Nuovo Dizionario delle parole italiane.

Impatto

Sostantivo maschile (l’agente dell’azione d’impatto è invariabilmente di sesso maschile) il cui primo significato è: punto d’incontro del proiettile con il bersaglio. In senso figurato significa urto, cozzo violento, botta, collisione.

Impatto ambientale

Il concetto nasce in America negli anni Sessanta, un po’ tardi, dunque, per valutare preventivamente l’impatto ambientale di un paio di cosette già fatte e mai sconfessate. La prima regola, deducibile dagli sviluppi storici a livello internazionale, è che la valutazione dell’impatto ambientale è fortemente condizionata da dove si trova casa tua. Purtroppo l’italiano tende a interpretare alla lettera il concetto di casa e perimetra le aree protette considerando solo l’estensione della propria abitazione (sindaci compresi).

I lungimiranti ci sono e si dividono in due categorie: quelli che fanno danni lontano da casa e quelli che sono disposti a trasferirsi, una volta devastato l’esistente intorno a sé. Far danno lontano da casa è appannaggio delle grandi potenze e più in generale di chi può disporre di capitali e risorse ingenti, chi fa danno a casa propria spera che le sue azioni sconsiderate ricadano soprattutto sul vicino, di modo che il suo prato non sia più così verde.

I rappresentanti di entrambe le categorie di devastatori (ecologici) tendono ad allearsi tra loro e producono sinergie in nome di quel progresso nella cui pubblica utilità non crede più nessuno, loro compresi. Essi tacciano i loro oppositori di oscurantismo, soprattutto perché costoro vorrebbero evitare di morire di una malattia moderna come il cancro e preferirebbero, se fosse ancora possibile, patologie più banali, come la polmonite o la decrepitezza.

Dal momento che la morte naturale offre pochi spunti alla ricerca, mentre al cancro sono dedicati ingenti fondi e lo sforzo congiunto di un esercito di ricercatori, non è accettabile che qualcuno desideri sottrarsi agli sforzi dell’intera società, per morire, da anacronistico individualista, di vecchiaia.

Basso impatto ambientale

Il “basso” si offre a varie interpretazioni. Se per basso s’intende «scarso, irrilevante» si torna al concetto, scientificamente provato: più l’impatto avviene lontano da casa mia e più è trascurabile (da me, dai miei stipendiati e dai sindaci e amministratori compiacenti). Basso significa: irrilevante, se statisticamente l’aumento del cancro o di altre patologie causate dall’impatto non supera una determinata soglia. Va osservato che la cancerogenesi non è un processo democratico ed egualitario: se un agente cancerogeno provocasse in tutti i cittadini un 2% di tumore, allora il danno alla salute sarebbe veramente trascurabile, tenuto perfettamente sotto controllo dalle difese immunitarie.

Invece la Natura, o Chi per Essa, non ha stabilito così: il 2% della popolazione si ammala e muore. Il restante 98% dei cittadini comprende un numero così elevato di menefreghisti, qualunquisti, fatalisti, depressi e ignoranti che non è difficile per nessuno sdoganare il concetto di basso impatto ambientale (vedere alla voce «Sfigati» per perdere ogni illusione su una società basata sul mutuo soccorso).

“Basso” può essere inteso anche in riferimento al luogo dell’impatto, in questo caso il termine avrebbe lo stesso significato che ha nell’espressione “colpo basso”. Detto fuor di metafora e senza ricorrere a volgarità, vivere accanto a un impianto a basso impatto ambientale corrisponderebbe perfettamente al “prenderselo a bottega”. Una volta che vi hanno rovinato casa e bottega non vi resta che ridere di tutto cuore, cantando tutti insieme: “povero re e povero anche il cavallo!

Edilizia

La categoria degli edili è l’ultima roccaforte del potere maschile. Se vi recate in un cantiere, trovate solo e soltanto uomini. Le donne sono subdolamente penetrate in tutte le altre roccaforti, non c’è mestiere o corporazione che non sia stato infiltrato dalla presenza, non sempre simbolica e irrilevante, di professioniste o operaie. Il fenomeno non è ancora stato studiato, ma sembra che l’unica struttura che abbia saputo formare anticorpi e rigettare, o emarginare, le poche femmine accettate in un primo tempo nei ranghi, sia l’esercito. Gli edili non hanno mai avuto problemi: nessuna donna si è mai presentata nelle sedi di reclutamento per rivendicare mattone e cazzuola.

L’edilizia pubblica è riuscita a limitare al massimo la committenza femminile: imprenditori, faccendieri, mafiosi e politici che agiscono nel settore sono ancora uniti dai profondi vincoli del potere virilmente sottratto alle masse, mentre l’edilizia privata è fortemente pressata dalle pretese di mogli, madri e clienti (plurale femminile: le clienti). Non meraviglia se in questo campo siano state fatte delle concessioni, per lo più su accessori e rifiniture: ormai è consuetudine che le signore scelgano le mattonelle del bagno, sottraendo a questo ambiente quell’essenzialità che si confaceva alla bassezza delle funzioni escretorie, ancora rispettata negli ambienti di degrado autorizzato, rappresentati dai cessi pubblici, ove al maschio è permesso farla franca se, urinando, non centra la tazza del cesso.

Abuso edilizio

Ove non si pongano limiti all’esuberanza maschile, la forza e l’arbitrio regnano sovrani. Ma sarebbe un errore attribuire ad acritica tracotanza la bruttezza delle moderne costruzioni di edilizia, pubblica e privata, quasi che abuso e stupro fossero, anche nel campo dell’edilizia, sinonimi.

L’aspetto delle case costruite negli ultimi settant’anni è vistosamente in contrasto con la bellezza dei più vari contesti ambientali e in tutta la penisola il minimo comun denominatore è rappresentato dalla presenza di balconi e balconcini che aggettano in tutte le direzioni. Gli edili sembrano ignorare tanto la storia dei luoghi, concretamente rappresentata da sobri edifici, solidi e per lo più privi di balconcini, quanto l’armonia che la vegetazione, spontanea o coltivata, dona agli italici paesaggi.

Non si può, oltre un certo limite, invocare la necessità di un’edilizia popolare, che porta con sé il radicato pregiudizio che la Bellezza è per i pochi ricchi e la Bruttezza per i molti poveri, pregiudizio che è comunque uscito vittorioso dal confronto con le più svariate e poetiche utopie.

La spiegazione più convincente, in grado di render conto della dilagante bruttezza, si rifà invece alla teoria del Grande Trauma, all’ombra che esso continua ad allungare nel tempo, contrastando la solare semplicità che ha da sempre accompagnato la bellezza mediterranea. Il Grande Trauma ha fatto sì che su ogni costruzione, sin dal suo nascere, incomba il rischio di una distruzione totale che, precipitando dall’alto, è più implacabile dei cicloni, dei venti e dei nubifragi.

Gli edili, formando una corporazione di soli uomini, hanno, se pur a un livello inconscio, maggior timore della possibilità che il Grande Trauma si ripeta rispetto alle loro compagne, meno dedite a fantasie distruttive auto ed eterodirette, e con virile sacrificio s’incaricano di siglare col marchio della Bruttezza ogni esterno di edificio (esistono anche esterni piastrellati, ma ci si guarda bene dal far uso di azulejos o di far scegliere le piastrelle alle signore).

L’esercito dei costruttori non sottovaluta la maggior potenza, rapidità e determinazione dell’esercito dei distruttori, e la Bruttezza dilagante è la bandiera bianca issata per propiziare se non la clemenza, almeno il disinteresse dei futuri aggressori, la cui smisurata potenza di fuoco rende ragionevole e auspicabile una resa preventiva. Così quello che sembra uno stupro dell’ambiente perpetrato dagli edili, rappresenta un estremo tentativo di difesa, attuato con l’accortezza un padre amorevole che si rallegri della mancanza di attrattive di una figlia esposta dall’arbitrio dell’esercito invasore.

Una casetta mal costruita nella Valle dei Templi potrebbe attirare su di sé le bombe e al suo sgretolarsi seguirebbe in breve tempo la rassegnazione (tanto era umida e nemmeno bella), soprattutto se, grazie a essa, le antiche e venerabili rovine potessero preservarsi intatte. Ovunque si cerca l’anonimato, sperando che l’irrilevanza e la banalità proteggano meglio di una tuta mimetica, e se il Grande Trauma sembra allontanarsi nel tempo, la distruzione delle torri gemelle e del ponte di Mostar conferma quanto sia rischioso attribuire ai luoghi un alto valore simbolico.

Lavoro

Sostantivo maschile, il cui significato nei primi anni della nostra vita è stato: assenza giustificata. Ai miei tempi si assentava il padre, attualmente si assentano il padre e la madre, in alcuni casi anche il nonno e la nonna (vedi alla voce: pensione posticipata). In età scolare imparammo a memoria, come si trattasse di recitare il catechismo di Pio X e non il primo articolo di una costituzione laica, che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Gli insegnanti che volevano andare oltre il precetto di fede, stimolando negli alunni la capacità di elaborare pensieri astratti, avevano da render conto del significato delle tre parole chiave: Italia, repubblica e lavoro.

L’Italia era ed è tuttora la nostra Patria. La nostra Patria, così com’è oggi, non è sempre esistita e non è sempre stata una repubblica. Il lavoro invece esiste dalla notte dei tempi, come conseguenza del peccato originale. Quindi, ancorare una Patria di recente acquisizione, divenuta repubblica in tempi ancora più recenti, a un fondamento così antico sembrava prometterle un futuro imperituro, anche se impegnativo. Nessuno avrebbe mai immaginato che il lavoro fosse destinato a sottrarsi al suo ruolo di sicuro fondamento per diventare un miraggio evanescente.

Un tempo, prima della globalizzazione e della delocalizzazione, si riteneva che le macchine, fedeli esecutrici di mansioni noiose e ripetitive, fossero destinate a sgravare l’uomo da ogni fatica, rendendolo padrone del suo tempo. Oggi qualcosa si è inceppato negli ingranaggi del progresso e da parte di tutti i cittadini viene avvertita la mancanza di un fondamento sicuro, come se si fosse prodotto un vuoto strutturale all’interno della società: mentre i lavoratori sono sempre più assenti dalle loro famiglie, l’assenza di lavoro minaccia di decontestualizzare del tutto individui che trovano in famiglie nucleari, sparute e divise, l’unica prospettiva di sostentamento.

Il futuro dell’Italia e della democrazia è incerto, affidato a lavoratori attempati che non riescono a passare il testimone a figli e nipoti disoccupati e privi di una qualsiasi esperienza di apprendistato. Che si modifichi o meno la Costituzione, l’Italia è diventata una repubblica basata sui consumi, nella speranza che i beni di consumo rimangano accessibili ai più.

Lavoro nero

Il lavoro nero rappresenta un tentativo, riuscito su larga scala, di sottrarre alla repubblica (fondata sul lavoro, nero o bianco che sia) quella parte dei proventi del lavoro altrui che dovrebbe rappresentare una garanzia per il futuro. Il lavoratore “usa e getta” è costretto a sacrificarsi per implementare la ricchezza d’imprenditori, faccendieri e artigiani che a loro dire sarebbero perennemente sull’orlo dell’indigenza (notizia confermata dai loro commercialisti) e si trova così sprovvisto di mezzi per affrontare la vecchiaia, che, da quando è diventata una faticosa stagione di lunga durata, scoraggia chiunque a ridurre in schiavitù uomini giovani e prestanti, la cui attuale condizione di liberi cittadini implica che dovranno cavarsela da soli in tutte le età della vita. Lo spettro di una vecchiaia dolente e triste affligge anche i datori di lavoro che sperano che l’ingiustizia da loro perpetrata continuativamente, anno dopo anno, propizi per loro un destino di morte improvvisa e prematura (che sopraggiunga cioè nel corso dell’ottantesimo anno di età).

Ciò raramente avviene perché le parche, ascoltando le suppliche dei lavoratori in nero, non tagliano precocemente il filo dell’esistenza di chi merita di sperimentare la gotta, il diabete con relative complicanze, l’obesità, la cirrosi e la demenza alcooliche, i postumi di incidenti causati dall’eccessiva velocità di vetture sportive, le malattie veneree e tropicali, l’infarto (o ancora meglio, il reinfarto) sopraggiunto per un’incauta assunzione di Viagra e la necrosi del setto nasale da uso continuativo di cocaina.

Patria

A scuola abbiamo imparato che la Patria è l’orizzonte dei nostri affetti. Il concetto così espresso rende problematico definirne i confini geografici, classicamente la Patria è come la famiglia d’origine, ci nasci ed è scontato che tu le voglia bene e che lei sia identificabile con lo stato nel quale tu sei venuto al mondo, con le sue montagne e i suoi laghi molto, ma molto più vecchi di te. Il principale dovere nei suoi confronti è difenderla, anche a prezzo della vita.

La necessità di attestarsi su posizioni che consentano una coerente strategia difensiva ha comportato un fondamentale arretramento delle linee di trincea, sino a quando si è stabilita una perfetta coincidenza tra la Patria e la propria entità fisica: la Patria si estende dalla testa ai piedi. I progressi in genetica, microbiologia e scienze affini hanno causato un’espansione dello schema corporeo, che, ricostruito a partire da immagini ricavate al microscopio elettronico, assume dimensioni planetarie, di gran lunga superiori a quelle di qualsiasi entità nazionale. Le potenze che rischiano di invaderci sono batteri e virus, questi ultimi con strutture del tutto simili a navicelle spaziali.

Anche il profano può rendersi conto della vastità del territorio da pattugliare, verificando in una qualsiasi farmacia il numero praticamente infinito di creme, unguenti, lozioni e polveri che hanno la funzione di proteggere gli strati cutanei dagli agenti esterni quali i raggi solari e la spore fungine.

Convivenza civile

Se la Patria coincide con il nostro corpo, la nostra città, un tempo amata come luogo di condivisione e identità collettiva, è diventata terra di confine. Carte, cartine e cartacce vengono gettate ovunque, negli angoli, ma anche al centro della strada, sui cespugli, più o meno fioriti, di misere aiuole che nessuno si prende la briga di curare, il più delle volte dotate di marcescenti teli antiricrescita e tubi a vista mai collegati a fantomatici sistemi di irrigazione.

A questo scopo le sigarette e un infinità di oggettini insignificanti vengono venduti con involucri, a volte con più involucri concentrici, e i cibi hanno contenitori usa e getta di plastica per alimenti e per marciapiedi. Ovunque compaiono manifesti che pregano gli amanti degli animali di raccogliere gli escrementi canini, ma non tutti amano i propri concittadini. A poco prezzo si può acquistare l’arma più micidiale che abbiamo a disposizione per manifestare il disprezzo nei confronti della comunità: la gomma americana. Essa permette ai vostri sputi di diventare una macchia nera e indelebile su asfalto, marmo o pietra.

Ambiente

L’ambiente ci circonda da tutti i lati, è ubiquitario e la sua presenza è stata notata, distinguendolo dal paesaggio, da quando sentiamo il rischio che gli squilibri in esso prodotti attentino alla nostra vita. Potenzialmente amico, con una forte vocazione all’accoglienza, prevede aree storicamente ostili, pericolose, come la giungla o il Polo nord e aree di difficile accesso, come i fondali marini. Ha una caratteristica che lo rende incomprensibile alla mente umana: è in profonda connessione con se stesso non solo sul globo terrestre, ma anche nell’universo.

Barriere e confini naturali esistono solo nella mente di esseri limitati e distruttivi quali noi siamo. Il continuo sforzo di sfruttarlo, modificarlo, inquinarlo porta conseguenze molto più vaste del previsto, se poi ammettiamo che i nostri istinti predatori ci portano a persistere nelle nostre azioni a prescindere dalla percezione di fame e sazietà, dobbiamo riconoscere che il nostro attentare agli equilibri ambientali è iniziato quando abbiamo scoperto armi di offesa più efficaci dei nostri denti.

Degrado ambientale

È in atto un tentativo su vasta scala di applicare all’ambiente quello sfruttamento, frammentazione e lottizzazione che rappresentano l’ossessione di ogni faccendiere, incapace di interrompere il moto perpetuo di un fare miope e distruttivo. Uroboro, il serpente che si mangia la coda, simbolo di un potere in grado di rigenerarsi, garante d’immortalità, è stato sostituito da un orologio di gran marca, il cinturino estensibile permette di infilarlo al polso: segna un tempo inesorabilmente progressivo, mentre la voracità oggi porta i potenti a non riconoscersi nell’organismo collettivo e, divorandolo a partire dalla coda, dalle località più remote sono giunti a fagocitarne anche la testa. Per accedere all’immortalità bisogna sapersi nutrire di se stessi, delle proprie emozioni e sentimenti, in un equilibrio che deriva dal riconoscere che l’eccessivo appetito è pericoloso per la propria sopravvivenza.

Distruzione dei beni comuni

Siamo annichiliti dalla distruzione d’importanti siti archeologici perpetrata i giovani di altre culture.

I nostri ragazzi sono altrettanto distruttivi, ma non essendo abbastanza maturi per confrontarsi, armi in pugno, con le soverchianti truppe dei conservatori o aspiranti tali, operano solo di notte e distruggono senza abbattere, senza far rumore. La loro arma non è la bomba, ma la bomboletta spray, assai più facile da maneggiare e senza rischi per la propria incolumità. Sono gli eroi del non senso, scrivono frasi incomprensibili, forse rivolte ad alieni presenti o futuri. I proprietari di muri e saracinesche li considerano dei vigliacchi, ma non è così: dimostrano di affrontare e sopportare stoicamente il dolore scrivendo anche sul proprio corpo, con inchiostri indelebili.

INTOLLERANZA
C’è chi ritiene la tolleranza un atteggiamento insufficiente per fronteggiare le gravi emergenze sociali che ci è dato di vivere: tolleriamo il nostro prossimo quando, avvertendo diversità più o meno profonde, lo riteniamo in errore, ma lieve, accettabile, o prevediamo che il suo errore, retaggio di una cultura inferiore, sia emendabile con la buona volontà, che ha modo di esprimersi grazie alla nostra tolleranza. Non stiamo quindi parlando di offrire una calorosa accoglienza, ma chi ha suocere o fratelli sa come tollerare i propri parenti sia già un atteggiamento che richiede eroismo e sacrificio di sé, figuriamoci se è il caso di tollerare gli altri, i “foresti”. Potremo però fare un esame di coscienza che ci induca a scendere dal piedestallo della nostra posizione di vantaggio, innegabile agli occhi dei patiti del calcio, dal momento che noi la partita ce la giochiamo in casa.
Si spera che le donne, meno coinvolte nelle tifoserie e relative prodezze, memori dei soprusi subiti da madri, nonne e bisnonne a causa di una supposta inferiorità del genere femminile, affrontino le emergenze rinunciando a disquisire su concetti astratti come tolleranza, accoglienza, difesa del territorio per mettersi a cucinare per tutti. Purtroppo la coscienza spesso è sabotata dall’inconscio, che s’incarica di tenerci ancorate alle nostre fragilità, producendo tutta una seria di disturbi che inibiscono la capacità di agire, soprattutto se si tratta di mettersi ai fornelli. L’intolleranza inconscia si manifesta infatti con un sintomo eloquente: sempre più donne si dichiarano intolleranti al glutine, al lattosio, al glutammato di sodio, all’olio di palma, alla curcuma, al curry senza pareri medici che avvallino le loro diagnosi. Non di solo pane vive l’uomo, la donna poi rinuncia anche a quello per darsi alla polenta, immemore che il cibo simbolo della nostra cultura fosse sconosciuto alle genti venete prima della scoperta dalle Americhe.

OBBLIGHI E DOVERI
Un tempo la vita era zavorrata da numerosi doveri che ci obbligavano nei confronti di Dio, della Patria e della Famiglia.
Oggi l’ateismo è un atteggiamento non solo tollerato, ma ritenuto del tutto legittimo: Dio è giovane e ci concede tutto il tempo di esplorare, sperimentare, andare a fare i guardiani di porci e mangiare carrube. La Chiesa invece è così vecchia da considerare con cortese indifferenza le scoperte scientifiche, le elucubrazioni e le teorie non in linea con la retta dottrina. Peccato che la libertà di opinione venga utilizzata dai contemporanei soprattutto per pensare, scrivere e proclamare cavolate che circolano senza alcun controllo in rete.
Oggi prepararsi a difendere la patria è facoltativo, non è più necessario fare carte false per evitare il servizio militare, il rancio non è più dichiarato “ottimo e abbondante” e, a dirla tutta, finalmente non siamo più tenuti a magnificare le potenzialità belliche del nostro esercito.
Oggi il matrimonio si basa sull’amore e non su solide premesse, quindi è volatile, soggetto alle turbolenze del cuore. Dura quel che dura, al realismo politico si affianca il realismo sentimentale, entrambi suggeriscono di non dar troppo peso alle promesse preelettorali e prematrimoniali.
Dio, Patria e Famiglia sono concordi nel ritenere che l’educazione sia indispensabile per far crescere uomini di fede, patrioti e mariti e padri. La scuola dell’obbligo è ancora obbligatoria, peccato che sia diventato facoltativo e scarsamente incentivato imparare a leggere, scrivere e far di conto.
Svincolati a qualsiasi età dagli obblighi religiosi, liberati da persone mature dai vincoli matrimoniali, da giovani adulti dal servizio militare, da ragazzini dall’obbligo allo studio, andando a ritroso, oggi si cerca di liberare gli infanti dagli obblighi vaccinali. I vaccini hanno sostituito come imposizione salvifica il battesimo dei lattanti e la medicina si è affermata come religione di stato, l’unica autorità che si ponga a baluardo contro l’eresia di genitori increduli, che dubitano dell’esistenza di entità reali, anche se non immediatamente percepibili, quali il tetano e la difterite.

TERRORISMO.
Il terrorista nasce con la rivoluzione francese: prima crimini, stragi e stermini erano compiuti da barbari, assassini, fanatici e soldati che, per quanto spargessero terrore e morte, non venivano definiti terroristi. L’omicidio è stato fin dalla notte dei tempi un fine perseguito per se stesso, lo scopo per eccellenza di ogni gesto violento e anche ove ci fosse l’intenzione di fare dei supplizi dei casi esemplari, un tempo non veniva enfatizzato quel terrore che oggi colpisce chi non chiede nulla di meglio che perseverare in una vita tranquilla. Per gli antichi il terrore era un fatto accidentale e, il più delle volte, privato.
Insomma il terrorista rivela i risvolti inquietanti e oscuri dei principi di libertée, égalité e fraternité.
È la fratellanza che andrebbe indagata con attenzione restituendole tutta l’ambiguità che le è connaturata, essendo il destino di Caino non meno universalmente condiviso di quello di Edipo.
Il terrore quindi sembra essere generato dall’improvviso rivelarsi di una verità rimossa: siamo tutti fratelli, quindi non si deve mai abbassare la guardia, mai pensare che in un’atmosfera di festa, in una sala da ballo, in una spiaggia non possa scatenarsi la furia omicida di fratelli che, riconoscendosi un destino tragico, vogliono associarci alla loro morte.
Non credo che i terroristi amino definirsi tali, non condividono con noi né la nostra ottica, né il nostro vocabolario e a volte nemmeno la nostra lingua. Nella poesia La scoperta dell’America di Pascarella suscita ilarità la definizione che il primo nativo incontrato dai compagni di Colombo dà di sé:
Se fermorno, se fecero coraggio…
– a quell’omo! Je fecero, chi séte?
– e, fece, chi ho da esse?
So un servvaggio.

Che un assassino “ha da esse” un terrorista, che magari si dichiari tale parlando in dialetto romanesco, fa parte dei nostri (occidentali) modi di vedere le cose, infatti tutta la mitologia che deriva da accadimenti storici fin troppo reali fa parte dei nostri schemi.
Va notato che, se lui è il terrorista, noi tutti siamo i terrorizzati e di questo nostro panico, di questa nostra perdita di controllo sulla realtà nessuno si sogna di farcene una colpa.
Proviamo a immaginarci in un altro contesto: siamo in guerra, piovono bombe da tutte le parti, si spara a chiunque: soldati, donne e bambini. Possiamo noi, i civili, gli inermi, noi che non abbiamo avuto né l’onere né l’onore di prendere decisioni irrevocabili, possiamo noi abbandonarci a un cieco terrore? Direi proprio di no. (si veda alla voce «Guerra e pace»)

GUERRA E PACE
“Polemos è il padre di tutte le cose” diceva Eraclito. Il “padre di tutte le cose” in lingua latina diventa di genere neutro (bellum), per poi diventare femminile in italiano: la “guerra”. Volendo dare a Cesare quel che è di Cesare, bisogna ammettere che c’è qualcosa che non va.
Se pensate che il genere femminile ingentilisca il concetto di conflitto armato vi sbagliate, restando a un livello puramente linguistico si può notare che ciò che vi è di più maschile – la prima parte anatomica che riceve attenzione per dare un nome come Antonio, Pietro o Giacomo alla creatura appena venuta al mondo – è in lingua italiana di genere maschile, mentre in dialetto siciliano è di genere femminile. Evito ogni commento.
“Pace” è un sostantivo femminile sia in greco che in latino ed è un bene che almeno lei non abbia cambiato proditoriamente genere, anche se non è prudente magnificarne troppo il concetto.
In guerra vi è l’obbligo di uccidere i propri nemici, di distruggere qualsiasi cosa di cui essi possano giovarsi, cercando di ristabilire una pace vantaggiosa che nei tempi antichi poteva comportare l’eliminazione totale dei prigionieri e la distruzione dei loro insediamenti o l’appropriazione dei loro beni e la riduzione in schiavitù di uomini, donne e bambini. Ovviamente era possibile attuare una via di mezzo tra le due soluzioni. Al giorno d’oggi si perseguono criteri più buonisti nello stipulare quelli che vengono definiti accordi di pace, intervenendo nella trattativa più interlocutori che ostacolano le soluzioni semplici e definitive. Quindi ogni sforzo è volto all’eliminazione totale degli avversari, delle loro donne e dei loro bambini nel corso del conflitto stesso, dal momento che dopo, da vincitori, non si ha la stessa libertà d’azione che si godeva ai tempi andati.
Domanda per Eraclito: Se “polemos è il padre di tutte le cose”, chi è la mamma? La pace? L’atomica?

WAR: UN’ALTRA LINGUA, UN’ALTRA COSA
A Washington c’è un monumento agghiacciante: il Korean war veterans memorial. È sufficiente vederlo in rete per restarne impressionati. Le statue dei soldati, collocate su un prato rigoglioso, sembrano avanzare, il corpo avvolto da lunghi mantelli, d’inverno la neve copre le loro spalle e il loro elmetto. Chi le ha viste in quell’ampia area della città dedicata alla memoria, verde e cimiteriale al tempo stesso, non le dimenticherà mai. Rappresentano creature spettrali, i non-morti, suscitano un orrore indicibile, cancellano ogni speranza, annullano ogni possibilità che la violenza trovi una via di riscatto. Non sono tanto un monumento celebrativo quanto un’istigazione al suicidio e chi dubita di questa affermazione, chi vede in queste gelide presenze un simbolo dell’eroismo e del coraggio, rifletta su un dato incontestabile: la prima causa di morte dei sodati americani impegnati negli ultimi teatri di guerra è per l’appunto il suicidio, che come forse succede dopo l’esposizione all’uranio impoverito, dimostra che war non ha una fine e può uccidere anche decenni dopo il ritorno a casa.

TRASPARENZA E VISIBILITA’
Nessuno è un eroe per il proprio cameriere. Nessuno rimane credibile se parla troppo. Nessuno dovrebbe sventolare la Bibbia se è un pubblico peccatore. Oggi un’eccessiva visibilità, il protagonismo, il gusto per l’ostentazione impediscono ai nostri politici di giocarsi una carta che in passato ha salvato numerosi personaggi impresentabili: l’ipocrisia, che metteva in ombra quello che poteva nuocere all’immagine pubblica, proteggendo tanto la vita privata quanto le proprietà private sotto l’ombrello della discrezione. La trasparenza è spesso imbarazzante, la nudità raramente giova a chi ha superato i cinquant’anni. Chi, dopo essersi fatto da sé, cede in età senile alla tentazione di rifarsi da capo a piedi continua ad amare le luci dei riflettori, ritenendole più benevole dello specchio di casa, che rischia invece di avere la stessa funzione del ritratto di Dorian Gray.
La trasparenza, invocata come prova di onestà, non fa parte della nostra cultura: mentre nei paesi nordici le finestre non hanno tende e chiunque può dare un’occhiata indiscreta in case di onesti e timorati protestanti che vogliono dimostrare di non aver nulla da nascondere, in Italia siamo abituati a schermare i nostri interni. Il sole del sud danneggerebbe tessuti e mobilio e le persiane rendono evidente che le finestre sono fatte per spiare e non per essere spiati. È difficile conciliare due esigenze contrastanti: a chi vuole osservare giova la trasparenza, a chi non vuol essere osservato giova la privacy, che, traducendosi in italiano come “vita privata” contrasta con la vocazione pubblica dei personaggi politici.

SOCIAL POCO SOCIEVOLI
La televisione ha posto un abisso tra chi guarda e chi è guardato e il nostro concetto di onestà non prevede più che ci si trovi faccia a faccia. Invece i “social” sembrano permettere un vero contatto, spesso un dialogo serrato, ma è evidente che le esternazioni non seguono le più elementari regole del rispetto e della buona educazione e siamo sconcertati di fronte agli eccessi, alla perdita di ogni freno inibitore. La tragedia, che è la forma di espressione degli eccessi più seria e controllata, prevede nel suo svolgimento un’unità di tempo e di luogo. Invece si twitta ovunque, con riprese e rimandi, fulminei a volte, ma l’unità dell’azione è andata a farsi benedire. Se vogliamo dare un senso al farneticare di mille voci dissonanti dobbiamo chiederci: chi parla in una dimensione atemporale, che ignora la successione del prima e del dopo, chi, per sua natura, non conosce il limite?
È l’Es, creatura dell’Inconscio, che funziona così, e il compito di tutti dovrebbe essere quello di riportarlo al proprio interno, censurarlo, porlo sotto il primato dell’Io e, perché no, anche di quel SuperIo ingiustamente accusato di avere una funzione persecutoria e limitante la libera espressione (Limitiamo! Limitiamo!).

OPININE PUBBLICA: CAPRA E CAVOLI, MA SOPRATTUTTO CAVOLI
L’opinione pubblica è ondivaga e, anche se manipolata ed esposta a mille seduzioni, ha ancora un suo peso, il problema quindi è quello di salvare capra e cavoli, cercando di dire tutto e il contrario di tutto, promettendo molto e mantenendo poco. È bene ricorrere alle strategie pubblicitarie, ma gli spettatori televisivi sono abituati a un minimo di coerenza: il Mulino Bianco è un luogo mitico, ma proprio nella misura in cui appartiene alla fiaba, deve restare bianco, così come Cappuccetto resterà rosso anche nei secoli a venire. Ci si affeziona alle bugie come alle favole, ma la regola che vale per entrambe è che devono essere raccontate sempre allo stesso modo, usando sempre le stesse, identiche parole. Bugie e favole aiutano i bambini ad accettare l’infanzia, entrambe sono indispensabili alla crescita, le prime nascondendo verità il cui peso non è ancora sopportabile, le seconde insegnano le regole della prudenza e incanalano la paura in racconti immaginari, che alla fine vengono svelati come tali. Ogni genitore deve saper tacere molte cose e far indossare i panni della fiaba a molte altre, al politico si chiede la stessa cosa: è un bene che menta e occulti, se ha la statura per farlo. Oggi si sente la mancanza di statisti, personalità in grado di guidare ed educare gli uomini, i nostri governanti invece dicono le bugie con la supponenza di adolescenti che siano riusciti a entrare nella stanza dei bottoni.

VENEZIA E LA POLITICA
Noi veneziani abbiamo a lungo custodito il senso vero e più profondo della politica, avendo vissuto in una città-stato, che aveva il vantaggio di non avere Sparta a soli 231 km di distanza. Un tempo abbiamo eletto un sindaco filosofo, ma dal momento che nessuno è profeta in patria, non abbiamo saputo trarne tutto il vantaggio che la fortuna ci aveva offerto. Il nostro destino dipende anche dalla circostanza che un popolo di navigatori e mercanti sia divenuto un popolo di commercianti e affittacamere, mentre la Via della Seta è interamente in mano ai Cinesi, che hanno comprato tutto, compreso il porto del Pireo. In parte è vero che ci ha rovinato Napoleone, ma è ancora da stabilire chi ci ha imposto il Mose, ecomostro nemmeno tanto marino, dal momento che si arrugginisce a vista d’occhio. Si dice che abbia addirittura peggiorato la situazione, favorendo l’acqua alta, ma Venezia è la sposa del mare, il maggior pericolo non le viene dall’Adriatico, ma da quel ponte che la unisce alla terraferma. Inaugurato nel 1846, permette un’invasione pacifica ma costante. Periodicamente viene indetto un referendum per separare Venezia da Mestre, dove si stanno costruendo enormi dormitori per turisti, ma a poco servirebbe avere due amministrazioni, se non si distrugge il ponte e non si fanno colare a picco le grandi navi. Noi Veneziani sappiamo che la partita è perduta, non ci resta che vendere il vendibile.
Il generale Cambronne, eroe di Waterloo, saprebbe definire con incisività la nostra situazione, anche se è un peccato che sia passato alla storia per una sola parola, quando è molto più bella la sua dichiarazione: “La guardia muore, ma non si arrende”.
Chissà chi ha firmato la nostra resa, molto prima che venisse progettato il Mose.

INTERCETTAZIONI
Verba volant, scripta manent. Mai come oggi le parole sono volate, volano da un cellulare a un altro, da un continente a un altro. Chi fa volare le parole è convinto di potersele rimangiare in qualsiasi momento, dichiarando di non aver mai detto quello che ha detto. Non tutti hanno recepito il fatto che le intercettazioni telefoniche si prestano a venir trascritte, concorrendo a dar vita a un particolare tipo di testo, chiamato per l’appunto verbale. Il verbale poi rimane agli atti, come se le parole dette-e-non-dette fossero destinate a generare azioni e reazioni del tutto imprevedibili. L’intercettazione è una nuova forma di persecuzione, viola regole valide fin dalla notte dei tempi, quando il principio “mater semper certa est, pater numquam” permetteva di negare ciò che oggi è divenuto innegabile. Non sorprende che ci sia solidarietà per i padri di parole venute al mondo in alcove clandestine, bisogna “negare, negare sempre” perché, ove l’evidenza impedisce di far affidamento sulla credulità altrui, viene in soccorso, potente e virile, quel senso di omertà che consente di distinguere gli uomini d’onore dai quaquaraquà.

AMERICA FIRST
Si parla di tramonto dell’Occidente ma, se in virtù della sua rotazione il sole tramonta sempre a occidente da qualsiasi parte del globo lo si guardi, l’Europa è situata a occidente dell’Asia e a oriente delle Americhe.
La confusione relativa alla nostra identità geografica l’ha creata Cristoforo Colombo, che pensava di andare direttamente in Asia salpando dalla Spagna e attraversando l’Atlantico. Il mondo non è così piccolo come lui lo immaginava e in epoca di globalizzazione la velocità nei trasporti non dovrebbe ingannarci, nessuna deriva politica può unirci indissolubilmente al Nuovo Continente sotto la definizione comune di Occidente. America first: è là il nuovo centro del mondo, l’impero più potente, ciò fa di noi degli orientali, esattamente come gli arabi.
Abbiamo molte ragioni per sentirci separati dai popoli d’oltreoceano, anche se forse la povera Europa è già stata costretta a salire sulla groppa di quel toro che è l’emblema della borsa a Wall Street. Certo, se vuole distinguersi, rinnovarsi dovrebbe cominciare a sentirsi una terra dell’est, smettendo di immaginarsi destinata a un eterno tramonto, per rinascere tra le favolose terre d’Oriente (la nostra storia è ricca di misteri e non siamo di certo meno inaffidabili, reticenti e insinceri degli altri popoli levantini).

IL CENTRO DEL MONDO
I Cinesi hanno battezzato il proprio paese “Paese al Centro” del mondo, così come gli Hobbit hanno chiamato la loro patria “la Terra di Mezzo”. Il Paese al Centro del mondo ha sempre avuto una grande estensione e conosciuto fasi di espansione, ma non ha mai manifestato smanie di scoprire, navigare ovunque, usare la polvere da sparo per scopi militari, inventarsi la bomba atomica. La Cina ha iniziato a dare un senso nuovo alla propria centralità quando, liberandosi dalla schiavitù dell’oppio imposta con la guerra dagli Occidentali, è uscita da una fase di torpore per vivere tutti i travagli e le inquietudini della sindrome da astinenza. Le potenze coloniali hanno risvegliato il drago, creatura alata che padroneggia terra e cielo e che con tutta probabilità si muove bene anche nei meandri sotterranei, che ha la pazienza e la calma di chi assiste alle vicende del mondo da migliaia di anni.
Quanto alle droghe, l’Occidente ha sperimentato e continua a sperimentare le complesse strategie della Nemesi. Ci sarebbe stato un perfetto rovesciamento di sorti se il cartello di Medellin, uscito vittorioso da un confronto militare con Stati Uniti ed Europa, avesse imposto nelle scuole distributori automatici di eroina, cocaina, marijuana e quant’altro si sarebbe potuto ottenere selezionando i prodotti desiderati sulla tastiera a fianco della vetrina, debitamente costruita con cristallo antiproiettile. Invece sono i cattivi, le figure losche, i profittatori, gli assassini a corrompere giovani che non chiedono di meglio, perfette figure di una Nemesi che fa pagar cara agli uomini la propria stessa rovina.
La Cina ha ripreso la sua posizione al Centro del Mondo, ma ha anche scoperto, grazie alla globalizzazione e all’intraprendenza delle potenze coloniali, quanto il mondo sia grande.

VIOLENZA SULLE DONNE
Al giorno d’oggi fa notizia la violenza sulle donne e si è coniato il termine femminicidio. Uxoricidio, diceva più o meno la stessa cosa sin dai tempi dei Romani, con una sostanziale differenza introdotta dalla modernità: un tempo si uccideva la moglie, proprietà del marito, adesso viene uccisa una creatura che proclama “io sono mia” e che decide di separarsi, divorziare e andarsene. Ritiene a giusto titolo di averne diritto, ma non tiene conto di una verità che non sembra destinata ad evolvere in alcun modo e che ha trovato la sua espressione più concisa nella lingua latina: homo homini lupus. Per par condicio il concetto non ammette differenze di genere, comprendendo anche l’accezione: homo mulieri lupus.
Una mentalità vittimistica rischia di mettere in ombra una verità fin troppo evidente considerando la storia dell’umanità: gli uomini, i maschi, si sono sempre trattati molto male tra di loro, massacrandosi, tradendosi, torturandosi, riducendosi in schiavitù.
Le donne non possono ignorare che la maggior forza fisica predispone l’uomo all’omicidio e se i femminicidi in passato non hanno goduto gli onori della cronaca, possono comunque vantare una serie infinita di precedenti. Molti fattori concorrono a spiegare perché oggi e non ieri la violenza sulle donne abbia acquistato visibilità e generi indignazione.
Madri, mogli e figlie, come dicevamo, si sono affrancate dalla condizione di oggetti e non sono state liberate né dalla propria assertività né da una nuova concezione dell’amore, è stato il lavoro, anche se mal retribuito, a renderle autonome. Il diritto della donna al lavoro deve molto alle conseguenze di homo homini lupus: in effetti durante le grandi, grandissime guerre del secolo scorso, perché il mondo continuasse a sussistere nonostante le stragi era necessario che qualcuno si dedicasse alla produzione. Impossibile distrarre gli uomini dal compito prioritario di massacrarsi tra loro, quindi sono entrate in campo le donne, assumendosi tutti gli oneri della vita civile.

UXORICIDIO
Anche se l’etimologia indica come vittima la moglie, l’uxoricida, in rari casi, è anche colei che uccide il marito. Agamennone, la vittima più famosa di un tale crimine, se n’era tornato tranquillamente a casa dopo aver sacrificato la propria figlia, passato dieci anni in guerra e obbligato le schiave troiane a tenergli compagnia. Clitennestra, la moglie, aveva i suoi buoni motivi, oggi le verrebbero riconosciute delle attenuanti, ma la tragedia non attenua un bel niente, tutto ciò che è terribile deve rimanere tale, senza diminuzioni o sconti di pena. Il mondo antico aveva una sensibilità assai diversa da quella dei contemporanei: mentre oggi la vittima innocente è una figura del Bene, come se il martirio rendesse meritevoli non solo di compassione ma anche di considerazione, i grandi guerrieri di un tempo detestavano morire come vittime innocenti, facendo una fine ingloriosa e meschina. Noi tendiamo a ritenere che innocente sia il contrario di colpevole, mentre il termine, secondo un’interpretazione più esatta, descrive colui che è incapace di nuocere, essendo disarmato e fragile. Agamennone si era lasciato irretire e la sua innocenza diventava un’onta insopportabile dal momento che la parte attiva, il soggetto della violenza, era una donna armata di ascia bipenne, simbolo del potere regale.

DONNA ONESTA
“Le donne oneste stiano a casa”: il suggerimento viene da chi, praticando il più vecchio mestiere del mondo, ritiene che gli equilibri, politici e non, poterebbero ristabilirsi tornando ad affidare alle mogli i lavori domestici, senza che poi si occupino troppo di quello che fanno i mariti. Per un attimo la proposta sembra allettante, permettendo una fantasia regressiva basata su stereotipi televisivi: arredamento impeccabile e colorato, colazioni allegre, pranzetti saporiti e pavimenti lucidi. Se il bimbo arriva dal giardino infangato come un fante appena uscito dalla sua trincea, la mamma lo accoglie sorridente, armata dell’ultimo detersivo igienizzante. Peccato che il padre, le cui attività per la buona pace familiare dovrebbero rimanere rigorosamente fuori casa, una volta scoppiata la guerra non se la potrebbe più giocare a Salamina, a Waterloo, o sui ghiacciai della Marmolada; la guerra, moderna, tecnologica e senza quartiere, la porterebbe in casa, nel qual caso servirebbe a poco il tanto decantato detersivo per pavimenti.
Non può più funzionare la divisione dei ruoli: lei dedita a Kinder, Kuchen, Kirche e lui affiliato al Ku Klux Klan o a una qualsiasi altra organizzazione composta di soli uomini.

OFFERTE SPECIALI
Offerte speciali, occasioni, sconti sono i peggiori nemici di qualsiasi programmazione. Erompono all’improvviso, impongono velocità di decisione, minacciando sempre di scomparire da un momento all’altro, chi non ne approfitta si accontenta di un mondo grigio, privo di bagliori, schiavo della necessità. Fare shopping è affidarsi alle opportunità del momento, mentre riconoscersi bisognosi unicamente di un paio di scarpe o di qualcosa da mettere in tavola la sera rischia di avviarci a una strategia di acquisto semplice, autocentrata, che nei suoi esiti prevedibili ci consegna a una vita routinaria e monotona.
Rischiamo persino di metterci a cercare nei recessi della nostra abitazione, nella scarpiera e negli stipetti della cucina, trovandovi mocassini non ancora sformati, barattoli di fagioli non ancora scaduti, ignorando il fascino delle vetrine e degli scaffali ricolmi dei supermercati.
Se ci si offre un’occasione, se ci si fa un’offerta, perché diffidare della generosità del mercato? Perché non ammettere che gli oggetti già posseduti, che si annidano nei luoghi più asfittici della nostra casa, sono divenuti indesiderabili? Forse verranno tempi duri, il mondo crollerà sotto il peso delle proprie contraddizioni, allora sì, anche le scatole di pelati accumulate, anche le sciarpe conservate sotto naftalina e le comode vecchie calzature diverranno non solo utili, ma indispensabili alla sopravvivenza.
Oggi ci è dato di vivere alla grande e sarebbe un peccato non sfruttare ogni occasione speciale.

POVERTÀ
Lasciando a sociologi, politici ed economisti la ricerca di soluzioni più complesse, ci sono due modi differenti di affrontare la povertà: diminuire il divario tra ricchi e poveri o combatterla accettandola in tutta la sua nudità. Nel primo caso, o si abbattono le barriere sociali con strategie rivoluzionarie, o si erode la differenza poco a poco, grazie alla generosità di chi ha e la riconoscenza di chi non ha.
Sta di fatto che la povertà è riuscita a sopravvivere a entrambe le strategie, che si sono dimostrate contraddittorie e insufficienti, a motivo dell’egoismo, dell’impazienza e della furia distruttrice che albergano nell’animo umano.
Combattere la povertà da povero, in solitudine, sembra rappresentare un’ultima spiaggia: la fantascienza fa dei sopravvissuti di un mondo in rovina degli eroi, capaci di sforzi estremi e grandi sacrifici. È più difficile magnificare la lotta all’indigenza se il mondo va avanti indisturbato nonostante le sue contraddizioni e il povero ha tutti i motivi per ritenersi un fallito, uno sfigato. Sembra che sia quasi inevitabile che dedichi tutti gli sforzi a uscire alla povertà, a compiangersi, a coltivare rancori, ad attivare meccanismi di negazione autodistruttivi, adottando la visione più miope del carpe diem.
Pochissimi riescono a immaginarsi poveri e ingegnosi, sfruttando tutti gli espedienti, gioendo di ogni raggio di sole, di ogni buon pasto strappato alla malasorte. Napoli è stato un luogo mitico, culla di strategie di sopravvivenza basate su un mix di miseria e nobiltà. Oggi la visione ironica e lieve di un mondo capace di arrangiarsi alla meglio è oscurata dall’ombra nera della camorra, criminalità organizzata, in grado di piegare la povera gente a un’obbedienza al Male Assoluto.
Molti dei problemi dei nostri tempi derivano dall’abitudine al benessere che ha indebolito nei nuovi poveri la capacità di reagire, di scegliere un chilo di pasta invece di un caffè al bar. “Posso resistere a tutto tranne che alle tentazioni”: descrive bene quello che è il tallone d’Achille di chi non è cresciuto nell’indigenza.
La povertà non può essere più affrontata nell’autosufficienza perché non manca molto che sarà a pagamento anche l’aria che si respira, oggi esistono le utenze, ed essere utente e povero rappresenta un rebus irrisolvibile. Va a finire che ci si ritrova a dormire in un’automobile, senza benzina, senza targa e senza assicurazione.

RICCHEZZA
Esistono due tipi di ricchezza: in denaro e in beni, mobili e immobili. La realtà del denaro è sempre più evanescente, rivelando la fragilità della convenzione che un pezzo di carta valga come l’oro, e che un niente immagazzinato in un computer valga quanto un pezzo di carta. I maghi della finanza sono tali perché sono capaci di far sparire il denaro che c’era e far comparire dal nulla fortune favolose e truffaldine. I beni di consumo impongono a chi li possiede di consumarli e, in un mondo a internet illimitato, la ricchezza, anche modesta (soprattutto modesta), porta all’obesità, all’alcolismo, alla tossicodipendenza, allo spreco d’indumenti che andrebbero trattati meglio e non affidati a quell’agenzia dello smaltimento differenziato che va sotto il nome di Caritas. Il consumismo predispone allo spreco, che va distinto dall’istinto autodistruttivo di alcuni ricchi di antica nobiltà, che perdono tutto al casinò o si schiantano con la Ferrari, figure di una Nemesi enigmatica ma implacabile.
La Nemesi si sta incaricando di trasformare in deserti o in incolti invasi dai rovi la ricchezza terriera, forse per scarso riguardo dei proprietari per le Entità che presiedono al raccolto (o per l’Entità che a tutto presiede), forse per la mancanza di schiavi, grazie ai quali anticamente i campi si trasformavano in giardini.
Il bene rifugio per eccellenza è la plastica: indistruttibile, a tal punto da aver riempito i bordi stradali, le spiagge, gli oceani. È candidata a contrassegnare l’Antropocene, l’Era dell’Uomo, rivaleggiando con l’aumento di depositi radioattivi legati ai test nucleari (non solo ai test).
Perversamente si cerca, da bravi consumatori, di aggirare i problemi creati dall’indistruttibilità della plastica, che rischia di invadere le nostre case, acquistando oggetti e imballaggi usa e getta (dove?) e facendo la raccolta differenziata, che responsabilizza i singoli individui, le famiglie, colpevolizzandoli per gli eventuali sprechi, come se le borse piene di bottiglie, vaschette, sacchetti da smaltire ogni giorno non evidenziassero che il problema sta nell’eccessiva produzione, non meno che nella mancata aderenza alle regole imposte dai comuni, sospettati di riversare poi tutto nel mare o di incenerire producendo nubi tossiche.
Viene da un filosofo l’idea che ormai solo un Dio ci può salvare da ricchezza e povertà, chi ha fede non può che dargli ragione, e pregare per lui dal momento che il nostro Heidegger, oltre che pensare benissimo, aveva aderito con incrollabile convinzione al partito nazista.

PLURALITÀ DI OPINIONI
I sostantivi plurali si prestano alle generalizzazioni e le generalizzazioni sono il terreno fertile sul quale nascono le opinioni e dalle opinioni discende, in linea diretta, la politica. La libertà di opinione va salvaguardata, come un animale che rischi l’estinzione, o per lo meno la distruzione del suo habitat naturale, la democrazia: i regimi totalitari sono i suoi nemici giurati. Si dà per scontato che essa sia un bene, ben pochi pensano che a volte sarebbe meglio avvalersi della facoltà di non rispondere a tutte le domande, come invece fanno gli opinionisti di professione, di non parlare di argomenti sui quali non si ha nessuna competenza. La più importante qualità dell’esperto è la cautela e sarebbe un bel guaio se anche la matematica fosse un’opinione.

LIBERTÀ DI SCELTA
Se tu potessi scegliere preferiresti vivere in uno stato islamico o nell’America di Trump? Per carità non rispondete, soprattutto non rispondete mai a domande che pongono in alternativa due impossibilità: preferiresti essere negro o cinese? Il primo quesito che gli adulti pongono a creature innocenti è: “Vuoi più bene alla mamma o al papà?” Ma vi sembrano cose da chiedere?
Non si sceglie dove nascere, non si decide di che sesso essere, né dipende da noi il risultato della somma di due più due.
Se pensate che si possa ipotizzare, fantasticare sulle scelte, magari tentando poi di imporre, consigliare, suggerire, state semplicemente cercando di mettere le opinioni al posto della Verità.
La scelta compete a chi la deve fare, in quell’unico, irripetibile prodursi di circostanze. La scienza e la liturgia cercano la ripetizione, ma parliamo di esperimenti e di riti, utilissimi se non si propongono invasioni di campo. La cosa più difficile è stare zitti, rinunciare al ruolo di protagonisti, al “so tutto io”.
Confrontandoci con il Bene, non siamo nemmeno in grado di fare ciò che vorremmo fare, figuriamoci se possiamo imporre una morale agli altri. Siamo tutti peccatori, colpevoli, quindi è meglio accettare di vivere in un regime di libertà vigilata, a casa nostra, piuttosto che andare in giro in uno stato islamico o nell’America di Trump a pontificare a destra e a manca.

PENTITI
Un tempo i pentiti affluivano ai confessionali, oggi parlano nei tribunali. Il pentitismo è un fenomeno che riguarda questi ultimi, il temine è un po’ sinistro e ha un sinonimo ancora più inquietante: collaborazionismo. Il sacramento della confessione non prevede il tradimento, né dei propri segreti, né di quelli altrui e l’espiazione dei peccati segue percorsi estranei alla giustizia umana. Il tradimento è da sempre ritenuto un’infamia e le sue conseguenze sono nettamente diverse a seconda di chi ne è la vittima. I Buoni soccombono al tradimento come agnelli al macello, i Cattivi si vendicano, nel modo più atroce possibile, nella convinzione che la colpa più grave sia cambiare campo, violare le regole dell’omertà. Il proprio complice non necessariamente è un amico, a volte è un sottoposto, intimidito e ricattato, ma guai se si allea con le Forze dell’Ordine. Difficilmente una Potenza Oscura si inqueta nel vedere un proprio adepto avviarsi a un confessionale, così come sono pochi tra coloro che frequentano le Chiese a sapere che il primo significato di “martirio” non è sacrificio di sé, ma testimonianza.

TRANSGENDER
Oggi c’è una gran tolleranza nei confronti di chi ha un Dio per conto suo o di chi è un buon diavolo, quasi nessuno ha chiaro il motivo per il quale è venuto al mondo, incertezze e confusioni vengono accolte e affrontate evitando ogni dogmatismo, purché non si discuta intorno al genere. Accantonata la questione, annosa e mai risolta, del sesso degli angeli, sempre avvolti in lunghe vesti, è impossibile rinunciare a un’idea semplice, che ogni genitore deve accettare: il sesso è una realtà di fatto. Pazienza se volevate un maschio e vi è nata una bambina, i vostri desideri non modificano la situazione, meglio fare il corredino giallo o verdino, così non si sbaglia.
La modernità va affrontata con intelligenza e apertura di vedute, è da considerarsi realtà di fatto, anche la mappa cromosomica: XY è maschio, XX è femmina e se esistono altre combinazioni vanno ascritte a patologie, a sindromi ben definite.
È noto che i bimbi almanaccano sul sesso immaginando le cose più strane e che la mente umana è abitata dalle fantasie erotiche più bislacche, ma solo i matti negano le realtà di fatto e costruiscono un mondo tutto loro. Se il sesso non è più da assumersi come una decisione del nostro Creatore, cos’altro riusciremo a sdoganare dal campo del reale?
Domande per i teologi: siamo sicuri che il serpente che tentò Adamo ed Eva fosse maschio? Se fosse stata femmina, Adamo avrebbe ceduto per primo? Un serpente femmina è una creatura transgender?

FAMIGLIA
Dio, Patria e Famiglia: un Dio, una Patria, una famiglia. La grandezza di Dio è incommensurabile, la Patria è grande e può veder modificare i suoi confini: se ci va bene annettendo nuove terre, se ci va male perdendo province e città. La famiglia può essere estesa o nucleare, la prima include sempre qualche creatura bislacca, che essendo dei nostri, ci apre al mistero delle differenze senza rigettarle: anche lo zio prete, il cugino emigrato che parla inglese e qualche parola del dialetto stretto della Gallura, la nonna ipocondriaca e il cognato alcoolista sono nostro zio, nostro cugino, nostra nonna e nostro cognato. La famiglia nucleare è lo stretto indispensabile per procreare ed essere procreati e oggi risente dell’affannosa e sconsiderata ricerca del superfluo. L’amante di mamma e quella di papà, presenti sin dalla notte dei tempi come minacce per l’unità familiare, oggi sono trattati alla stregua di beni, o mali, necessari, anche se va riconosciuto (o disconosciuto) che molti figli non sarebbero venuti al mondo senza il loro volonteroso contributo. Il nucleo familiare può venir scisso, rilasciando nell’ambiente scorie nucleari con un tempo di decadimento dei loro possibili effetti di instabilità, di infelicità e di nevrosi di almeno cinquant’anni. Instabilità, infelicità e nevrosi esistevano anche prima della scissione familiare, essendo presenti già allo stato di natura.

MATRIMONIO E DIVORZIO
Il matrimonio non è più indissolubile, è avvenuta l’eclissi di una certezza. Si può divorziare diventando ex moglie ed ex marito, l’amante può diventare moglie o marito, a seconda del proprio sesso, ma anche a prescindere dal proprio sesso. Ciò che prima poteva aver luogo solo per l’intervento della Nera Signora, oggi avviene grazie alla sentenza di un giudice, così invece di diventare buonanima, si diventa semplicemente di troppo, con la necessità di alimenti, divisione dei beni e risarcimenti vari.
È sempre più arduo condurre una doppia vita, basata su una rigida divisione dei ruoli, la moglie da una parte e l’amante dall’altra. Una volta raccontare bugie era necessario ma relativamente semplice, era sufficiente avere buona memoria e una certa dose d’inventiva. Alla moglie si chiedeva pazienza, un certo grado di miopia, una discreta ignoranza circa le possibilità che la vita amorosa offriva a chi non si attenesse scrupolosamente ai consigli del proprio confessore e un’incapacità di immaginare nuovi orizzonti. All’amante si chiedeva di non pretendere l’impossibile, di non essere gelosa dei privilegi concessi alla consorte, titolare di parecchi diritti (ciò che è legittimo è legittimo: non ci piove) e di non cercare di diventare la moglie, evitando di sperare che la separazione dei coniugi avvenisse per mano di Colei che sola aveva il compito di dividerli a tempo debito.
Oggi le donne hanno ufficialmente il diritto di parlare, di dubitare, di sospettare, di indagare, di tradire, di andarsene, di divorziare, di risposarsi e di divorziare di nuovo. Invece di cercare le tracce di rossetto sulla camicia, sondano direttamente l’inconscio, guidate da abili psicologhe di provata esperienza. L’uomo ha perso la superiorità che un tempo gli dava la sua prepotenza, e deve stare molto attento, perché, quando gli girano le palle, gira anche tutta la giostra.

SENZA FAMIGLIA
Recentemente si è posto l’accento sul fatto che non esiste un termine che indica il genitore che ha perduto un figlio, mentre chi perde il coniuge è vedovo o vedova, chi perde i genitori è orfano. Nessun vocabolo indica nemmeno colui che perde la propria famiglia, ci sono i divorziati e le divorziate, ma non è stato ancora coniato un termine specifico per i loro figli. I bambini illegittimi in passato nascevano senza famiglia e potevano ricevere le cure di uno dei genitori, più raramente di entrambi, o venir abbandonati nella ruota degli esposti. Oggi è inammissibile ricorrere a termini come “bastardo” o “figlio di buona donna”, se non in senso figurato, nessuno è più tenuto a vergognarsi delle circostanze nelle quali è venuto al mondo.
I figli dei divorziati perdono la loro famiglia d’origine, ma vengono incoraggiati a non piangere sul proprio destino, in fondo “famiglia” è un termine astratto, non è morto nessuno, tutt’al più qualcuno è sparito senza pagare gli alimenti, ma non per questo si muore di fame. Non di rado i bimbi vengono inseriti in complesse reti familiari e talvolta godono dell’affetto dei cani e dei gatti di casa (anche la casa è un problema, ma non sta ai ragazzini risolverlo, per questo ci si rivolge ai tribunali). C’è un certo imbarazzo nel suggerir loro come debbano riferirsi al nuovo compagno di mamma o alla nuova compagna di papà, i termini patrigno e matrigna sono carichi di risonanze negative, va benissimo chiamarli con il nome di battesimo, ma non è facile precisare i ruoli, disegnare gli alberi genealogici.
I figli dei divorziati sono invitati a vivere in modo aperto, fiducioso, a essere possibilisti, a darsi vasti orizzonti: in fondo le potenzialità di Alessandro Magno si sono realizzate pienamente nonostante la separazione dei suoi genitori. Non tutti i padri che ripudiano la moglie hanno avuto l’accortezza di porre accanto al figlio un precettore come Aristotele, non tutti i genitori di buona volontà, una volta risolte civilmente le questioni patrimoniali, riescono a prevedere come giungeranno a maturità i figli che hanno visto naufragare la propria famiglia di origine. Certo non devono lasciarsi condizionare né dal mito di Medea, né dai sospetti che gravano sulla morte di Filippo il Macedone.

FIGLI UNICI
“Nuttata persa e figghia fimmina” recita un proverbio siciliano. Così un padre poteva esprimere la propria delusione in tempi di abbondanza, oggi succede di perdere una sola nottata in tutta la vita e allora non conviene fare troppo i difficili. Si attacca un bel fiocco rosa al portone e ci si dichiara appagati: chi non ha il pane può accontentarsi di una brioche.
È difficile mantenersi saldamente maschilisti quando l’unica erede accentra su di sé tutte le aspettative della famiglia, non le si chiede più di tenere gli occhi a terra, ma si spera che impari a guardare lontano invece di sperperare l’eredità che le verrà da mamma e papà, dai nonni e dalle nonne, dagli zii scapoli o precocemente divorziati e dalle zie nubili che hanno preferito la professione al matrimonio.
Dopo il boom demografico si è giunti alla politica del figlio unico, senza nemmeno la necessità di misure dissuasive imposte dallo stato. Certo, quando il piccolo, o la piccola, cresce si avverte una certa nostalgia per la dolcezza del primo sorriso, per la tenerezza dei primi abbracci, per l’emozione dei primi passi e, per non lasciarsi cogliere dalla tentazione di mettere al mondo un altro figlio, si scattano migliaia di fotografie, si girano centinaia di filmini, in modo da saturare ogni vuoto riproducendo all’infinito sempre la stessa, identica creatura.

LIBERO AMORE
La nostra è stata la generazione del libero amore e giovani cantanti infiammavano i nostri cuori dando voce agli eroi e alle eroine dei nostri tempi. C’era chi proponeva alla donna amata di prostituirsi per una motocicletta, chi rivelava alla dolce amica di una sera che lui doveva squagliarsela subito, perdutamente innamorato di un’altra (perché non dirlo prima?), chi non accettava di venir giudicata se si era tolta la curiosità di vedere la differenza tra lui e te (nulla di pornografico, però). Una nuova mentalità ha fatto cadere nel dimenticatoio parole come “seduttore” e “cornuto”, termine oggi usato solo per indicare i discendenti dei vichinghi, mentre, chissà perché, “puttana” è un termine che ricorre ancora molto spesso, soprattutto nell’accezione: “Stiamo andando a puttane con tutto”.
Oggi il delitto d’onore si chiama femminicidio e il divorzio pone termine senza moralismi a vicende di ordinario squallore. È possibile anche dedicarsi a pratiche sadomaso, dotandosi di tutta una gadgetteria a basso costo: guinzagli borchiati, stivali in finta pelle, peccato invece che sia troppo costoso affittare un castello, l’unico ambiente adatto a tali pratiche. Leggendo testi impegnati e intelligenti, anche se non illustrati, si potrebbe scoprire che sadismo e masochismo non sono complementari, quindi bisogna rinunciare all’illusione che la coppia possa restare unita grazie alla perversione: alle vittime dei sadici il gioco non piace, le compagne dei masochisti dopo un po’ si stufano di recitare la loro parte e, soprattutto d’estate, si rifiutano di indossare la pelliccia se non è ecologica (ma allora che gioco è?)
Insomma non c’è modo di tener unita la coppia e oggi si lascia correre se i figli dei divorziati scrivono “familia” senza la “g”, per poi metterla nella parola “famigliare”.

L’ALTRA METÀ DEL CIELO
Donna, sostantivo femminile, ammette due plurali: donne e uomini. Molti plurali maschili hanno la capacità di assorbire completamente il genere femminile: “Gli uomini primitivi hanno compiuto migrazioni che dall’Africa li hanno portati ad abitare tutte le terre del globo”; “Gli Italiani amano gli spaghetti”; “I cattolici non ammettono il divorzio”. Anche al singolare la donna può diventare l’uomo: “L’uomo ha abitato le caverne”; “L’uomo non è dotato di pelliccia (ma la donna a volte sì)”; “L’uomo possiede il linguaggio”. Ma è soprattutto il plurale a contenere entrambi i generi. I plurali femminili non hanno la stessa capacità di contenere l’elemento maschile, contrariamente a quanto avviene a livello anatomico. L’uomo ha minor difficoltà ad ammettere di avere tra i propri avi le scimmie che a ricordarsi di essere stato contenuto dall’utero materno. L’istinto dei maschi è claustrofobico, li spinge alla fuga: i più coraggiosi vanno a scalare montagne, a scoprire nuove terre, con un gran desiderio di lasciare l’orbita terrestre, partendo senza nemmeno salutare i parenti stretti. Essere delle femminucce è ciò che di peggio può succedere loro, meglio le trincee in prima linea, gli sport estremi, ben venga il turpiloquio negli spogliatoi delle palestre, le grossolanità da caserma, l’incuranza e l’incoscienza.
La donna e le donne da un po’ di tempo si sono stufate di essere l’uomo e gli uomini in modo generico e, per così dire, asessuato. C’è chi ha deciso di corrispondere all’idea di uomo, tatuandosi come un marinaio e bestemmiando come un carrettiere, e chi invece desidera dissociarsi da imprese come la guerra, lo stupro, l’atomica, tentando la velleitaria impresa di salvare il genere umano (sostantivo maschile).

Cristina Biondi

30/7/2018 www.inchiestaonline.it

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