Partorire da sole

Nelle ultime settimane, numerosi articoli pubblicati su riviste scientifichemedia mainstream hanno evidenziato come la gestione dell’attuale emergenza mostri fino a che punto si sia imparato poco dalle lezioni offerte dalle precedenti epidemie globali. Nonostante le preoccupazioni espresse da attiviste e attivisti riguardo alla necessità di riflettere sulle disuguaglianze di genere nella gestione di momenti emergenziali, le risposte fornite dalle politiche di salute pubblica non sembrano tenere conto del fatto che i cambiamenti legati all’epidemia Covid19 coinvolgano in maniera più importante e intensa le donne.

Le madri (soprattutto se single, lavoratrici, o senza permesso di soggiorno) chiamate a portare avanti insieme gli impegni professionali in modalità smart working e le molteplici attività che compongono il lavoro domestico – compresa la formazione scolastica dei figli – non godono di misure specifiche, o differenziali, nei decreti emessi dal governo italiano. La grande proporzione di donne lavoratrici coinvolte in prima linea e in ruoli a maggior rischio di infezione, quali servizi essenziali e settori di impiego spesso precari e sottopagati (tra queste, le molte donne che lavorano nei supermercati, le donne infermiere e medico, la popolazione delle assistenti domestiche, o ancora quelle coinvolte nel lavoro di cura), è per buona parte assente nel dibattito pubblico.

Molte altre categorie e gruppi di donne sembrano essere tornate a confrontarsi con uno spazio domestico etero-normativo come negli anni ’50. Sebbene, in Italia come negli altri paesi colpiti dall’epidemia, le cure e gli interventi ospedalieri ritenuti non urgenti siano stati rimandati a date da destinarsi al fine di liberare spazi e personale medico di fronte al forte afflusso di malati in terapia intensiva, le donne in gravidanza continuano a vivere lo spazio ospedaliero, e a partorire all’interno di un panorama sanitario completamente riconfigurato.

Eppure, le donne in gravidanza non rientrano pienamente nella categoria di paziente. La gravidanza non è una malattia, ma la tendenza biomedica a patologizzare l’esperienza procreativa non poteva che essere esacerbata dall’epidemia. Le donne incinte erano e continuano a essere classificate come pazienti vulnerabili, da proteggere e monitorare. Quali sono le implicazioni connesse al Covid19 per le donne in gravidanza in Italia, come sono cambiati i loro percorsi di assistenza nella pratica, e rispetto ai loro legami sociali?

Nelle scorse settimane abbiamo intervistato donne (e coppie) residenti in tutta Italia, che stanno portando avanti l’esperienza di gravidanza, per scoprire come i loro vissuti sociali, materiali, temporali e affettivi siano stati riconfigurati dall’epidemia. Da queste conversazioni sono emersi alcuni risultati che – ci sembra – possano rappresentare degli spunti di partenza per un futuro lavoro, più approfondito, sulla salute e i diritti sessuali e riproduttivi all’ombra del Covid19.[1]

Un primo elemento su cui riflettere è la ri-articolazione dei ruoli di genere in una situazione di confinamento domestico forzato. Soprattutto nelle aree del Sud Italia, dove le donne hanno ormai respinto e/o continuano a resistere alla ‘naturale’ assegnazione delle mansioni domestiche al genere femminile, le limitazioni connesse all’epidemia appaiono come un salto nel passato per coloro che avevano reso il lavoro extra-domestico uno degli elementi-chiave del processo di costruzione identitaria, e di emancipazione, femminile: donne attive, capaci di tenere insieme lavoro, famiglia, attività di volontariato e vita sociale, anche durante i mesi della gravidanza.

In alcuni casi, i partner maschili tornano a rivestire il ruolo di breadwinner, autorizzati, per motivi di lavoro, a frequentare luoghi esterni allo spazio domestico, mentre le donne – specie se in gravidanza – portano avanti il proprio di lavoro, produttivo e riproduttivo, esclusivamente all’interno della casa. In altri casi, se i partner maschili continuano a lavorare fuori casa, le coppie decidono di vivere una vita separata all’interno dello spazio domestico. La paura del contagio si traduce in questo caso in una ridefinizione delle sfere dell’intimità domestica, dall’organizzazione dei pasti all’uso del bagno, fino alla scelta di dormire in camere separate. Il risultato, questa volta, è un duplice isolamento vissuto dalle donne in gravidanza: verso lo spazio esterno, e all’interno dello stesso spazio domestico.

Sebbene, secondo i discorsi delle donne e delle coppie intervistate, i reparti di maternità non possano essere pensati più come dei luoghi sicuri in cui partorire, tanto le donne/coppie residenti al Nord quanto quelle del Sud Italia hanno aprioristicamente scartato il percorso del parto in casa, a prescindere dal fatto che si tratti o meno di una prima esperienza di gravidanza. Il sentimento che prevale è quello di una pressione morale paradossale in cui si accetta la possibilità che le madri affrontino il rischio di contrarre il virus SARS-CoV-2 in nome dell’importanza attribuita alle visite e i controlli prenatali di routine.

Lo stesso si può dire per l’assistenza al parto dove la centralità del ruolo svolto dai professionisti ospedalieri, e dagli stessi ospedali, non è messa in discussione, malgrado le circostanze eccezionali. Il riferimento alle paure provate dalle donne, prima tra tutte quella di confrontarsi con una gestione dei propri corpi, e dei propri figli, altamente medicalizzata, è tuttavia ricorrente. L’obbligo, per le madri e gli operatori sanitari, di indossare la mascherina durante il travaglio è stato descritto come un elemento che rende le interazioni medico-paziente meno umane, più distaccate e asettiche. La preoccupazione di essere sottoposte a interventi medici invasivi – come il taglio cesareo invece del parto vaginale, o l’induzione farmacologica del travaglio, al fine di ridurre il tempo di permanenza delle pazienti negli ospedali, o ancora nel caso di madri infette – è un altro esempio.

Lo scarto tra le aspettative personali e la probabile realtà della propria esperienza di parto, quale la necessità di dover affrontare il parto da sole, affiancate unicamente dall’equipe ospedaliera, è ugualmente motivo di preoccupazione. Il risultato è una ridefinizione della temporalità procreativa, o una tendenza a vivere solo nel presente sospendendo ogni proiezione riguardo alle settimane a venire. In particolare, l’incertezza riguardo alla possibilità per il partner di essere presente al momento del parto è descritta come una fonte di stress. Lo stesso vale per il rischio corso dalle madri – se infette – di essere separate dal neonato subito dopo il parto. Una situazione questa che, rispondente più a un principio di precauzione che alle evidenze scientifiche, può avere conseguenze negative sull’allattamento.

Di fronte al pericolo di vivere un’esperienza di parto de-socializzata, alcune donne, soprattutto nel Nord Italia, hanno deciso di rivolgersi a ospedali più piccoli – quali quelle strutture pubbliche sottoposte, ormai da diversi anni, al rischio di chiusura –, per provare a esercitare il diritto a un parto rispettato. Questa opportunità dipende, tuttavia, dall’esistenza (o meno) di ospedali più “umanizzati” nelle aree e regioni d’Italia dove le donne vivono o risiedono temporaneamente. Le disparità territoriali, preesistenti all’arrivo del Covid19, appaiono di fatto aggravate dall’emergenza sanitaria.

Il riferimento a network sociali e familiari, alimentati virtualmente, e la ricerca di consultazioni ostetriche online sono i principali modi con cui le donne, e le coppie, stanno reagendo al comune sentimento di solitudine, e alla presenza di percorsi assistenziali divergenti sul territorio nazionale. Corsi di preparazione alla nascita tenuti dalle ostetriche tramite videoconferenze, dove parole e immagini astratte sostituiscono l’allenamento fisico di un corpo-contenitore-della-gravidanza confinato a casa; risultati di esami diagnostici condivisi con il personale medico tramite applicazioni dello smartphone; consigli offerti dalle ostetriche tramite telefono per problemi legati all’allattamento, o difficoltà incontrate dalle madri nella ripresa fisica del post-parto, sono tendenze che rivelano una centralità della telemedicina e un rafforzamento di un approccio biomedico esercitato a distanza, oltre che all’interno dello spazio ospedaliero.

Questi andamenti coinvolgono, d’altra parte, la popolazione femminile in maniera non egalitaria. L’accesso alle tecnologie, le condizioni sociali e abitative, lo status economico e giuridico individuale e familiare, la condizione di straniere in Italia, le competenze linguistiche, la presenza o l’assenza di partner collaborativi sono tutti elementi che stanno contribuendo a un rafforzamento delle disparità sociali, introducendo al tempo nuove forme di disuguaglianze, tra soggetti (non solo) femminili. 

Riferimenti

Abela, Kristina. 2020. “Ministry defends decision to separate COVID-19 mothers and newborns”. Times Malta, 15 Aprile 2020

Blake, Meredith. 2020. “Women in New York giving birth alone may be facing their worst nightmare” LA Times, 26 Marzo 2020

Davis, Sara, Harman Sophie, True Jacqui, Wenham Clare. 2020. “Why gender matters in the impact and recovery from Covid-19”. The Interpreter, 20 Marzo 2020

Frederiksen, Brittni, Ivette Gomez, Alina Salganicoff, Usha Ranji. 2020. “Coronavirus: A Look at Gender Differences in Awareness and Actions” KFF, 20 Marzo 2020

Lewis, Helen. 2020. “The Coronavirus is a Disaster for Feminism…’’. The Atlantic, 19 Marzo 2020

Slimani, Leïla. 2020. “Leïla Slimani: ‘L’expérience du confinement, de l’enfermement, de l’immobilité fait partie de l’histoire des femmes’” Le Monde, 29 Marzo 2020

Wenham, Clare, Julia Smith, Rosemary Morgan. 2020. “Covid 19: The Gendered Impacts of the Outbreak” The Lancet, 6 Marzo 2020 

WHO. 2020. “Q&A on COVID-19, Pregnancy, Childbirth and Breastfeeding”, 18 Marzo 2020

Note

[1] Le interviste sono state effettuate nel periodo compreso tra marzo e maggio 2020. Le interviste sono state svolte a distanza, tramite l’impiego di tecnologie digitali, o tramite telefono. Le donne e le coppie intervistate, per un totale di circa dodici ore di interviste, risiedono in diverse regioni del Nord (Piemonte, Veneto, Lombardia), Centro (Toscana, Lazio) e Sud (Sicilia) Italia. In tutti i casi si è trattato di soggetti che hanno volontariamente risposto a un ‘appello a testimonianze’ da noi diffuso tramite social network nel mese di marzo 2020. Prima dello svolgimento delle interviste un modulo di consenso informato è stato inviato via mail ai/alle partecipanti alla ricerca, e sottoscritto da questi/e ultimi/e tramite firma digitale. Il nostro lavoro di ricerca, tuttora in corso, si inscrive all’interno del progetto EU Border Care Intimate Encounters in EU Borderlands: Migrant Maternity, Sovereignty and the Politics of Care on Europe’s Periphery finanziato dall’European Research Council (ERC – StG #638259).

Vanessa Grotti, Chiara Quagliarello

13/5/2020 http://www.ingenere.it

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