Nel silenzio di casa stamattina penso: giovedì è il centenario.

  • di Loredana Marino

Nel silenzio di casa stamattina penso: giovedì è il centenario.

Penso che dovrò inviare un messaggio di auguri alle compagne e ai compagni della federazione, e non solo a loro.

Penso: arrivo a questo centenario da militante di un partito che appartiene ad una tradizione comunista. E mi emoziono.

L’orgoglio, i ricordi. E poi Bianca, Mimmo, Anna, Lidia. I tanti pugni alzati al cielo per salutare un’ultima volta chi ci ha lasciato. E poi ancora ricordi: le interminabili discussioni, la nostra storia vissuta calzando gli anfibi nelle piazze, penna e block-notes in ogni riunione, gli appunti, centinaia di fogli conservati, i libri, lo studio, i tentativi di capire la società per organizzare la lotta, capire che fare, le decisioni, le responsabilità, le rotture, gli incontri, i viaggi, chilometri e chilometri per organizzare, per partecipare al cambiamento, per costruire la resistenza, per guardare al futuro con fiducia. E poi gli amori gli affetti, le compagne e i compagni. Tutto ciò prende il sopravvento. Una lunga vita in una comunità che si chiama Rifondazione Comunista. Quanta ricchezza! E mentre il sistema mi consegna alla condizione di povertà, io so di essere una ricca comunista.

Mi riprendo.

Ho voglia di scrivere bene, cosa non so.  È il 2021, alle spalle un anno difficile per tanti, e anche per me. Giorni e giorni di riflessione, troppo spesso in solitaria, perché il distanziamento ci ha tolto la nostra più grande forza: il confronto collettivo, gli abbracci, l’incontrarci per discutere e organizzarci.

Ma si resiste, continuiamo a tenere assieme questa piccola comunità nonostante la difficoltà. Perché? Perché noi realisti e sognatori pensiamo che il cammino di una grande idea debba continuare. Nelle forme possibili.

Ma, da tempo, mi porto dentro un tormento che attanaglia i miei pensieri, e offusca l’orizzonte. Manca! Manca qualcosa in questo XXI secolo, qualcosa che non torna, manca quella spinta che si chiama Rivoluzione.

Ho partecipato a varie riflessioni on line che affermano l’idea che stiamo vivendo una rottura epocale. E forse un nuovo inizio. Ed è pur vero che il lungo corso della storia dell’umanità va così. E nessuno oggi è propriamente in grado di comprendere ciò che verrà, pur nella certezza di nuovi sconvolgimenti e convulsioni.

Ma siamo tuttora profondamente immersi nella storia ingiusta, nella impetuosa dinamica della concorrenza spietata e col potere dominante fatto di spietata governance finanziaria e di controllo autoritario. E le classi privilegiate sono molto capaci di imporre condizioni sociali perverse, nel classico continuismo dicotomico di sviluppo/sottosviluppo globale. E il darwinismo sociale e la sostituzione etnica sono matrici culturali del nazionalismo e del rifiuto dell’altro.

In questo presente tutti dicono che abbiamo alle spalle decenni di riforme. Ma sono state riforme per modo di dire, che nulla avevano a che fare con le lotte di ieri. E anzi sono state esattamente l’opposto delle rivendicazioni di giustizia sociale.

Siamo alla fine di un lungo periodo in cui le formazioni liberali e socialdemocratiche si sono contese il privilegio di essere “partito del kapitale”, in una sarabanda di discriminazioni elevate a sistema. E lo avvertiamo che il capitalismo sempre più è penetrato nella profondità della società, nei modi di vivere delle persone, e ha portato in sé i cambiamenti antropologici di cui continuiamo a parlare. Penso al dilagante sentimento dell’autoaffermazione e del successo, all’arrivismo, al prestigio legato al denaro e non alle idee, alla invidia popolare della ricchezza e della notorietà.

E dunque la cesura brusca degli anni ‘80, gli anni della grande, radicale trasformazione della politica, il silente scollamento dei cittadini dalla vita pubblica. Nell’agorà si imponeva l’immagine che colui che occupava un ruolo, e la responsabilità politica della res pubblica non operava per il bene comune ma per interessi personali. Gli interessi del proprio gruppo, della propria consorteria. E però con una costante: la costante del potere che in ogni modo ha cercato di distruggere il movimento operaio. In Italia ha assunto varie forme di governo, nel nome del neoliberismo economico prima e del nazionalismo autoritario poi. E sempre con l’arroganza e l’ostentazione del proprio status.

Eppure, nuove esperienze di lotta sono nate e si sono diffuse. Eppure, non è mancato l’intreccio dell’agire locale e del pensare globale, e si sono create più generazioni di ribelli e nuove resistenze.

E poi siamo all’oggi. E di fronte a un sistema globale. visibilmente scomposto ma coerente di logica capitalistica, si fa sempre più impellente l’esigenza di ritrovare la grandezza dell’idea della rivoluzione, come unica via d’uscita, come agire politico della storia collettiva.

C’è enorme bisogno di costruire l’utopia del domani utilizzando la storia, la filosofia, le scienze sociali, la critica marxista all’economia. E scrivere nuove coordinate per una nuova futura umanità.

Ma rompere con il quadro fluido e contraddittorio del neoliberalismo e del nazionalismo significherà semplicemente operare per sostituire il quadro istituzionale attuale con un altro? Penso proprio di no. Più profondo deve essere il mutamento per andare oltre la barbarie del nostro tempo. Oltre la privatizzazione delle risorse, lo sfruttamento dell’individuo, la burocratizzazione della società. Oltre una umanità amaramente disincantata.

L’essere umano appare mutato quasi nella sua natura, dentro un nuovo ordine culturale e nuove coordinate sociali. Consumo–territorio–individualità-presente hanno tendenzialmente sostituito, almeno nei paesi più avanzati, la sequenza novecentesca di lavoro–politica–istituzioni–futuro, determinando il passaggio da una società globalmente orientata alla produzione a una società spasmodicamente protesa al consumo.

Un nuovo stadio della modernità, allora. In cui sembra venir meno l’idea della conquista del reddito, della riappropriazione dei beni comuni, della demercificazione, della ridistribuzione della ricchezza, della rivendicazione dei diritti negati. Anche quando per strada, tra la gente, ogni tanto si sente invocare la rivoluzione, ciò avviene per rabbia individuale, come minaccia contro qualcuno o qualcosa, non come idea di cambiamento.

Ma non voglio sprofondare nella depressione, nella nostalgia del passato, col timore della vanità di ogni tentativo. Con l’amarezza della sconfitta storica e della stanchezza. Anzi, come ci ha insegnato la compagna partigiana Bianca Bracci Torsi: quando ci si sente stanchi, ci si riposa per poi ricominciare a lottare.

Di certo, in “tempi oscuri” c’è bisogno di condividere il dolore sociale, muto e invisibile, frammentato e disperso. Anche perché lo sappiamo bene che la retorica conservatrice ci consegna l’idea che è sempre colpa tua se…! Quella stessa retorica conservatrice, che mentre ti accusa della tua stessa condizione sociale, ha costruito, poi, l’idea della passivizzazione e dell’obbedienza, senza alcuna via d’uscita.

E così, se da un lato il pensiero dominante ha disegnato l’immagine della rivoluzione come un bagno di sangue, come guerra civile di cui aver paura, dall’altro ha determinato le proprie continue rivoluzioni monetarie, fiscali, tecnologiche, sociali, civili, ambientali, tutte all’insegna di “coraggiose misure” contro le popolazioni e la natura.

Abbiamo noi oggi la possibilità di dissipare questa grande confusione? Penso di sì. Ma per farlo abbiamo ancora bisogno di un noi collettivo, di una soggettività rivoluzionaria, di un processo in cui l’impegno teorico vada di pari passo con la partecipazione attiva, con un nesso stretto di sapere e fare.

Nuove riflessioni ed elaborazioni, dunque. Capaci di tracciare le nuove coordinate di un socialismo libertario, privo di ogni totalitarismo. E con una intelligenza collettiva rivoluzionaria, antisistema; che dentro la storia e le lotte degli sfruttati recuperi la passione e l’energia per superare lo stato di cose esistenti, indicando un’uscita alternativa al pensiero unico dominante e riconsegnandoci il fascino che possiede l’idea della rivoluzione.

Perché la rivoluzione è l’esatto contrario della barbarie e dei suoi spaventosi tratti: il patriarcato, lo statalismo burocratico, la libertà formale, la gerontocrazia, il militarismo, la povertà. Il capitalismo, insomma.

E contro la barbarie, c’è solo quel vessillo lacero. Quel socialismo generalmente definito col concetto dell’uguaglianza, e però consapevole che solamente la società che gestisce l’uguaglianza attraverso la più vasta libertà e democrazia può dirsi una società socialista.

Loredana Marino

23/1/2020 https://www.lefrivista.it

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