Migranti e povertà: lavorano, ma restano i più sfruttati d’Italia
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L’ultima indagine dell’Istat sulle spese per consumi delle famiglie fotografa una realtà che si fa sempre più evidente: la povertà in Italia ha una dimensione etnica. Mentre i dati generali sembrano mostrare una sostanziale stabilità, il divario tra italiani e stranieri continua ad allargarsi, facendo emergere una situazione che ormai si è radicata nel tessuto sociale del paese.
Se nel 2023 la povertà assoluta ha colpito il 9,7% della popolazione italiana, tra gli stranieri il dato è allarmante: il 35,1% delle persone di origine straniera vive in condizioni di povertà assoluta, una percentuale quattro volte e mezzo superiore a quella degli italiani (7,4%).
Non si tratta di un fenomeno improvviso, ma di un trend in crescita da anni, reso ancora più evidente dalla pandemia e dalla precarizzazione del mercato del lavoro.
Uno dei dati più preoccupanti riguarda le condizioni lavorative. Per molte famiglie italiane, avere un’occupazione è ancora la principale garanzia contro la povertà. Ma per gli stranieri la realtà è diversa: tra le famiglie composte da soli stranieri, l’incidenza della povertà assoluta tra i lavoratori è del 34,2%, contro il 4,7% delle famiglie italiane.
In altre parole, più di un terzo degli immigrati regolari, pur lavorando, non riesce ad assicurarsi una vita dignitosa.
Questa situazione è il riflesso di un modello economico che relega i lavoratori stranieri nelle fasce più basse della scala occupazionale. Nonostante la congiuntura occupazionale favorevole, molti di loro continuano a essere impiegati in settori a bassa retribuzione, spesso con contratti precari e senza possibilità di carriera.
Secondo i dati Eurostat, il lavoro povero è una realtà diffusa in tutta Europa: nel 2022 il 14,7% dei lavoratori europei percepiva uno stipendio basso, ossia pari o inferiore ai due terzi del salario mediano del proprio Paese.
In Italia, la percentuale ufficiale di lavoratori a bassa retribuzione è dell’8,8%, tra le più basse in Europa, ma questo dato potrebbe essere falsato da fattori strutturali come la diffusione di contratti collettivi e la presenza di partite IVA non rilevate nelle statistiche.
Quel che è certo è che i lavoratori con contratti a termine sono i più esposti alla povertà: in tutta Europa il 27,2% dei dipendenti a tempo determinato ha uno stipendio basso, e in Italia i contratti precari coinvolgono oltre 3,2 milioni di persone.
L’incidenza della povertà tra gli stranieri è drammatica in tutte le aree d’Italia, ma raggiunge livelli ancora più elevati nel Mezzogiorno. Qui il 39,5% delle famiglie composte da soli stranieri vive in povertà assoluta, rispetto all’8,8% delle famiglie italiane.
Nel 2023, mentre la povertà tra gli italiani nel Sud è leggermente diminuita, tra gli stranieri è aumentata di quasi due punti percentuali.
Al Nord e al Centro, le cose non vanno meglio: la povertà cresce in entrambe le categorie, segno che la ripresa economica non è sufficiente a garantire condizioni di vita dignitose per le fasce più deboli. Questo dimostra come, anche nelle regioni più ricche e dinamiche, gli strumenti di sostegno al reddito e le politiche del lavoro siano ancora inadeguati.
A rendere ancora più complessa la situazione è la difficoltà di accesso ai servizi di welfare. Gli stranieri, pur essendo una componente essenziale della forza lavoro italiana, sono spesso esclusi dai principali strumenti di sostegno economico.
Un esempio emblematico è il Reddito di Cittadinanza, che nel suo ultimo mese di applicazione, nel dicembre 2023, è stato percepito solo da 59 mila famiglie straniere, pari al 9,8% dei beneficiari.
Tuttavia, secondo l’Istat, le famiglie straniere in condizioni di povertà assoluta nello stesso anno erano 331 mila, ovvero il 44,3% del totale delle famiglie povere. Questo significa che una larga parte degli stranieri poveri non ha avuto accesso al sussidio, probabilmente a causa di barriere burocratiche o normative.
L’accesso ai servizi sociali è spesso ostacolato anche da difficoltà linguistiche e da una rete sociale meno strutturata rispetto a quella degli italiani. Inoltre, la possibilità di ricevere aiuti economici dipende dallo status giuridico: mentre i cittadini UE sono equiparati agli italiani, gli stranieri con permessi di soggiorno temporanei o irregolari hanno accesso solo a un numero molto limitato di prestazioni.
Il quadro che emerge è quello di un sistema che crea un circolo vizioso di esclusione e precarietà. Gli immigrati sono necessari al mercato del lavoro italiano, ma restano confinati nei lavori più umili e scarsamente pagati. La loro condizione economica è sempre più fragile, e il sistema di welfare non è in grado di supportarli adeguatamente.
Questa situazione, però, non è solo un problema per gli stranieri: è un problema per tutto il paese. In un’Italia in declino demografico, dove la natalità è ai minimi storici e la popolazione invecchia rapidamente, garantire condizioni di vita dignitose agli immigrati dovrebbe essere una priorità.
L’integrazione economica e sociale degli stranieri è essenziale per il futuro del paese, ma senza interventi strutturali il rischio è che la povertà diventi una condizione cronica per un’intera fascia della popolazione.
La povertà etnica è ormai una realtà consolidata in Italia, ma non è un destino inevitabile. Servono politiche del lavoro che garantiscano salari dignitosi, strumenti di welfare più accessibili e una maggiore attenzione ai percorsi di integrazione. Ignorare il problema non farà che acuire le disuguaglianze, con conseguenze sociali e politiche potenzialmente esplosive.
5/3/2025 diogenenotizie.com
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