Pensioni e lavoratori tra Nord e Sud: oltre gli stereotipi e le letture sensazionaliste dei dati

I lavoratori del Nord pagherebbero le pensioni ai pensionati del Sud? Questa idea ha ripreso a circolare insistentemente di recente, alimentata dai dati presentati in alcuni studi. Si tratta di un falso mito ed entra nel merito mostrando, in particolare, che alla base di quell’idea c’è una lettura non corretta dei dati e, dunque, non sono giustificate le polemiche e la richiesta di tagli alla spesa sociale.

Nella letteratura economica è noto che in materia previdenziale l’informazione corretta ha un impatto rilevante sul benessere degli individui: indirettamente, contribuendo alla formulazione di scelte di risparmio efficienti; direttamente, perché l’incertezza sul futuro ha di per sé un impatto rilevante sul benessere di una persona. 

Eppure, proprio nel dibattito pubblico sul sistema previdenziale abbondano i falsi miti. Ne è un esempio il mito delle pensioni di anzianità, evocate come lo strumento che permetterebbe agli operai impegnati alle catene di montaggio fin dagli anni della gioventù di accedere ad una meritata pensione anticipata dopo 40 anni di contributi. È un mito perché se si guarda ai dati si scopre che gli operai vanno quasi tutti in pensione di vecchiaia e che il grosso della spesa per pensioni di anzianità riguarda la classe medio alta che beneficia del riscatto della laurea e, inoltre, dopo aver guadagnato il diritto a ricevere la pensione “anticipata”, continua a lavorare.

Un altro falso mito è quello dei lavoratori del Nord che mantengono i pensionati del Sud. Si tratta di uno dei miti che hanno costruito la fortuna politica di tanti, inclusi alcuni novelli paladini del ponte sullo stretto.

Recentemente questo falso mito è tornato a circolare grazie all’ultimo rapporto di Itinerari Previdenziali e in parte anche a quello della CGIA di Mestre. Il primo è stato portato all’attenzione dalla rubrica di Milena Gabanelli su Corriere della Sera, che titolava “Pensioni e Regioni, chi ha i conti in rosso”, il secondo è stato diffuso direttamente dall’ANSA, con il titolo “al Sud più pensioni che lavoratori”

La rubrica della Gabanelli, citando il rapporto dell’Istituto presieduto da Alberto Brambilla, sostiene che se il nostro sistema pensionistico è sostanzialmente in equilibrio a livello nazionale, ciò è dovuto al fatto che la situazione insostenibile nel Sud è più che compensata dalla virtuosità del Nord. Il rapporto dell’associazione veneta di imprenditori e artigiani si incentra invece su due tabelle in cui le righe corrispondenti alle regioni e le province del Sud, riportano il segno “meno” davanti, e quelle del Nord, colorate in verde, il segno “più”: si tratta della differenza tra occupati e percettori di pensioni.

Messe insieme, a breve distanza e con i media nazionali a fare da grancassa, ecco i “dati” che sembrano confermare il mito di cui sopra. Per l’importanza che abbiamo ricordato dell’informazione in campo previdenziale, ma anche per una questione di coesione nazionale, gioverebbe che ai dati seguisse un’interpretazione meno orientata al sensazionalismo, che dovrebbe essere estraneo a una rubrica come quella della Gabanelli nel cui titolo figura il termine “Datajournalism”. 

I problemi emergono fin dall’inizio del ragionamento. La “dataroom” del Corriere si apre con un dato: un sistema pensionistico è in equilibrio se le entrate sono pari almeno al 75% delle uscite. È difficile comprendere come possa essere sostenibile un sistema in cui le entrate sono solo una quota delle uscite, si tratti del 60, 75 o 90 per cento. È vero che il sistema previdenziale non è destinato al collasso. Ma questo dipende dal fatto che, a fronte di calo demografico, scarsa crescita e bassi salari, il sistema contributivo aggiusterà proporzionalmente al ribasso le future prestazioni pensionistiche; dunque, il problema della sostenibilità diventa un problema di adeguatezza delle pensioni.

Il rapporto tra contributi e spesa complessiva per pensioni invece c’entra poco con la sostenibilità complessiva, a meno che non si separi la contabilità del sistema previdenziale da quella dell’assistenza, un’operazione che non è riuscita neanche alla commissione di Esperti del Ministero del Lavoro, nei cui lavori comunque non c’è traccia di soglie forfettarie, tantomeno del 75%. 

Tale separazione tra previdenza e assistenza è tuttavia una distinzione importante per chi si occupa di sistemi di welfare e ci introduce alla questione fondamentale che andrebbe chiarita quando si parla di sistema pensionistico: cosa si intende per pensioni? 

Il dato della CGIA di Mestre, ad esempio, conta tra i “pensionati” tutti i percettori di pensioni assistenziali, ovvero anziani che non hanno lavorato o non abbastanza e sarebbero altrimenti senza reddito, e tutti i percettori di invalidità a qualsiasi titolo. Quindi, il dato dei pensionati così calcolato aumenterebbe se un ragazzo perde la vista o se un percettore di assegno di inclusione raggiunge l’età pensionabile, passando alla pensione sociale. In altre parole, confonderemmo gli effetti della differente incidenza della povertà e delle diverse condizioni di salute con quelli delle diverse dinamiche del mercato del lavoro. 

Anche il calcolo di Itinerari previdenziali per ricostruire la contabilità regionale soffre dello stesso problema. Le “pensioni” su cui viene calcolato lo squilibrio regionale sono le cosiddette “IVS e Assistenziali”. Ma se volessimo stare al significato stretto della previdenza per indagarne l’insostenibilità al Sud rispetto al Nord, dovremmo usare voci coerenti tra entrate e spese. Siccome dal lato delle entrate lo studio considera i contributi versati dai lavoratori nelle diverse aree geografiche, per coerenza, dal lato delle uscite dovremmo partire dal considerare solo le pensioni pagate agli ex lavoratori, ovvero quelli che al loro tempo hanno contribuito, cioè le cosiddette pensioni di Vecchiaia (che includono nella terminologia del bilancio INPS anche quelle di anzianità). Andando sul sito dell’INPS (Dati e Bilanci – Osservatori statistici- Pensioni pagate dall’INPS) ed escludendo le voci non corrispondenti a pensioni previdenziali in senso stretto, con qualche semplice passaggio matematico scopriremmo che la differenza tra Nord e Sud scompare totalmente: ad ogni euro di contributi pagato corrisponde un euro di pensione erogata al Sud e al Nord, con una precisione al centesimo di euro.

Certo, se guardassimo alle cifre di quella stessa pagina internet, senza fare calcoli, vedremmo divari territoriali ben diversi, per esempio, che al Sud le pensioni medie sono circa il 20% più basse che a Nord e che i pensionati INPS del Meridione sono poco più di 2 milioni al Sud e 5,3 milioni al Nord. 

Lo studio citato arriva al dato che permette di parlare di espropriazione dei lavoratori del Nord da parte di quelli del Sud aggiungendo alle pensioni previdenziali in senso stretto altre voci di cui, peraltro, nella rubrica si parla con scandalo, ma che al contrario gettano ulteriore luce sulle disuguaglianze, o meglio ingiustizie, regionali.

La prima di quelle voci, che genererebbe un parziale squilibrio, è costituita dai trasferimenti per invalidità, una componente che ha in realtà poco a che vedere con i lavoratori, visto che l’invalidità previdenziale è meno di un quarto di quella civile, che riguarda tutti a prescindere dall’aver lavorato o meno. Ma cosa c’entrano i lavoratori del Sud con tutti i fattori che rendono peggiori le condizioni di salute al Sud determinando, così comeoltre che l’invalidità, anche una vita media più corta di oltre un anno e mezzo? Sarà vero che ci sono poi i falsi invalidi, come suggerisce il rapporto, ma è realistico pensare che ci siano oltre 2 milioni di finti invalidi, perché a conti fatti di questo si tratterebbe? 

Lo squilibrio cresce ancora se si aggiungono le pensioni assistenziali. Si tratta di una categoria di spesa, l’assistenza, che si considera normalmente a carico della fiscalità generale, e che include voci con ben altra distribuzione territoriale; inoltre, non ha niente a che fare con i contributi. Soprattutto, se pensiamo riteniamoche chi è anziano ma è privo di reddito non debba essere lasciato per strada, e che ciò valga per tutti gli anziani, del Sud come del Nord, viene da chiedersi che senso abbia alimentare una polemica che imputa ai lavoratori del Sud le determinanti del maggior tasso di povertà al Sud. 

L’ultima voce che contribuisce, anche se in misura inferiore, al gap denunciato nel rapporto, è quella delle pensioni di reversibilità. Ma anche qui dovremmo considerare che la spesa per la reversibilità è maggiore dove le donne lavorano meno o hanno redditi bassi, perché ciò le porta a non incontrare le limitazioni al cumulo della reversibilità con altri redditi. Di nuovo: perché mettere all’indice i lavoratori e soprattutto le lavoratrici del Sud, che peraltro lavorano nonostante una scarsità di servizi all’infanzia ben più grave che al Nord?

Infine, ma per dimensioni soprattutto, se proprio volessimo fare i conti in tasca al Sud, in materia di costi del ciclo vita-lavoro, allora dovremmo ricordarci che la forza lavoro non si crea dal nulla, che i costi per allevare e far studiare i nuovi lavoratori sono rilevanti, di entità anche superiore a quella di una pensione. 

Negli ultimi dieci anni circa un milione e centomila persone si sono spostate da Sud a Nord, prevalentemente giovani, a fronte di seicentomila che hanno fatto la tratta inversa, di cui pochissimi giovani e molti anziani. Se invece che del al saldo tra lavoratori e pensionati rispettivamente “al Nord” e “al” Sud si facesse riferimento ai lavoratori e ai pensionati “del” Nord e “del” Sud, anche il gap evidenziato nello studio della CGIA di Mestre scomparirebbe. Considerato poi che circa la metà dei laureati nati al Sud lavorano a Nord, se si tenessetenendo conto del costo della formazione di capitale umano il gap evidenziato da Itinerari previdenzialirisulterebbe addirittura di segno opposto.

Oltre al clima di scarsa coesione, il vero problema delle analisi capziose emerge quando si passa alle indicazioni per le politiche. La rubrica di “datajournaluism” mette tra le questioni centrali gli “sprechi” che determinano lo squilibrio Nord -Sud, suggerendo nei fatti di operare su invalidi, orfani, vedove e incapienti per assicurare la sostenibilità dei sistemi di welfare minacciata dagli squilibri del Sud.

Lo studio della CGIA non entra in questi dettagli un po’ macabri riconoscendo invece il ruolo degli squilibri del mercato del lavoro, non del sistema di welfare, e richiama l’attenzione sul lavoro nero e sui bassi tassi di partecipazione delle donne. Si tratta in realtà di due questioni che non risolvono il problema del bilancio previdenziale: in buona sostanza chi non paga contributi non riceve una pensione previdenziale. Si tratta però di due questioni rilevanti che incidono sulla spesa assistenziale in generale, di anziani e no, e sulla qualità della vita di milioni di donne e uomini, al Sud come al Nord. 

In tempi in cui chi ha responsabilità pubbliche può definire le tasse “pizzo di Stato”, quella del lavoro nero è decisamente una questione fuori agenda. Per la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, come anche per il contenimento delle spese future di invalidità, le notizie, arrivate proprio mentre si riaccendeva la polemica Nord-Sud, sembrano piuttosto preoccupanti. Nella revisione del PNNR appena approvata dall’Europa, infatti, i due capitoli che subiscono il maggior ridimensionamento sono proprio gli investimenti in Sanità e i posti negli Asili Nido, tagliati di oltre 150.000 unità, soprattutto al Sud. Avere altre priorità è legittimo, e non ci si aspetta certo che sia un governo di destra a difendere la spesa sociale. È però corretto dirlo chiaramente, senza nascondere una volontà politica, quella di far pagare i più deboli, sotto lo scudo di dati che illustrerebbero ingiustizie territoriali che, a guardar meglio e volendole forzatamente leggerle sull’asse Nord-Sud, hanno in realtà tutt’altro segno.

Fabrizio Patriarca

2/12/2023 https://eticaeconomia.it

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