monologo di un etilista

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Renato rientrò a casa con il sorriso a riporto dell’umore. Sentiva il profumo delicato delle rose appena sbocciate, dei colori vivaci della primavera, delle gocce di sudore prosciugate sulla sua pelle, sulla pelle di lei.

Giusi lo vide frastornato, per cui interagì giocosamente “che c’è professò? Stai pensando che questa non è casa tua? Che sono entrati i marziani a pulirla o la fatina tua?”

Il maestro non rispose subito, perché troppo indaffarato a contenere il battito cardiaco e lo strano desiderio di abbandonarsi tra Dimmi qualcosa di carino, ne ho bisogno… lo sai?”

Renato sedette sulla poltrona al suo fianco e la strinse a sé “una volta sapevo dire cose carine, adesso sono diventato avido. Dalle mie parti si dice “spriscia spriscia che a da sci atra acque”, significa “strizza o torci” i panni bagnati che deve uscire altra acqua. Io se dovessi “sprisciare” l’anima, finirei per strappare tutto, perché sono arido, secco”. Non lanciò una sfida, ma Giusi la raccolse come tale “allora, adesso ti fai un aperitivo con me e mi dirai tutto prima di pranzo. Vogliamo scommettere?”

Il maestro raccolse la sfida, nonostante temesse di far brutte figure “accetto! A patto che, se dovessi risultare troppo banale, non pretenderai correzioni. Tanto non saprei far di meglio”. La bella donna, sospinta dall’emozione di sentirsi finalmente amata, corse a riempire i bicchieri. Prima di sedere in attesa del volo, Giusi rapì la scena con uno sguardo conturbante, la curiosità femmina, tenuta a freno a fatica “dimmi sposo mio… ad esempio a te, sicuramente, non piace sentirti chiamare sposo mio? Io lo trovo bellissimo, ma tu sei il professore. Come ti devo definì?”

Renato alzò il bicchiere al cielo e “sprisciò” il meglio di sé -mi piace sentire le tue convinzioni, anche quando dici qualcosa di strano. Piace anche a me, sentirmi chiamare sposo. Lo trovo bellissimo, anzi vorrei mi chiamasse sempre così la donna con cui condivido ogni mattino”. Riprese fiato e condivise la sua insicurezza “sono un vecchio arruginito… meriteresti qualche strofa di Pablo”.

“Grazie Professo’, invece sei bravo con le parole! ti voglio bene, perché non tieni paura di passare come fidanzato di una puttana. Gli altri uomini si vergognano di me. Mi evitano di giorno e di notte mi chiamavano amore. Molti uomini so stupidi, tu non dai mai quella impressione”. Disse lei, tenendo le mani sulla tetta, la collinetta a sinistra, quella a difesa del cuore.

Soddisfatta lei, Renato pretese il compenso ordinario “come minimo merito un bacio, allora”. Giusi, prima di sparire tra le sue braccia, lo trattenne e sintetizzò i problemi annessi al suo lavoro “odio l’estate, ho sempre odiato l’estate, Professò! Le ragazzine vanno in giro dentro certi vestitini, che neanche noi battone metteremmo. Fanno concorrenza sleale. Gli uomini guardano loro non me, perché so stupidi. Cosa c’entra questo? Io ho cominciato a fare la puttana, quando è morta mia madre e sono rimasta sola… Quando perdi papà e mamma perdi tutto. Quelle ragazzine hanno i genitori…”

Renato la interruppe, perché in disaccordo “io credo che quei vestitini si possono mettere solo a quella età. Per me sono più ridicole quelle donne che vestono come ragazzine. Giusi, capisco la tua rabbia, ma credo che le giovani donne debbano vivere liberamente, senza doversi troppo preoccupare degli uomini bavosi”.

La donna alzò l’indice e lo mosse per indicare il disappunto “No, professo! Tu non capisci. Anche le gatte in calore rischiano d’essere prese d’assalto, il rischio fa parte di questo “monne”. Se gli vai incontro, allora i problemi sono altri, ma voi uomini sapete perdonare solo le donne furbe, quelle che non fanno le puttane di professione”.

Il maestro scosse il capo e ci rise sopra “sei terribile, Giusi!

Antonio Recanatini

Poeta, scrittore. La sua poesia è atta a risollevare il sentimento della periferia, all’orgoglio di essere proletari e anticonformisti.

Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

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