Part time pubblici e privati

Il part time in Italia è in aggregato una percentuale innocua, attestandosi nel 2019 al 19% del totale degli occupati (dipendenti e indipendenti), pur avendo subito un incremento importante negli anni di crisi economica (nel 2005 l’incidenza era del 13%). Prima dell’emergenza da Covid19 una persona occupata su cinque era part time, una percentuale di poco inferiore alla media europea. Tuttavia, dietro il dato medio si nascondono grosse differenze sia di genere che tra settore pubblico e settore privato. Proponiamo un’analisi per sottolineare che non solo le donne che hanno una qualche occupazione sono poche, inchiodate da tempo al di sotto del 50% (fascia 15-64), ma anche che la loro occupazione, al di fuori del settore pubblico, è di cattiva qualità, come già è stato più volte rimarcato

Disaggregando infatti per la dimensione di genere, la percentuale del 19% di part time rivela una realtà al femminile. Nel 2019, tra le donne occupate il 33% è part time, mentre tra gli uomini l’incidenza si attesta al 9% (Figura 1). Il part time in Italia è cresciuto molto durate la lunga recessione, e l’aumento è dovuto – sia tra le donne che tra gli uomini – alla sola componente “involontaria”, ossia a una forma di orario ridotta imposta dal datore di lavoro che, in periodi di incertezza, preferisce impegnarsi di meno, estendendo l’orario di lavoro solo quando serve. A ciò si aggiunge anche un certo aumento di part time involontario tra gli autonomi (es.: partite IVA), dovuto alle deboli condizioni del mercato. 

La recessione economica ha apportato modifiche importanti all’utilizzo del part time da parte delle donne. Prima del 2011 infatti il part time “volontario”, ossia scelto dalle lavoratrici, era prevalente rispetto a quello “involontario”. Dal 2012 in poi il part time femminile registra una forte crescita: nel 2019 circa il 20% delle occupate lavora part time involontariamente, e solo il 13% lavora part time per scelta, con una incidenza inferiore a quella del 2005 (Figura 2).

È disaggregando ancora ulteriormente i dati che si osservano dimensioni più significative. Guardando ai soli dipendenti, invece che al totale degli occupati, la diffusione del part time mostra una realtà agli antipodi tra pubblico e privato, prima ancora che tra uomini e donne. 

Figura 1. Incidenza del part time sul totale dell’occupazione secondo il genere, anni 2005-2019

Fonte: elaborazioni su dati RCFL – Istat

Figura 2. Incidenza del part time volontario e del part time involontario sul totale dell’occupazione part time per genere, anni 2005-2019

Fonte: elaborazioni su dati RCFL – Istat 

Dai dati Inps – basati sull’universo dei lavoratori dipendenti nel settore privato (esclusa l’agricoltura) – si nota come il lavoro part time sia ancora più pervasivo tra le donne: quasi una su due occupate dipendenti lavora part time (46% nel 2017, Santoro, Inps 2017). Se si guarda ai dipendenti uomini, la realtà è ben diversa: il part time interessa solo il 16% dei maschi. Come sono le percentuali nel settore pubblico? Il divario tra uomini e donne persiste, ma il part time è molto meno diffuso riguardando il 10% dell’universo femminile e quasi il 3% di quello maschile. Percentuali che aggregate nella media diluiscono la dimensione del fenomeno (Figura 3).

Figura 3. Incidenza del part time sull’occupazione dipendente (settore privato non agricolo e settore pubblico) secondo il genere, anno 2017

Fonte: elaborazioni su dati Inps

La presenza di figli – e la tradizionale divisione dei ruoli che affida alle madri la cura dei figli – può spiegare il divario tra part time femminile e maschile, soprattutto nella componente di part time volontario. Ma come si spiega la differenza di part time cosi grande tra pubblico e privato, essendo le esigenze di cura le stesse?

I dati Inapp derivanti dall’indagine sulla qualità del lavoro condotta nel 2015, aiutano nell’approfondire l’analisi, dato che è possibile rilevare la forma giuridica del datore di lavoro (distinguendo tra pubblico e privato), la presenza di figli coabitanti e l’orario di lavoro.

Concentrando l’attenzione sui soli lavoratori dipendenti, si riscontra che il 16% delle donne che lavorano nel pubblico è part time, mentre sale al 44% nel privato. Se si considerano solo le donne con figli le percentuali salgono: al 19% pubblico, al 48,4% nel privato. Si potrebbe pensare che nel settore pubblico ci sono facilitazioni di conciliazione non disponibili nel privato, ma questa ipotesi non trova conferma nell’elevata quota di part time per le donne senza figli occupate nel privato: 36% (Figura 4).

Figura 4. DONNE DIPENDENTI di 18 anni o più per presenza di figli coabitanti e tipo di lavoro (part time vs full time, pubblico vs privato), anno 2015

Fonte: elaborazioni su dati Inapp- Qualità del lavoro, indagine 2015

La presenza di almeno un figlio coabitante, dunque, acuisce il part time per le donne nel settore privato cosi come nel pubblico, anche se in misura minore in quest’ultimo (con una differenza di 12 punti percentuali  nel privato contro 10 nel pubblico).  Ma anche tra le donne che non hanno figli in casa, il part time è una realtà decisamente significativa nel privato. L’informazione sulla volontarietà o meno da parte della lavoratrice di svolgere un’attività con orario ridotto, mostra che nel privato poco meno della metà del lavoro part time femminile è involontario. E l’involontarietà è nettamente più marcata per le donne senza figli (Tabella 1).

Tabella 1. DONNE DIPENDENTI di 18 anni o più per presenza di figli coabitanti e tipo di lavoro (part time volontario e involontario VS full time, pubblico VS privato), Anno 2015

Fonte: elaborazioni su dati Inapp. Qualità del lavoro, indagine 2015

In conclusione, i dati qui riportati confermano le debolezze strutturali del nostro sistema produttivo, con una forte penalizzazione dell’occupazione femminile. In Italia il settore privato non è ancora in grado di offrire lavoro di buona qualità alle donne per cui il settore pubblico resta ancora un importante datore di lavoro. La bassa occupazione femminile appare sempre meno dipendente da problemi di scarsa disponibilità delle donne a stare nel mercato del lavoro e sempre più dipendente da fattori di domanda.

Il rapporto Colao avanza la raccomandazione di “potenziare l’occupazione nei settori dell’assistenza sociale, sanità e servizi educativi per la prima infanzia, ad alta intensità femminile, puntando nel medio-lungo periodo ad allinearsi a paesi europei più avanzati”. Aggiunge che se dovessimo confrontarci con i livelli tedeschi, considerando la diversa consistenza della popolazione, dovremmo colmare un gap di 1 milione e 100mila occupati nell’assistenza sociale, 500mila nella sanità. Come su inGenere abbiamo spesso argomentato, la mancanza di investimento in questi settori incide non solo sul benessere generale della popolazione e sulle prospettive future del paese, ma anche sul lavoro femminile, tanto dal lato dell’offerta che della domanda.  

Valentina Gualtieri, Annalisa Rosselli, Maria Cristina Rossi

9/7/2020 http://www.ingenere.it

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