Lo spettro delle riforme: il fascino del Capo e il premierato

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Lo spettro delle riforme, come fiume carsico, a tratti riemerge in cerca un posto al sole e, nel frattempo, sotterraneo, erode il terreno della democrazia, di una democrazia – quella disegnata nella Costituzione – sociale e conflittuale, quando non si materializza in revisioni della Costituzioni distoniche come l’inserimento del principio di pareggio di bilancio e la riduzione del numero dei parlamentari. Oggi si presenta con un doppio volto: il rafforzamento dell’esecutivo – presidenzialismo, premierato – e l’autonomia differenziata à la Calderoli.

La rappresentanza simbolica, identitaria e unitaria evocata dall’elezione diretta del vertice dell’esecutivo stona con l’immagine di venti piccoli stati o della secessione delle macroregioni ricche, ma con l’autonomia differenziata condivide la neutralizzazione della democrazia come sostanziale. Il regionalismo à la Calderoli istituzionalizza la diseguaglianza, sostituisce la competitività alla solidarietà e mistifica, attraverso la riduzione ad un (fantomatico) contenuto essenziale, la garanzia dei diritti. La delega acquiescente ad un decisore svuota il senso della sovranità popolare, la cui essenza è nella partecipazione effettiva (art. 3, c. 2, Cost.), riducendola ad un simulacro.
Sul fascino della decisione, del Capo, quale asse portante di una visione dei rapporti sociali e politici, e, insieme, un canto della sirena, un evergreen quanto a strumento di distrazione sociale e marketing politico, vorrei qui riflettere.

Nel programma di Fratelli d’Italia per le elezioni politiche del 25 settembre 2022, ad essere richiamato è il “presidenzialismo”, come riforma tesa ad «assicurare la stabilità governativa ed un rapporto diretto tra cittadini e chi guida il governo»; nella Dichiarazione finale del confronto fra il Governo e le opposizioni sulle riforme istituzionali del 9 maggio 2023, la (il) Presidente del Consiglio Giorgia Meloni registra la presenza di «una chiusura abbastanza trasversale, più netta, su sistemi di modello presidenziale o semipresidenziale» e di una «valutazione» «più variegata nell’ipotesi di una elezione diretta del Presidente del Consiglio, del Capo del Governo». La formula al momento più citata – nella cui direzione si muove anche la recente proposta di Renzi, sulla quale non intendo sprecare tempo e parole – è il premierato.

“Premierato” è una espressione, che, in prospettiva comparata, evoca la forma di governo inglese, ovvero la centralità del Primo ministro; nella vulgata politica odierna rinvia ad una eterogeneità di forme: modello Westminster, breve (e fallimentare) esperienza neoparlamentare israeliana (1996-2001), Cancellierato tedesco, o, per restare in Italia, “governatorato” regionale, “sindaco d’Italia”.

È un premierato al momento sfuggente e informe, dalla sembianze cangianti a seconda dei tratti che il riformatore sceglierà per comporre il puzzle del suo volto; limitandosi ai connotati più diffusi, si possono citare: l’elezione diretta del premier, con o senza la formula simul stabunt, simul cadent (sul modello regionale e comunale), l’indicazione del futuro Primo ministro sulla scheda elettorale, la previsione di premi di maggioranza, l’attribuzione al Presidente del Consiglio del potere di scioglimento delle Camere, l’introduzione di variazioni sul tema della sfiducia costruttiva, l’istituzione di canali legislativi privilegiati per il Governo, il potere del Primo ministro di nomina e di revoca dei ministri.

In sintesi, i contorni della riforma sono ancora nebulosi, ma l’obiettivo, dichiarato e perseguito, è chiaro: rafforzare e concentrare poteri nel vertice dell’esecutivo.

Preciso: rafforzare e concentrare ulteriormente poteri nel governo e nel suo vertice. Esiste già un premierato “di fatto”: il processo verso il premierato, una gramsciana rivoluzione passiva, è iniziato surrettiziamente attraverso le leggi elettorali (il primo passo è stata la svolta in senso maggioritario del 1993) e l’abuso dei poteri del governo, con l’acquiescenza del Parlamento e troppo rari e troppo “leggeri” interventi del Presidente della Repubblica, sino ad invertire il rapporto di responsabilità politica: è il Parlamento ad essere responsabile nei confronti del Governo nel ratificare in modo rapido ed efficiente le sue decisioni.

Il premierato appare prima facie una modalità di scelta del Capo meno “appariscente” del presidenzialismo e del semipresidenzialismo, ma non per questo meno pericolosa per gli equilibri e la limitazione del potere propri di una democrazia costituzionale. Non necessariamente il premierato è il “male minore” rispetto a declinazioni presidenzialiste e semi-presidenzialiste; tutt’altro, dipende da quale premierato, quale presidenzialismo, quale semi-presidenzialismo, come incidono sulla limitazione del potere, in quale contesto si inseriscono.

La forza del Primo ministro è costruita erodendo l’equilibrio dei poteri e le competenze proprie degli altri organi costituzionali, ovvero attraverso una concentrazione e verticalizzazione del potere. Qualche breve osservazione sul punto. La marginalizzazione dei consigli comunali e regionali correlata all’elezione diretta del Sindaco e del Presidente della Regione rende facile il pronostico su quanto accadrà ad un Parlamento già agonico con l’eventuale elezione diretta.
Non resterebbe indenne nemmeno il Presidente della Repubblica: nella versione di premierato che contempla l’elezione diretta del Primo ministro, il Presidente della Repubblica perde il potere di nomina del Governo; con la formula simul stabunt, simul cadent è privato altresì del potere di scioglimento delle Camere; non pochi propongono, inoltre, di trasferire in ogni caso la decisione in materia di elezioni anticipate al Governo. Si ragiona delle competenze potenzialmente più incisive del Presidente della Repubblica.

Il fascino del rafforzamento dell’esecutivo è ricorrente. È il mantra – bipartisan – dei riformatori che hanno accompagnato la storia repubblicana, dei tentativi – dai più “blandi” della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali “Bozzi” (1983-1985), passando per la Commissione parlamentare per le riforme istituzionali “De Mita-Iotti” (1992-1993), al crescendo di verticalizzazione in senso semipresidenziale della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali “D’Alema” (1997-1998) – come delle riforme “Berlusconi”, nel segno del “premierato assoluto”, e “Renzi-Boschi” (in connubio con l’Italicum), rispettivamente respinte dai referendum oppositivi (non confermativi) nel 2006 e 2016.

È il fascino di «un Governo nella sua più alta ma anche più concreta significazione di Istituto atto a risolvere nel modo più rapido, fermo e univoco tutte le molteplici questioni che nell’azione quotidiana si presentano, non
impacciato da preventive compromissioni, non impedito da divieti insormontabili, non soffocato da dissidi, non viziato nella origine da differenze ingenite di tendenze e di indirizzi». L’Autore del passo è Mussolini, nel dibattito sulla legge Acerbo.

La storia non si ripete mai allo stesso modo, ma vi sono delle ricorrenze. La limitazione del potere, quale nucleo fondante del costituzionalismo, nasce dal conflitto che attraversa la storia intorno al potere e all’eguaglianza. La contenzione del potere è sempre precaria: la Costituzione è scritta nei momenti di lucidità per i giorni di follia e «gli occhi spalancati» dell’«angelo della storia» ci ricordano che la follia è il quotidiano dell’esistenza che «accumula senza tregua rovine su rovine» (Benjamin).
La verticalizzazione del potere è una tendenza globale, che accompagna l’ascesa del neoliberismo, l’abbraccio mortale del capitalismo alla democrazia; basti ricordare l’«eccesso di democrazia» lamentato dalla Commissione Trilaterale (1975) e gli «esecutivi deboli» oggetto delle critiche della J. P. Morgan (Report del 2013).

La concentrazione del potere segna – insieme alla repressione del dissenso, alla sterilizzazione del pluralismo, all’abbandono dell’orizzonte dell’emancipazione sociale (sostituito dalla logica meritocratica e dalla colpevolizzazione della povertà) – la «lotta condotta dall’alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere» (Gallino), la degradazione della democrazia in postdemocrazia (Crouch), il suo scivolamento nell’“autocrazia elettiva”.
Sfumano i contorni della dicotomia “democrazia-autocrazia”, in un mondo che si tinge politicamente di nero. Il premierato non è di per sé espressione di autocrazia o conduce necessariamente ad essa – dipende da quale premierato – ma il rischio che si inserisca in una involuzione autoritaria è acuito dal contesto.

Il terreno sul quale si vorrebbe innestare il premierato è politicamente arido. Non è solo questione delle drammatiche percentuali di astensione dal voto o della disaffezione politica; l’aridità ha seccato le radici della società. L’humus sociale è saturato dal populismo, con la sua passività, il suo acritico affidamento, la sua propensione al decisionismo. È un populismo identitario (quell’identità che Remotti riconduce in ultima istanza ad una logica di sopraffazione), intriso di un nazionalismo conservatore all’insegna del “Dio, patria e famiglia”, e pervaso dalla logica schmittiana “amico-nemico”, che compatta in chiave escludente e contrappositiva la moltitudine disgregata e autoreferenziale dell’homo oeconomicus. È una società destrutturata nel legame sociale e nei suoi corpi intermedi dall’individualizzazione sfrenata; una società dove dilaga il dominio della tecnica, con la sua spoliticizzazione.
È un terreno fertile per la sostituzione della dialettica e della mediazione proprie di una forma di governo parlamentare con la decisione di un organo monocratico, il quale raffigura «l’uomo di fiducia di tutto il popolo» (Schmitt).

La rappresentanza da politica e plurale diviene simbolica e unitaria: la scelta del Capo.

Si coniugano la verticalizzazione istituzionale del potere e la personalizzazione propria del potere carismatico. È un potere carismatico che è transitato in «potere plebiscitario»; richiama quella che, nella classificazione weberiana, è la «democrazia plebiscitaria», «il più importante tipo di democrazia subordinata a un capo», dove il potere carismatico «si cela sotto la forma di una legittimità derivante dalla volontà dei sudditi» (Weber).

La cultura del Capo e dello scontro compresso nello schema dicotomico vittoria/sconfitta, con la sua traduzione elettorale in sistemi maggioritari o ad effetti maggioritari, con l’affidamento anestetizzante che favorisce, trovano un terreno ideale nel populismo identitario e convergono nell’espellere la prospettiva del conflitto e della discussione.
Per inciso, dagli elementi citati traspare la consonanza con il neoliberismo, con i suoi caratteri (competitività, perseguimento del successo ed espulsione del perdente nella meritocrazia della diseguaglianza) e con i suoi desiderata (neutralizzazione del conflitto, pensiero unico e TINA-There Is No Alternative, decisore rapido ed efficiente).
Il premierato si inserisce nell’orizzonte, riferendosi alle categorie gramsciane, di «cesarismo regressivo»; preciso: quel tipo di cesarismo regressivo che può esistere – cito ancora Gramsci – «anche senza un cesare, senza una grande personalità “eroica”».

Ultimo punto: la cultura del Capo si associa a quella della stabilità. È un mantra ricorrente, come l’altro termine oscuro, al quale spesso è associato, la governabilità, e ne condivide l’ambiguità.
La giustificazione per una ulteriore verticalizzazione del potere è la stabilità di governo, fine apparentemente neutro. Difficile negare che la stabilità possa essere “un bene”, sempre che non conduca all’ossimoro della democrazia senza conflitto; tuttavia, certamente non è un “bene in sé”, un fine ultimo; come per il concetto di “governabilità”, alcune domande sono d’obbligo: stabilità per chi, per che cosa e come?

Un governo stabile, in presenza di un pluralismo partitico adeguatamente rappresentato in un Parlamento forte, il cui indirizzo politico si rifà all’attuazione della Costituzione, è molto diverso da un governo stabile a scapito del pluralismo e della rappresentanza, nonché fedele in primo luogo all’agenda neoliberista. Come ricorda la Corte costituzionale, ragionando di sistema elettorale, costituisce «senz’altro un obiettivo costituzionalmente legittimo» lo «scopo di garantire la stabilità del governo del Paese e di rendere più rapido il processo decisionale» ma, se ciò consente «una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare», diviene «incompatibile con i principi costituzionali» (sent. n. 1 del 2014).

Se rafforzassimo, invece, la rappresentanza del pluralismo politico e il Parlamento?

Rafforzare il Parlamento (… ovvero, attuare la Costituzione) è una riforma necessaria: muovendo da una rappresentanza plurale (fondata su una legge elettorale proporzionale), (ri)-costruirlo come luogo di scontro e mediazione politica fra visioni del mondo, titolare dei propri lavori, soggetto attivo nel rapporto di responsabilità politica con il Governo.

Ingenuità da costituzionalista nell’era in cui sfuma vieppiù la distinzione fra democrazia e autocrazia? Forse, ma, per l’appunto, è questione di sopravvivenza della democrazia, della democrazia pluralista e conflittuale. La democrazia, se vuole essere effettiva, sostanziale, vive di partecipazione e di conflitto, altrimenti è maschera, mero strumento di gestione del potere e di mantenimento dell’ordine sociale.

Intendiamoci: in questa prospettiva un rafforzamento del Parlamento è necessario, ma non sufficiente. Fondamentale è la presenza (ricostruzione?) di soggetti politici collettivi in grado di rappresentare, in forma organizzata, visioni del mondo in un virtuoso moto circolare con la società, il pluralismo e i conflitti.

L’elezione diretta del premier rischia di sterilizzare artificialmente ogni possibile vivacità politica nel dualismo vincente/perdente, di congelare nella figura del Capo ogni dinamica politica e di passivizzare un elettorato già sufficientemente narcotizzato.
Ineliminabile, quindi, è il «vivente movimento delle masse» (Luxemburg), la forza dei conflitti sociali, come imprescindibile è il perseguimento dell’uguaglianza sostanziale.
E, in questo senso, la saldatura fra la diseguaglianza e la regressione rispetto alla connotazione sociale della democrazia che l’autonomia differenziata comporta, nel coniugarsi con “il presidenzialismo”, neutralizza simmetricamente la Costituzione come progetto sociale e politico.

La Costituzione del 1948, con le sue radici nella storia del costituzionalismo (della limitazione del potere, della garanzia dei diritti, dell’emancipazione), è un modo di intendere la democrazia, i rapporti sociali, il conflitto, il potere. In questione è, se non l’esistenza stessa della democrazia, quale democrazia?

Alessandra Algostino

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