e un fatturato annuo di oltre 100 milioni di euro.

Accade che un ramo d’azienda della proprietà fallisce, lasciando una parte dei lavoratori senza stipendio, senza Tfr, e senza il pagamento delle ferie mai godute. Milani in quel momento conduceva in prima persona le trattative. Più in generale, nella zona della provincia di Modena dove ha sede la Levoni, il sindacato Si Cobas aveva denunciato diverse cooperative dedite al più selvaggio sfruttamento nella filiera della lavorazione delle carni nella provincia di Modena. Milani finisce così in cella vittima di un vero e proprio teorema giudiziario. Accusato di aver estorto denaro alla famiglia Levoni durante una trattativa sindacale, così come è mostrato in un video-farsa ripreso dalle telecamere della polizia che viene mostrato su tutte le reti televisive nazionali. Aldo Milani, l’anno dopo, viene assolto con formula piena dal tribunale di Modena perché «esigere i diritti dei lavoratori non è estorsione», e, durante il procedimento, «viene inoltre resa pubblica una intercettazione in cui il capo della Digos di Modena, Marco Barbieri, al telefono con Lorenzo Levoni, proprietario di Alcar Uno e Global Carni, esulta per l’arresto di Milani», racconta una fonte sindacale che allora aveva preso parte al dibattimento in aula.

Dunque, l’altra faccia dello sfruttamento a cui vengono sottoposti i lavoratori dell’industria italiana, è la criminalizzazione dell’appartenenza sindacale autonoma. Sono decine, infatti, in tutta Italia, i casi di misure giudiziarie ingiuste che hanno colpito i lavoratori iscritti al Si Cobas. Ne sanno qualcosa i 21 lavoratori e le 2 studentesse (di 17 e 18 anni) multati nei giorni scorsi, ognuno per 4000 euro, per aver partecipato ad una protesta sindacale davanti ai cancelli dell’azienda tessile Tintoria Superlativa, a Prato. Di fronte, dunque, a realtà produttive, come ve ne sono in tutta Italia, dove si assiste alla negazione di diritti elementari come quelli alla malattia e le ferie, e a salari da fame, una realtà contro cui i lavoratori colpiti dalle multe si stanno battendo, capita di imbattersi anche nella prima applicazione a livello nazionale dei nuovi strumenti di limitazione delle libertà democratiche introdotti dal Decreto Sicurezza. È la repressione sociale, l’altra faccia dello sfruttamento dei corpi.

Gaetano De Monte

8/1/2020 www.dinamopress.it

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