Milano e i bunker verticali. Come si selezionano le nuove forme dell’abitare
Dossier Milano # 5
Credo occorra soffermarsi su alcuni elementi che la trasformazione delle città occidentali, europee, ha prodotto, unitamente alla riformulazione, verticalizzazione dell’abitare con conseguente scompaginamento degli assetti abitativi precedenti; si è verificata una vera e propria polverizzazione del tessuto sociale, come testimonia il caso di Milano. Non solo i ricchi, ma soprattutto una serie di figure legate alle nuove professioni, alla digitalizzazione e agli eventi, transita in una condizione neo-nomade tra appartamenti, affitti brevi, locazioni di ogni tipo.
Questo impedisce la creazione di reti sociali in grado di individuare bisogni diritti che costituiscono i legami politici di una comunità. A fronte di tutto questo, sia a Milano che a Parigi, Londra etc. si sono prodotti spazi di sospensione, “punti di fissazione” come li definiscono in Francia, nei quali si accalcano marginali, migranti, espulsi da una quotidianità divenuta brutale ed escludente, spazi bunker perché non legittimati e soggetti a controlli varianti, che rendono le esistenze che li occupano non solo precarie ma “disturbanti”.
Ci sono stati anche a Milano negli anni trascorsi momenti di lotta vivaci e radicati nei territori, valga per tutte l’esperienza di Isola Art Center nel quartiere Isola Garibaldi, poi brutalmente soppresse. Oggi tutto questo diventa difficile per via dello sfilacciamento delle reti e dunque dei progetti. Bisogna anche riconoscere che molti degli spazi antagonistici da tempo paiono ripiegati su sé stessi.
L’accelerazione di queste trasformazioni ha peraltro abbandonato ogni velleità di pianificazione urbana lasciando, credo, alle architetture il ruolo dell’estetizzazione del paesaggio e alle grandi società immobiliari il costruire, soprattutto rapidamente perché vocazioni, ruoli e funzioni delle città si tramutano come nelle mode e gli interessi troppo rilevanti non possono essere posti a rischio.
Milano ha vissuto e sta vivendo tutto questo da decenni lanciando come sfida il suo volto di città dinamica, unica in Italia a stare al passo con le altre metropoli europee. Questa immagine ha sedotto, questa immagine ha attratto nuovi soggetti, nuovi interessi, nuove dinamiche di potere unitamente a un risentimento covato da più parti che a momenti tradiva un sentimento quasi di vendetta.
E così si è giunti dunque agli eventi recenti che tutti conosciamo e conoscevamo. Non entro nel merito delle questioni giudiziarie ma di quelle sociali e politiche, sì.
Sicuramente Milano è diventata una città ingiusta, duramente classista, ma il caso Milano ci mette di fronte anche ad altro. È la cartina tornasole di un paese in cui non si riescono a intravvedere prospettive: un paese mordi e fuggi in tutti i suoi ambiti che ne stanno rivelando la fragilità. Si pensi solo al contesto produttivo, al comparto del turismo che sfigura intere realtà, che assicura, però, reddito immediato.
In un paese in cui ormai non si parla che di cibo e di sport e ci si abbandona a deboli invettive, Milano rivela il nocciolo duro della questione: fare, a qualunque costo, fare; non perdere l’occasione, trascurare ogni valenza politica nel senso nobile del termine. Invece la politica quella che conosciamo come azione di volgarissimo livello, quella si è e si sta vendicando e gli appetiti ne guidano i movimenti e le trame. Non si tratta dunque di sottacere quanto avviene nei contesti metropolitani prima menzionati, piuttosto di comprenderne la natura di conflitto tra poteri e interessi di parti diverse che nulla hanno a che vedere con le popolazioni costrette a esodi forzati, perché impossibilitate a vivere in città vetrina.
Queste città che mortificano lavori, professioni “povere” ci raccontano di una nuova piramide sociale che vive in un presente definito solo da alcune specifiche professioni. Il valore del denaro si coniuga con un cinismo che abbiamo già conosciuto ma nell’oggi questo viene ostentato come fattore di merito. Sono queste le nuove cacce all’uomo di cui parla Grégoire Chamayou, cacce il cui bottino sono i nuovi schiavi da spremere in tutti i modi dilatando lo sfruttamento fino a rendere superflua la messa in considerazione delle vite. Le metropoli ultramoderne, dagli skyline mirabolanti, sono l’affermazione di una concezione puritana che designa i poveri come colpevoli. Questa concezione si è fatta strada a partire dal momento in cui New York con la sua finanza, i soldi facili si affermava come modello. Forse allora converrebbe lavorare, dar voce alle istanze più deboli, che però in questo momento sono preda di un rancore, di un bisogno di riscatto che si esprime nelle ultradestre, nei nuovi fascismi occidentali, che hanno colto il senso di umiliazione, che parlano la stessa lingua dei soggetti cui si riferiscono, che incarnano le loro medesime aspirazioni.
Non sarà facile smontare queste narrazioni a fronte di una sinistra(?), di una parte più “progressista”, che in maniera apparentemente più raffinata persegue gli stessi “desideri”, proponendosi in modo snobistico quando non ipocrita, poiché il ruolo dei tanto sventolati saperi critici è in realtà, nell’oggi, un modo di profilare carriere in buona parte apparentemente “contro”.
Con tutto questo dobbiamo confrontarci se vogliamo ricostruire un minimo di spazio per la verità e per restituire al pensiero e alla politica una sua più profonda dignità.
Il “caso Milano” ci dice molto in questo senso, essendo questa la città vocata a testare e manifestare le nuove tendenze che in ogni caso si diramano ben oltre i suoi assetti e i suoi confini metropolitani.
Tiziana Villani
28/7/2025 https://effimera.org/
Immagine in apertura: Gabriele Basilico, Milano, quartiere Isola, 1974










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