Ma perché l’Italia non vuole i migranti economici?

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Il crollo degli ingressi per lavoro

Nell’ultimo anno, in Italia, sono stati rilasciati meno di 14 mila permessi per lavoro, appena l’1,2 per cento del totale europeo (0,23 ogni mille abitanti). Presi dalla lotta agli sbarchi, ci siamo dimenticati dell’“altra” immigrazione, quella che serve all’economia. Mentre è proprio uno dei paesi “cattivi”, la Polonia, che più apre le porte ai migranti economici: quasi 600 mila nel 2018.

Nel 2018, in totale, i permessi rilasciati dall’Italia (primo rilascio a cittadini non comunitari) sono stati 239 mila, a cui si aggiungono gli arrivi di cittadini comunitari, per i quali vale la libera circolazione. Tuttavia, tra il 2011 e il 2017, gli occupati comunitari sono aumentati solo di 60 mila unità, segno che quel flusso si va esaurendo, dopo il picco massimo con gli allargamenti dell’Ue del 2004 e 2007.

Se si guarda la serie storica, fino al 2010 i nuovi permessi erano oltre 500 mila all’anno, per poi subire un drastico calo dal 2011 a seguito della riduzione dei “decreti flussi”. Peraltro, neanche prima esisteva una vera e propria “programmazione”, dato che i flussi erano determinati principalmente dalle cosiddette “sanatorie”, ovvero regolarizzazioni “a posteriori”.

In ogni caso, fino al 2010 la prima componente dei permessi rilasciati era quella per motivi di lavoro (oltre 350 mila). Negli ultimi anni sono invece cresciuti gli “altri motivi”, soprattutto i motivi umanitari, senza comunque mai superare di molto quota 100 mila. I permessi rilasciati per ricongiungimento familiare sono rimasti sostanzialmente costanti, ma a partire dal 2011 sono diventati la prima voce.

Non è tutto: tra i 13.877 permessi rilasciati nel 2018 per motivi di lavoro, il 40,5 per cento è costituito da lavoratori stagionali e solo il 10,6 per cento è dato da mansioni altamente qualificate (ricercatori, lavoratori altamente qualificati, Blue card).

Figura 1 – Permessi di soggiorno rilasciati in Italia per motivo del permesso* (2009-2018)

* “Altri motivi” include: studio, rifugiati e protezione sussidiaria, motivi umanitari, minori non accompagnati, vittime di tratta, altro non specificato
Fonte: Elaborazioni Fondazione Leone Moressa su dati Eurostat

Gli ingressi per lavoro in Europa

Su 3,2 milioni di permessi rilasciati in Europa nel 2018, un quinto è in capo alla Polonia (683 mila). Seguono Germania (544 mila) e Regno Unito (451 mila), mentre l’Italia si colloca in sesta posizione. In Polonia, quasi il 90 per cento dei nuovi permessi è rilasciato per lavoro. L’Italia, invece, è solo in quattordicesima posizione per numero di permessi per lavoro (13.877): tra questi, 4 su 10 sono stagionali e solo 1 su 10 è altamente qualificato.

In relazione alla popolazione residente, poi, i 13.877 permessi per lavoro dell’Italia equivalgono ad appena 0,23 ingressi ogni mille abitanti: maglia nera europea. In doppia cifra, invece, Malta (21,40 permessi ogni mille abitanti), Polonia (15,72), Cipro (11,31) e Slovenia (10,17).

Figura 2 – Primi permessi per lavoro nei paesi Ue ogni mille abitanti (2018)

Elaborazioni Fondazione Leone Moressa su dati Eurostat (* dati 2017)

Perché converrebbe riaprire i flussi legali

L’analisi dei permessi di soggiorno consente di evidenziare alcuni aspetti, poco presenti nel dibattito quotidiano.

In primo luogo, nonostante il clamore mediatico sugli sbarchi, oggi in Italia arrivano molti meno immigrati rispetto a dieci anni fa, quando i permessi rilasciati erano più di 500 mila l’anno. L’ultimo decreto flussi di portata significativa risale al febbraio 2011 (con Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi e Roberto Maroni al Viminale), con quasi 100 mila ingressi autorizzati per lavoratori non stagionali.

Nel resto d’Europa, invece, gli ingressi per lavoro continuano. E proprio i paesi di Visegrad sono tra i più attivi nell’attrarre migranti economici: Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca, che in termini di popolazione incidono per il 13 per cento sul totale Ue, nel 2018 hanno rilasciato il 60 per cento di tutti i permessi di soggiorno europei per motivi di lavoro, consentendo l’ingresso a quasi 700 mila cittadini non comunitari.

L’Italia, in materia di politiche migratorie, sembra aver smarrito la strada della programmazione, concentrandosi sulla lotta ai barconi (e alle Ong che li soccorrono) e sulla gestione di un sistema di accoglienza problematico per svariate ragioni (sono sotto gli occhi di tutti i lunghi tempi di attesa, i casi di sovraffollamento, gli scarsi risultati in termini di integrazione e di qualità media dei servizi offerti).

La riapertura dei canali d’ingresso legali, invece, porterebbe un contributo essenziale al sistema produttivo e alle casse pubbliche, sotto forma di gettito fiscale e contributi previdenziali, in un contesto di natalità ai minimi storici e invecchiamento della popolazione.

Nei giorni scorsi, ad esempio, Confagricoltura Veneto ha denunciato l’esiguità delle quote d’ingresso di lavoratori stagionali. Secondo gli imprenditori agricoli, questa carenza “rischia di favorire il lavoro illegale”, mentre “ci sono decine di migliaia di residenti nelle liste di collocamento ma hanno scarsa disponibilità ad effettuare lavoro di manodopera nei nostri campi”. In sostanza: gli italiani non fanno i braccianti, gli stranieri che vorrebbero farlo non possono entrare, e così si alimentano irregolarità e sfruttamento.

Inoltre, secondo lo studio Excelsior di Unioncamere, “tra il 2019 e il 2023 il mercato del lavoro italiano avrà bisogno di un numero di occupati compreso tra i 2,5 e i 3,2 milioni”, di cui almeno il 12 per cento sarà costituito da professioni non qualificate. E almeno il 17 per cento sarà assorbito da manifattura ed edilizia, comparti caratterizzati da forte presenza straniera.

Il canale legale avrebbe anche un altro effetto, forse non trascurabile: offrirebbe un’alternativa (molto più sicura e controllabile) alle traversate del Mediterraneo. Se è vero che tra i richiedenti asilo vi è una grossa percentuale di “falsi profughi”, l’apertura di canali legali per lavoro potrebbe essere una soluzione.

In definitiva, occorrerebbe passare dalla gestione in emergenza (che ha caratterizzato l’ultimo decennio) a una programmazione mirata e a lungo raggio, con flussi legati alle esigenze del mercato e con un efficace sistema di selezione degli arrivi. Questa, sì, sarebbe una politica che potrebbe aiutare ad aprire quella “nuova stagione” evocata da Giuseppe Conte nella sua dichiarazione dopo aver ricevuto l’incarico di formare un nuovo governo.

Enrico Di Pasquale, Andrea Stuppini, Chiara Tronchin

30/8/2019 www.lavoce.info

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