Monologo di un etilista

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Capitolo 16

Appena rientrati in casa, Giusy lanciò la prima buona offerta –professo’,  adesso andiamo a dormire! Voglio sentirti a fianco, anche se russi-. Renato mise in mostra le mani, le guardò e disse  -neanche sarei capace di tenere in mano una penna. Non riuscirei a far l’amore nemmeno se prendessi quel farmaco di cui tanto parlano-. Lei lo guardò negli occhi, prima di esprimersi -voi uomini avete la fissa anche quando non siete più in grado. Sai cos’è la tenerezza, professò? Voi comunisti non la conoscete, per caso?-

-certo che la conosco! Anzi, sai come mi chiamavano a scuola? Re Tenero! Ho fatto anche le olimpiadi e ho vinto parecchie medaglie. Non lo sapevi, mia cara?-

Giusi rispose ironicamente  -la tenerezza ti frega, professò!  Neanche più le donne sanno dov’è la tenerezza. Devi aggiornarti!-

Prima di distendersi, Renato spense il cellulare, allorché la bella donna scoppiò a ridere “ma Professò’, hai pure il cellulare. Non ci credo!-

Il maestro riprese l’aggeggio appena posato e lo mise a disposizione –certo, questo è l’oggetto più inutile comprato in vita mia. Se senti in giro, pare che non si possa vivere senza cellulare. Ormai la gente è più impegnata a guardare il cellulare, che il mondo attorno. Trova più entusiasmante il telefonino, che il racconto di un vecchio, che le parole dell’amico, del padre o della madre, della sposa. La prossima generazione nascerà con la cellulite nel cervello. Già da bambini vengono rincoglioniti con questo coso. Bella mia, questa è una droga a tutti gli effetti, ma nessuno sognerebbe di mettere un divieto!-

Giusi si distese per tenergli testa  –Professò, io lo uso per lavoro. E’comodo e veloce. Il cliente chiama e io, pure se sto al mercato a comprare la frutta, posso dare l’appuntamento e non mi perdo il guadagno-.  Renato rinunciò a continuare, preferì riempirsi il bicchiere, nonostante l’ora tarda. La  dolce compagna, invece,  sprofondò nel sonno. Al maestro non rimase altro che spegnere la luce della camera e sedersi in cucina, davanti alla finestra, in prossimità della  prima schiarita dopo la notte, a pochi passi dal tormento personale: Massimo, l’amico immaginario.

“Ancora  Credi che gli altri capiscano le tue posizioni, i tuoi principi … Sei un illuso!  Avresti potuto vincere le olimpiadi, ma solo nella gara tra illusi, altro che tenerezza!-

“Massimo, il mondo sta cambiando e io non sono al passo. Mio figlio diceva sempre che io sono un disadattato,  troppo presuntuoso per aggiornarmi, un vecchio alcolizzato, un cialtrone. Quando parlava di me trovava il modo di sfogare tutta la sua rabbia. Adesso, vedo questi genitori che regalano il cellulare al figlio di sei anni, convinti di fare un affare e  mi dico “forse mio figlio voleva un padre simile, non uno smidollato come me”.  Quando penso a ciò che è stato, mi chiedo  “E’  valsa la pena stare  dietro le barricate, rischiare la vita per la lotta, se poi neanche posso contare sull’affetto dei miei figli?”  Mi guardo allo specchio,  è rimasta questo carcame e non è uno spettacolo degno di nota. Oggi stanno  meglio quelli che un tempo seguivano l’onda,  i ruffiani che si sono adeguati, i pentiti che hanno riconosciuto il fallimento. Io non distinguo i colori del tramonto, non riesco ad accettare il progresso e odio  l’indipendenza all’americana. Forse ha ragione mio figlio, sono proprio un disadattato!”

L’amico nemico immaginario  “non dirlo a me! Non speravo  di vincere la battaglia, già sapevo di fallire, per questo ho osato. Ho osato per fallire, pur di non rincorrere la consuetudine. Quella consuetudine di cui facevano largo uso gli altri,  addosso a me stonava… Ecco, io sono stato sempre un disadattato perché sono un cantante stonato. Tu hai mai provato a cantare? Sei stonato, tu?”

Alla domanda seguì una profonda riflessione e una serissima risposta  -non so cantare, per farlo serve talento o devi allenarti. Io non ho talento e non saprei come allenare la voce. Quelli che sanno cantare hanno la vita spianata, io ho avuto solo guai… Non ricordo di benedizioni. Ho sperato fino all’ultimo di vincere la battaglia, di uscirne vincente, almeno per una volta. Credevo che la forza della ragione fosse imbattibile… Mi sbagliavo. Comunista o morte, mi chiamava la mente!-

Una lacrima rimase sul trampolino di lancio, poiché apparve Giusi con le sue labbra che sapevano di casa –Professò, prima o poi mi farai morire di paura. Ho sentito che parlavi con Massimo, ho sentito che ti lamentavi. Ma stavi piangendo? Se è così lo devi dire a Giusi tua!-

Renato uscì dall’incubo e Massimo di scena.  -Portami a dormire, per favore! Non sono in vena di rispondere, però posso baciarti fino a quando dirai basta-.

-Veramente, Professò? Allora non perdiamo tempo, andiamo”.

Antonio Recanatini

Poeta, scrittore. La sua poesia è atta a risollevare il sentimento della periferia, all’orgoglio di essere proletari e anticonformisti. Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

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Leggi i racconti precendenti su www.lavoroesalute.org

Immagine: Picasso – Bevitrice di assenzio

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