Prevenzione. Test salivari o non finirà

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A distanza di più di un anno dall’esplosione della pandemia, il problema della diagnosi e della terapia precoce dell’infezione da covid 19 è tutt’altro che risolto. Quello del tracciamento è addirittura rimosso. Le note che seguono, facendo seguito alla pubblicazione di un progetto che prova a tematizzare e suggerire indicazioni operative utili a risolvere questi enormi problemi intendono fornire la possibile traccia di un’interrogazione da porre al governo, in Parlamento e/o sui media, su alcune questioni vitali per la gestione della pandemia. E del tutto evidente, infatti, che i tempi e i limiti della pur indispensabile vaccinazione non rimuoveranno le ragioni che rendono indispensabile una lotta senza quartiere al virus per alcuni anni ancora.

L’argomentazione e gli interrogativi connessi saranno esposti
schematicamente e per punti.

Gli strumenti diagnostici usati fino ad oggi sono stati fondamentalmente tre: tamponi molecolari, tamponi antigenici rapidi e test sierologici. L’alto costo e la natura stessa di questi esami non hanno consentito sufficienti livelli di praticità e sostenibilità rispetto alle esigenze crescenti poste dallo sviluppo della pandemia. La prima osservazione critica che occorre porre è la seguente. Perché non è stata posta la necessaria attenzione a quel che nel mondo succedeva in termini di ricerca e realizzazione di dispositivi adatti a una diagnosi precoce di massa? In questo senso sarebbe stata di vitale utilità la costituzione di un gruppo di lavoro che affiancasse il CTS. È proprio da uno degli attuali membri di questo organismo, il dott. Abrignani, che, se pur tardivamente, proviene un’affermazione sorprendente, comparsa recentemente su la Repubblica online.
Essa riguarda i test salivari di cui, sottotraccia, si vocifera da mesi. Che non hanno, però, mai conosciuto un utilizzo di massa. Sostiene Abrignani:
“Costano pochi euro e sono efficaci al 95%. Possiamo iniziare facendone 10 milioni a settimana, anche all’ingresso di teatri, cinema e ristoranti”, oltre ovviamente a farne un uso di massa nelle scuole. La domanda che sorge spontanea è: “come mai finora non sono stati presi inconsiderazione?”.

Da un esame anche non sistematico della letteratura esistente, si apprende che in Veneto e presso lo Spallanzani di Roma sono stati eseguiti studi e fatte esperienze sui test salivari. Come pure nel progetto su-richiamato viene reso noto come, da mesi, siano disponibili in commercio negli Stati Uniti kit per test diagnostici di grande utilità. Si tratta di Autotest molecolari, relativamente di basso costo, che consentono un’autodiagnosi rapidissima (30 min) e affidabile. In particolare negli Stati Uniti, la Food and Drug Administration, ha rilasciato un’autorizzazione all’uso di un test nominato “Lucira COVID-19 All-In-One Test Kit”. Un test molecolare fai da te, che può essere utilizzato dai 14 anni in su, definito da Stephen M. Hahn, commissario della Fda: “un importante progresso diagnostico per affrontare la pandemia e ridurre il carico sulle strutture pubbliche”. Anche in questo caso resta sconosciuta la ragione del perché questa notizia non abbia suscitato da noi l’interesse che avrebbe meritato.

Non c’è bisogno di guardare molto lontano per trovare un paese, la Svizzera, che ha messo a fuoco e risolto il problema della diagnosi precoce, mettendo a disposizione gratuitamente nelle farmacie test auto- diagnostici che consentono di screenare i casi sui quali eseguire tamponi molecolari laddove è alta la probabilità di trovarli positivi (positività dell’auto-test). Da sottolineare la gratuità di questi dispositivi, il cui uso produce un risparmio rispetto all’utilizzo di tamponi molecolari eseguiti a tappeto, oltre a sancire l’interesse pubblico a una diagnosi precoce. Ora, semplicemente, come si fa a non chiedersi: “perché non fare come in Svizzera?”. Perché non “copiare” una procedura intelligente?

Un altro approccio diagnostico valorizzato dall’esperienza svizzera è quella dei Test PCR aggregati. Si tratta di una procedura innovativa adatta a screening in strutture comunitarie e in particolare nelle Scuole.
Rinviando a sedi specialistiche i particolari tecnici, in buona sostanza i test aggregati consentono di effettuare una valutazione diagnostica su materiale (saliva) raccolto non solo da una ma da molte persone. La negatività del test consente in una sola volta (e con un solo esame) di escludere con ottima approssimazione l’esistenza di contagi nel gruppo considerato. In caso di positività si saprà che, probabilmente, in quel gruppo esistono uno o più infetti e si potrà procedere selettivamente di conseguenza. In considerazione dell’importanza strategica dell’aperura delle Scuole e dei pericoli che questa comporta, è lecito chiedersi perché anche questa possibilità diagnostica non sia stata presa in considerazione.

Qualora si traessero gli spunti opportuni dalle sollecitazioni fornite, si potrebbe utilmente passare a considerare i limiti più vistosi dell’approccio alla lotta al covid, che riguardano senza ombra di dubbio la medicina territoriale. Ritardi spaventosi che non possono essere attribuiti unicamente a responsabilità di questo governo o del precedente. Nel quadro di un generale ridimensionamento della sanità pubblica, colpevolmente spinto da un bouffée delirante iperliberista che il centro-sinistra purtroppo non solo non ha arginato ma, per diversi anni, ha persino promosso, l’oblio e persino il danneggiamento attivo della medicina territoriale, infatti, ha prodotto un ferita mortale.

Pur essendo impensabile avviare in questo momento di grave crisi la necessaria opera di rifondazione della sanità territoriale, non c’è dubbio, tuttavia, che appaia incomprensibile la sottovalutazione di ciò che potrebbe essere fatto in una situazione pandemica che continua a mietere migliaia di vittime a settimana, nonostante lo sforzo estremo di una vaccinazione di massa che stenta a decollare. Praticamente, l’intero carico assistenziale della pandemia è stato sopportato dalle strutture ospedaliere. I medici curanti, non per loro colpa, sono stati messi nella condizione di limitare il loro operato a un supporto burocratico e a un palesemente insufficiente supporto telefonico ai malati di covid. Quella che ne è conseguita è una sostanziale impossibilità di effettuare diagnosi e terapie tempestive in grado di frenare la patogenicità dell’infezione da covid.

Ospedali e terapie intensive sono stai inondati.

Ciò che si vuole sostenere a questo punto è che l’utilizzo razionale, ragionato e coordinato di tutti gli strumenti diagnostici a disposizione, da selezionare dopo un’attenta disamina dell’esperienza internazionale di ciò che è disponibile, comporterebbe presumibilmente risparmi di spesa colossali, in grado di finanziare una vera e propria rivoluzione copernicana. Quest’ultima dovrebbe sancire una sostanziale modifica degli assetti di diagnosi e cura al covid, in grado di dare senso a una nozione che l’esperienza di oltre un anno ha dimostrato: l’infezione da covid 19 è una
patologia di competenza prevalentemente territoriale, che va diagnosticata e curata prevalentemente a domicilio. Da questo assunto, a sostegno del quale ormai esistono evidenze che soltanto chi è in malafede può negare, deriva la necessità di potenziare le USCA che, a tutt’oggi, appaiono essere poco più che una buona intenzione.

Le USCA, potrebbero (dovrebbero) essere composte da specializzandi, medici curanti disponibili, medici a partita Iva disponibili, affiancati da personale infermieristico qualificato, sottoposti a un addestramento mirato, attrezzati con dispositivi di sicurezza e dispositivi diagnostici adeguati
(test rapidi e molecolari, ecografi), in grado di intervenire laddove la diagnosi di covid si prospetti come probabile dopo la valutazione del medico curante che le attiva, e/o l’esecuzione di test diagnostici (salivari o su muco) eseguiti a domicilio anche dai pazienti stessi (autotest). In questa prospettiva andrebbero selezionati i dispositivi diagnostici più adatti, da rendere disponibili gratuitamente (o a prezzi politici), come succede nella vicinissima Svizzera.

Come si è detto, l’infezione da Covid 19 è, di massima, una malattia non ospedaliera da diagnosticare e curare tempestivamente a domicilio, fino a quando non si determino sviluppi peggiorativi che meritano l’ospedalizzazione. Il non averlo fatto fino a oggi contribuisce a spiegare la nostra elevatissima letalità. E questo è grave per un Paese che è la culla storica della medicina clinica figlia della grande tradizione dei Murri, dei Rasario, dei Marchiafava, dei Moscati, dei Frugoni. È con soddisfazione che abbiamo sentito che la nuova Sanità pubblica, preannunciata da Speranza e dal recovery plan, ritroverà nell’Assistenza territoriale e domiciliare un tratto connotante. Non si può, tuttavia, nascondere un inevitabile scetticismo in questo senso, vista l’entità dei fondi riservata alla Sanità e le precedenti promesse regolarmente disattese. Ma la possibilità
di smentire (almeno in parte) questo scetticismo esiste. Iniziamo dalle Usca dunque! Moltiplichiamone il numero, potenziamole! Facciamo di questo strumento un’avanguardia anche culturale. Non esistono malattie, esistono malati dicevano gli antichi (sapienti) e i malati sono tutt’uno con l’habitat che è loro proprio.

L’ultima osservazione che è necessario fare riguarda l’urgenza di rivedere i protocolli di cura precoci dell’infezione da covid. Non regge alla verifica dei fatti l’indicazione privilegiata dalle Autorità centrali della serie:
“Tachipirina e attendere gli sviluppi…”. No. Non funziona così. E questo si sa da molti mesi. E non lo sostengono fantasiosi sciamani. Lo afferma, ad esempio, un membro autorevole dell’Istituto Mario Negri: il dott. Remuzi. Rimane il fatto che la nostra letalità da covid è intollerabile.

Diagnosi e terapie precoci assenti o inadeguate rimangono ferite aperte e sanguinanti. Per non parlare del tracciamento, il cui richiamo in vita (sempre troppo tardivo) potrebbe essere riattualizzato con la sperabile diminuzione del numero dei contagi reso possibile dalla vaccinazione di massa, e dall’uso di dispositivi diagnostici che rendano il riconoscimento dell’infezione più agevole e rapido.

Né purtroppo si può salutare con sollievo la nuova circolare ministeriale, resa nota ieri, sulle nuove linee di indirizzo relative alla questione capitale della terapia domiciliare del covid. Queste ultime, infatti, da un lato scoprono i Fans (farmaci antiinfiammatori non steroidei), dimenticati nella
precedente circolare, mettendoli sullo stesso piano del Paracetamolo (Tachipirina), sorvolando (in buona fede?) sul non trascurabile fatto che quest’ultimo non possiede alcuna attività antinfiammatoria (in Francia è addirittura ritenuto dannoso). Impossibile non sospettare che questa scelta risponda alla necessità di dissimulare il vero e proprio errore di consigliare un farmaco come il Paracetamolo, nel migliore dei casi inutile. Questo errore persiste nonostante i pronunciamenti già citati da ambienti vicini al prestigioso Istituto Mario Negri, i quali ritrovano in Remuzzi uno strenuo sostenitore di una terapia con FANS (non Paracetamolo) da iniziare ai primissimi sintomi, prima ancora della conferma della diagnosi di Covid ottenuta con il tampone molecolare. Per il resto, non si può non rivelare la schematica, disinvolta e un po’ autoritaria superficialità con cui si parla di calciparina, antibiotici e cortisone mentre ci si rivolge a interlocutori che non possono non essere considerati qualificati, trattandosi di laureati in medicina.

Un’altra, più grande ancora, spigliata omissione è quella che riguarda le USCA, le uniche, fra l’altro, in grado di selezionare pazienti avviabili alla terapia con anticorpi monoclonali (strategica). Una selezione difficilmente effettuabile altrimenti, visto che i medici curanti, di norma, non vanno a domicilio dei pazienti. Anche se, ancora una volta disinvoltamente, questi ultimi sono citati come gli attori di una valutazione a domicilio che dovrebbe essere effettuata con tutte le necessarie protezioni che – non si tratta di un particolare trascurabile – ai medici curanti non vengono fornite.

Ora sarà bene informare il Ministero, una volta per tutte, che di norma il medico curante NON va a visitare a casa i

pazienti covid, per ragioni che non è il caso qui di richiamare e che, in generale, non dipendono da una sua scarsa dedizione. Trattasi di una verità elementare sulla quale non si può sorvolare.

Come si vede l’ultima circolare del Ministero, piuttosto che semplificare e illuminare, sembra insistere su indicazioni discutibili. E, ciò che è più grave, non pare prendere coscienza del fatto che l’unica e indispensabile Assisenza domiciliare, capace di somministrare terapie adeguate fondate su una valutazione clinica (anche strumentale), sarebbe quella assicurata dalle USCA. La questione di fondo resta quella di un loro potenziamento e adeguato addestramento, accanto alla ragionata e urgente revisione delle procedure diagnostiche necessarie, fondata su un esame della letteratura internazionale. Questioni cruciali che appaiono non più differibili di fronte alla strage quotidiana a cui assistiamo e al rischio di collasso socio-economico che incombe sul Paese.

Roberto Gramiccia

Già direttore sanitario di Struttura complessa, specialista in Medicina interna e Geriatria. ro.gramiccia@gmail.com

Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

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