Pierre Stambul dell’UJFP: “Ora le comunità ebraiche europee condannino i crimini di Israele”

InfoPal. Intervista a Pierre Stambul dell’UJFP a cura di Alessandro Barbieri.

Pierre Stambul è portavoce e copresidente dell’Unione ebraica francese per la pace (UJFP), militante per i diritti civili e autore di numerosi volumi sulla questione palestinese. Il suo ultimo lavoro, «Du projet sioniste au génocide», è da poco pubblicato in Francia per Editions Acratie.

Perché ha sentito la necessità di scrivere questo libro?

Questo libro è nato da un raccolta di diverse esperienze, perché l’UJFP lavora a Gaza dal 2016. Con altre associazioni del territorio avevamo realizzato una torre dell’acqua, distrutta dall’esercito israeliano in febbraio scorso, un vivaio solidale, dei laboratori e delle canalizzazioni idriche. Stavamo riflettendo, insieme agli abitanti, di fare un passaggio alla agroecologia, perché è importante il bisogno di terra a Gaza. Così, ascoltare tutto quello che è stato detto per giustificare questo genocidio mi ha sconvolto, innanzitutto in quanto ebreo, e ci tengo a dire che questo genocidio non sarebbe mai stato possibile, non so se sia finito, senza la complicità più che attiva dell’Occidente, e non soltanto degli Stati Uniti. Un enorme parte di questa guerra si svolge tra di noi, e il fatto che le nostre elite politiche e mediatiche siano interamente al fianco dei genocidari e stato, e continua ad essere, un elemento totalmente determinante. Noi siamo antisionisti perché il sionismo, per noi, non è solamente un crimine contro la Palestina, ma è un insulto alla nostra storia, alla nostra identità, alla nostra memoria; è un ideologia che non è solamente criminale ma suicida. Noi siamo anche un’associazione antirazzista, non facciamo dell’antisemitismo un razzismo a parte e ci opponiamo alla sua strumentalizzazione. Sono discendente di una famiglia che è stata direttamente vittima del genocidio nazista, ho un padre che è stato membro del gruppo di Manouchian e che è stato deportato a Buchenwald. In questo libro, inoltre, ho voluto anche smontare tutta una serie di menzogne fondatrici dell’ideologia sionista, che sono ripetute regolarmente e che deformano completamente la realtà storica.

Ci può fare qualche esempio?

La prima di queste menzogne che i sionisti sostengono è che la Palestina appartiene a loro perché gli è stata donata da Dio, pensiero condiviso anche dagli atei come Ben Gurion. Questo perché hanno ripreso l’idea che la Bibbia è una opera di storia, cosa che non è. Tralasciando il fatto che Abramo non sia esistito, che Mosè nemmeno, che gli ebrei non siano arrivati dalla Mesopotamia e non siano né entrati, né usciti dall’Egitto, anche la conquista di Canaan, nel famoso libro di Giosuè, ovvero il brano a cui si ispirano i coloni israeliani in Cisgiordania, è qualcosa di totalmente non storico. Seconda affermazione che i sionisti raccontano è che nel 70 d.C., quando i romani prendono Gerusalemme e distruggono il tempio, fatto storicamente accertato, centinaia di migliaia di ebrei sono esiliati e si diffondono in tutto il mondo allora conosciuto, e noi saremmo i loro discendenti. Come la maggior parte dei membri dell’UJFP non ho l’aspetto mediorientale. La maggior parte degli ebrei, infatti, sono dei discendenti di convertiti di differenti epoche e differenti regioni. Per gli ebrei del Maghreb sono principalmente dei berberi convertiti al giudaismo prima dell’arrivo degli arabi. Per gli ebrei ashkenaziti, come me, sono probabilmente dei discendenti dell’incontro tra le colonie ebree della valle del Reno e i cittadini dell’impero Kazaro, impero turco e slavo che si è convertito al giudaismo tra il VII e VIII secolo dopo Cristo. Dunque, noi non siamo i discendenti dei Giudei dell’antichità e la religione ebraica è stata a lungo una religione proselitica. I discendenti dei Giudei dell’antichità sono, quindi, in maggioranza i palestinesi.

Terza menzogna da sfatare è che oggi, spesso, si ha l’immagine che sia la religione ebraica la causa del massacro attuale. In realtà, lo slittamento della maggioranza dei religiosi ebrei verso il colonialismo più aggressivo è recente. E’ il risultato della guerra del 1967 e dell’occupazione della Cisgiordania. Per dei secoli la religione ebraica è stata una religione non territorialista. E nel momento in cui arriverà il sionismo, la maggior parte dell’opposizione ebraica al sionismo sarà un’opposizione religiosa. Quando nel 1987 Theodor Herzl organizza il primo congresso sionista a Monaco, infatti, viene fatta una petizione pressoché unanime dei rabbini tedeschi contro quella che chiamano “la follia sionista” e il congresso viene trasferito finalmente a Basilea. Dopo il 1967, però, con la conquista della Cisgiordania, e quindi dei luoghi santi della Bibbia, la piccola minoranza degli ebrei religiosi territorialisti, che è stata fondata dal rabbino Abraham Kook durante il Mandato britannico, in breve tempo diventa maggioritaria. Oggi, questa religione colonialista detiene l’egemonia in Israele e in Europa, ma non negli Stati Uniti, questo spiega perché la maggior parte degli ebrei americani ha una posizione più liberale e anticolonialista. Inoltre, questa propaganda arriva a distorcere la nostra storia, come nel 2015, quando  Benjamin Netanyahu ha detto, durante il congresso mondiale sionista, che Hitler non voleva sterminare gli ebrei ma è stato il Gran Mufti di Gerusalemme a suggergli l’idea. Oltre al fatto che queste affermazioni sono fortemente negazioniste e revisioniste, e sono quindi un’ ingiuria alla nostra memoria, il primo ministro israeliano cerca, con questi argomenti, di spostare le cause dell’antisemitismo dall’Europa cristiana all’Islam e agli arabi. Si tratta di un travisamento storico completo per giustificare le politiche coloniali. Sappiamo tutti che l’antisemitismo è nato nelle società cristiane europee, già a partire dall’Impero romano, con una serie di leggi apposite che separavano gli ebrei dal resto della popolazione e ne impedivano il possesso della terra. Bisognerà attendere il Concilio Vaticano II, nel 1965, perché le accuse rivolte agli ebrei di essere il popolo deicida vengano cancellate. L’antisemitismo moderno si sviluppa nel XIX secolo con i nazionalismi europei e il concetto di “razza pura”.  Nella storia del mondo arabo gli ebrei hanno vissuto con lo status di dhimmi, cioè di protetti, ai quali è accordata una libertà religiosa e un autonomia comunitaria. Non ci sarà nulla nel contesto arabo, prima dell’arrivo del sionismo, che assomigli ai pogrom dell’Europa orientale. Come presidente dell’UJFP sono stato a Gaza nel 2013 e nel 2016, e, ovunque ci siamo presentati, la risposta unanime è stata “noi siamo contro l’occupazione, non abbiamo niente contro gli ebrei”.

L’UJFP ha un’equipe nella Striscia di Gaza, coordinata da Abu Amir, che, insieme ad altre associazioni, si occupa di organizzare gli aiuti per gli sfollati di Rafah. Quali sono gli ultimi aggiornamenti che avete ricevuto dopo l’entrata in vigore della tregua?

“Come dicevo l’impegno dell’UJFP a Gaza comincia nel 2016 e da ottobre dell’anno scorso abbiamo inviato 463.000 euro sul territorio. L’equipe di Abu Amir raccoglie i bisogni della popolazione e valuta quello che è realizzabile o non. La nostra è un’associazione politica, ma attraverso di lui abbiamo cominciato a lavorare come un associazione umanitaria, insieme ad altre Ong come “Tatweer”. Abu Amir ci ha detto che, dopo l’inizio del cessate il fuoco, nonostante il suo tentativo di temporizzare le cose e convincere le persone di non precipitarsi a rientrare verso il nord di Gaza, centinaia di migliaia di sfollati sono partiti per rientrare a casa loro. E a Gaza la situazione è apocalittica. Gli edifici sono completamente inabitabili, non c’è più acqua ne elettricità. Spesso non ci sono più ripari. Quindi i bisogni immediati cambiano. Per 15 mesi abbiamo cercato di rescolarizzare i bambini, abbiamo fatto del sostegno psicologico, organizzato delle mense collettive e distribuito dei vestiti per l’inverno. Ora la necessità è quella di ricostruire dei ripari, di portare dei generatori di elettricità e di rimettere in funzione i pozzi per l’acqua. Abbiamo la fortuna di avere un’equipe molto efficiente, che sa come fare il meglio con il minimo dei mezzi”.

Come giudica la situazione alla luce di questa fragile tregua?

“Bisogna, innanzitutto, ricordare che questa tregua è frutto dell’eroica resistenza del popolo palestinese. L’obiettivo del governo israeliano di liquidare la società di Gaza è fallito. A Gaza c’è un numero incredibile di grandi e piccole associazioni di solidarietà, senza la quale la società sarebbe crollata da molto tempo. Le grandi associazioni sono, tra le altre, il PCHR (Palestinian centre for Human Rights), l’UAWC (il sindacato dei lavoratori agricoli) e le piccole associazione sono coloro che assicurano la solidarietà di quartiere. Inoltre, è fondamentale il ruolo che svolge l’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, se si considera che il 75% della popolazione di Gaza sono dei rifugiati. L’UNRWA a Gaza è l’educazione, con i 3/4 delle scuole gestite dall’agenzia, è l’alimentazione e la sanità. Nonostante la distruzione di gran parte degli edifici, l’UNRWA ha continuato a garantire questi servizi in mezzo a enormi difficoltà. E il fatto che Israele, con una nuova legge, vieti qualsiasi attività dell’UNRWA nei territori occupati a partire dal 30 gennaio è l’ennesima violazione del diritto internazionale. In Cisgiordania è il 35% della popolazione ad avere la carta dell’UNRWA. E’ evidente che quello che succede in Cisgiordania oggi diventa centrale, lo si vede a Jenin. Gli attacchi contro l’UNRWA sono degli attacchi per l’annessione. Cosa si attende ora la società palestinese? Vediamo chiaramente che le manovre di Trump sono quelle di permettere l’annessione di una parte della Cisgiordania e di creare un finto stato palestinese, governato dagli uomini degli stati feudali del Golfo, penso in particolare a Mohammed Dahlan, politico vicino agli Emirati arabi che aveva provato a rovesciare Hamas nel 2007. Noi, in quanto membri di un piccolo movimento di solidarietà internazionale, diciamo che la soluzione a due stati non è né possibile, né auspicabile. Non è possibile perché chiunque sia andato in Palestina e ha visto il numero di colonie presenti oltre la linea verde, cioè oltre il confine di Israele, comprende che non può nascere uno stato in queste condizioni. Inoltre non sembra che l’esercito israeliano abbia intenzione di evacuare la zona. Non è nemmeno auspicabile perché la separazione è un orrore. Perché il popolo palestinese è un popolo di rifugiati e i discendenti dei centinaia di migliaia di espulsi del 1948 devono avere il diritto al ritorno. Una pace che non si indirizza alle principali vittime è tutto tranne che una pace”.

Quali sono i criteri per una soluzione desiderabile per voi dell’UJFP?

“Parlare di una pace giusta e duratura obbliga a riflettere sulle condizioni da compiere, e quindi a ritornare sulle condizioni stesse della creazione dello Stato di Israele. Questa riflessione ha, spesso, cambiato anche noi stessi. Da una critica del carattere ingiusto e assassino della politica israeliana, siamo arrivati a riconsiderare il sionismo: allo stesso tempo che si voleva come un movimento d’emancipazione nazionale in un’Europa marcata per l’antisemitismo, era un movimento contraddistinto dal nazionalismo europeo, colonialista e razzista. Da qui il paradosso: allora che, all’indomani della seconda guerra mondiale, il movimento d’emancipazione dei popoli colonizzati porterà alla loro indipendenza, si installa in Palestina uno Stato nazione, etnico e colonialista, degno erede dell’ideologia europea del 19° secolo, che nega l’esistenza stessa di un popolo palestinese. Non c’é bisogno, poi, di ricordare lo status acquisito da Israele come estremità dell’Occidente nel Medio Oriente e di base strategica per gli Stati Uniti e l’Europa. Un volta che la constatazione è fatta bisogna passare all’azione. Se noi vogliamo che una pace giusta e durevole si installi in questa regione del mondo, bisogna che la comunità ebraica israeliana smetta di seguire ciecamente i suoi dirigenti che la conducono alla deriva. Noi possiamo contribuirci esigendo che i nostri governanti europei cessino di sostenere l’insostenibile, su ciò le comunità ebraiche europee hanno una responsabilità. Lasciando che Israele si lanci in una continua fuga in avanti contro i diritti umani e il diritto internazionale, i nostri governanti rendono un cattivo servizio a quelli che pretendono di difendere. Non ci sarà una pace se non sarà basata sulla parità di diritti in tutti i campi. Non ci sarà una pace senza una rottura con il sionismo, o un superamento di questa ideologia. Il sionismo non è solo criminale per i palestinesi, è un suicidio per gli ebrei. Come ha ricordato Ilan Pappé, storico israeliano, 500.000 cittadini dello Stato ebraico hanno lasciato il paese dopo l’inizio della guerra. Ci troviamo in una situazione in cui una buona parte della popolazione di Israele non vuole più vivere lì, alcuni per delle ragioni economiche e molti di più per delle ragioni ideologiche, come quella di voler vivere in un paese normale. È per questo che l’UJFP ha risposto, dal 2005, a l’appello della società civile israeliana per una campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimenti, Sanzioni) contro lo Stato di Israele fino al riconoscimento dei diritti fondamentali del popolo palestinese. Queste azioni servono a ricordare che Israele può avere un avvenire che nel rispetto del diritto internazionale, che in un vivere insieme fondato sull’uguaglianza del diritto e sulla non discriminazione”.

Qual è la vostra posizione sul dibattito sull’antisemitismo e la sua strumentalizzazione?

“Noi non tolleriamo la strumentalizzazione scandalosa dell’antisemitismo della quale si servono i dirigenti dello Stato di Israele e i loro colleghi europei. È innanzitutto in risposta a questa strumentalizzazione che l’UJFP, creata nel 1994, ha conosciuto un certo sviluppo a partire del 2000. Perché dal 2000? Perché all’inizio di quella che è chiamata la seconda Intifada, dopo la provocazione del primo ministro israeliano, Ariel Sharon, sulla Spianata delle moschee, il Consiglio che si dice rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia (CRIF) non ha fatto alcun distinguo. Per il CRIF, tutti gli ebrei del mondo e quindi di Francia, poiché ebrei ed eredi della Shoah, devono solidarizzare con «Israele minacciato» dalla seconda Intifada. Così, noi non avremmo, in quanto ebrei, la scelta della nostra identità, né il libero arbitrio. E se non vogliamo essere assoldati in questa crociata, allora vuol dire che siamo vittime dell’odio di sé. È a partire da quel momento che molti tra di noi, che, fino ad allora, non avevano giudicato utile presentarsi come ebrei per difendere una causa umana, hanno rifiutato che si usurpi il proprio nome in quanto ebrei”.

L’UJFP sostiene anche la campagna per la liberazione del militante libanese pro-palestinese George Ibrahim Abdallah, in carcere in Francia da 40 anni e liberabile da 20. ll 19 dicembre scorso si è tenuto il processo di appello, dopo l’ordinanza di liberazione del tribunale di applicazione delle sentenze del 15 novembre. Qual è la situazione?

“Il verdetto dell’appello sarà pronunciato il 20 febbraio, cioè due mesi dopo l’udienza. All’inizio ero più ottimista, perché gli argomenti utilizzati dalla procura antiterrorista per fare appello non hanno alcun valore giuridico. Contestavano infatti che il suo ritorno in Libano sarebbe un pericolo, e questo elemento non esiste in nessuno giurisdizione. Tuttavia, l’avvocato del governo americano, che si è costituito parte civile, è stato particolarmente aggressivo e severo durante l’udienza di appello. La questione, che si pone oggi è se la Francia sia una colonia statunitense, e se basta un po’ di pressione d’oltreoceano per cambiare le cose, come successe tredici anni fa, quando una telefonata di Hillary Clinton a Emmanuel Valls impedì la liberazione di George Abdallah. Siamo, oggi, nella stessa situazione? Se restiamo ai soli argomenti giuridici Abdallah sarebbe libero il 20 febbraio, ma è evidente che è al di fuori dalla giustizia che le cose si stanno svolgendo. Se ci fosse una decisione di mantenere Abdallah in prigione sarebbe completamente fuori dallo stato di diritto. Inoltre, la Francia ha moltiplicato, negli ultimi anni, le condanne da parte della Corte europea dei diritti umani”.

7/2/2025 https://www.infopal.it

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