Sindrome traumatica da Covid-19

Immaginate che la vostra intera vita nell’ultimo anno sia stata completamente dedicata al Coronavirus. Immaginate che svegliandovi ogni mattina abbiate pensato, per prima cosa, alla malattia, a chi si è ammalato, a chi non ce l’ha fatta. Immaginate di non sentirne parlare soltanto al telegiornale ma di vederla, ogni giorno, in ogni momento.

Immaginate di essere una medica, un infermiere, un operatore socio sanitario o un’autista di ambulanze. Ogni mattina da più di un anno vi svegliate e vi recate sul vostro posto di lavoro, consapevoli che questo vi espone materialmente al rischio di essere infettati da quella stessa malattia di cui siete costretti a guardare gli effetti, a contare i morti.

Immaginate che il vostro mondo sia cambiato all’improvviso, elemosinando mascherine e guanti consapevoli che quelli a disposizione non bastano perché il sistema sanitario si è fatto trovare impreparato di fronte all’epidemia e intanto, a contatto fisico e costante con i malati, ci siete voi.

Immaginate di passare giornate a sentire altre persone soffrire, a vederle morire. Immaginate di essere consapevoli del fatto che non esiste un protocollo specifico da seguire, una cura sicuramente efficace, di sapere di stare agendo aggiungendo tentativi su tentativi, e che questo non sta accadendo soltanto nel vostro singolo reparto, nel vostro singolo ospedale, ma in tutto il Pianeta.

Immaginate ogni volta di pensare di aver trovato un rimedio efficace e sentirvi rinfrancati, e poi di trovarvi nuovamente di fronte a un caso complesso per cui quella cura faticosamente sudata non serve a niente. 

Immaginate di essere un medico che non può toccare i propri pazienti. Immaginate di passare le vostre giornate in uno scafandro, di guardare persone morire da sole e di non poter offrire loro un  contatto, di provare in tutti i modi a comunicare con gli occhi che sapete quanto stanno soffrendo e che soffrite con loro. 

Immaginate la paura di non fare abbastanza di fronte a quel carico di aspettative, e che gran parte delle ragioni non dipendano da voi ma non possiate farci nulla. 

Immaginate di non poter vedere le vostre famiglie, per turni massacranti o perché siete esposti al virus, immaginate di non vedere per mesi i vostri figli, poterli guardare soltanto da lontano o poterne solo ascoltare la voce. 

Immaginate che mentre in televisione vi chiamano eroi il vostro vicino, vostra cognata o l’amico di una vita comincino a evitarvi perché vi portate addosso il marchio della malattia, anche se con la malattia voi ci state lottando anche per difendere il vicino, la cognata, l’amico. 

La pandemia ha messo a dura prova la salute mentale di tutta la cittadinanza ed è sempre più urgente che questo tema sia al centro dell’agenda politica e mediatica, che se ne parli e che si individuino soluzioni, destinando risorse specifiche a gestire un paese, letteralmente, sull’orlo di una crisi di nervi. 

Uno studio della Società italiana di psichiatria, pubblicato a fine 2020 su Bmc Psychiatry, denuncia che nel corso della prima ondata dell’epidemia c’è stata la chiusura del 20% degli ambulatori di salute mentale e la riduzione del 25% degli orari di accesso. È stato ridotto il numero di visite, spesso sono state spostate online per rispondere alle disposizioni in materia di contenimento del virus.

I numeri sono implacabili: una riduzione del 30% dei consulti psichiatrici ospedalieri, del 60% delle terapie individuali e del 90% di quelle di gruppo. I soggetti più fragili, residenti in strutture specifiche, hanno visto una diminuzione del 40% del lavoro di monitoraggio. Nel caso di persone accusate di un reato connesso a un disturbo mentale, c’è stato il 45% in meno di affidamento a Centri di Igiene Mentale. Sono diminuiti i posti letto (-12%) e i ricoveri (-87%). Gli unici dati in aumento sono quelli delle segnalazione di aggressività e violenza nei reparti specifici (+21,4%) e quello dei Tso (+8,6%).

In generale si è verificato un aumento dei sintomi di depressione, ansia e disturbo post traumatico non soltanto nelle persone che si sono ammalate o sono state in quarantena ma nell’intera popolazione. Il fenomeno, come la pandemia, ha una portata globale e impone un impegno globale per scongiurare che tali sintomi divengano clinicamente significativi e comportino scompensi in tutto il Pianeta: bisogna evitare il dilagare della depressione effetto della pandemia.

La crescita dei disturbi depressivi

Secondo il progetto europeo Interreg eMen, già prima della pandemia, ogni anno, 165 milioni di europei (il 38% della popolazione) sperimentavano un problema di salute mentale. I disturbi di questo genere incidevano per il 15% sul peso dell’intera sanità europea, arrivando a cifre stimate intorno ai 600 miliardi di euro: il 4% dell’intero Pil.

Le stime condotte dai centri di ricerca attestano che questi numeri sono destinati a raddoppiare entro il 2030 e che, entro quell’anno, i disturbi depressivi diverranno la principale causa di disabilità nei paesi ad alto reddito.

Se la popolazione globale è stata sottoposta a uno stress senza precedenti nella memoria collettiva e sul quale è urgente intervenire, a maggior ragione il livello di pressione che il personale medico, infermieristico, socio sanitario e affine ha subito impone che questo tema divenga prioritario.

Secondo l’ultima analisi di Amnesty International in un anno sono deceduti almeno 17.000 operatori sanitari in tutto il mondo: uno ogni 30 secondi. In Italia sono 407; più di 360 i medici deceduti, come riportato dal fedele elenco reperibile sul sito della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri. La pagina specifica è listata di nero, in segno di lutto, e racconta in maniera toccante la necessità di riconoscersi e di onorare la memoria. 

Svolgere uno di questi mestieri, in questo momento, richiede molto di più che professionalità e sangue freddo. L’umanità di queste categorie è stata messa duramente alla prova nell’ultimo anno. Michela Chiarlo, medica del Pronto soccorso del San Giovanni Bosco di Torino (qui sono transitati più di 1.200 pazienti sospetti) racconta da un anno sul proprio blog come è cambiata la sua vita. Dal 25 marzo 2020 ha raccontato di come si sia via via svuotato il suo Pronto soccorso, in genere intasato e da quei giorni deserto. Ha raccontato delle difficoltà iniziali e degli sconvolgimenti subiti, delle comunicazioni farraginose via radio, dell’assenza di Dispositivi di protezione individuale e di molte altre cose essenziali, di quando ha dovuto comprare le pile per il laringoscopio perché le scorte in magazzino erano esaurite e tra l’attesa dei tempi tecnici e recarsi in ferramenta la priorità restava fare in fretta, salvare vite. Dai racconti della dottoressa possiamo avvertire solo parzialmente il senso di straniamento che deve aver vissuto chi ha visto cambiare la propria vita e il proprio mondo intorno a sé, la divisione del proprio posto di lavoro in zone «sporche» e «pulite», per distinguere i luoghi dedicati ai pazienti Covid da quelli dedicati ai pazienti ordinari. Ha raccontato come ha visto sorgere un vero e proprio muro per dividere la sala d’aspetto, e come su quel muro siano state apposte le firme di tutti gli operatori e tutte le lavoratrici: un modo per recuperare umanità, affermare la propria esistenza fuori dalle tute di tessuto non tessuto, dai caschi, dalle mascherine. Dell’impossibilità di farsi capire dai pazienti, del tentativo disperato di comunicare attraverso gli occhi. Il suo racconto è divenuto un libro, Abbracciare con lo sguardo. Cronache dal reparto Covid ed è una lettura indispensabile per chi voglia approfondire quanto, al di là delle retoriche sull’eroismo, un’intera categoria di professionisti abbia vissuto sconvolgimenti tali che difficilmente possono essere immaginati. 

La pandemia ha messo definitivamente in crisi il nostro servizio sanitario, incluso il personale tutto, costretto a gestire tutti i disagi cui era sempre stato esposto in maniera diluita nel tempo e in condizioni ordinarie, ma in maniera concentrata, in condizioni straordinarie e protratte nel tempo. 

Oltre ai disagi raccontati, c’è un ulteriore aspetto: la condizione traumatica del soccorritore, nella quale, in contesti di particolare gravità come guerre o catastrofi naturali, chi assiste è costretto a operare una scelta su quali vite salvare. Per affrontare situazioni del genere occorre essere preparati ad agire in scarsità di risorse, adattandosi rapidamente e prendendo decisioni dolorose. Nel 50% dei casi può portare a una sindrome da burn out o da stress post traumatico.

La pandemia ha avuto però caratteristiche peculiari rispetto agli scenari in cui in genere si individua la sindrome, a partire dalla quarantena. Secondo lo studio The psychological impact of quarantine and how to reduce it: rapid review of the evidence, pubblicato da Lancet, l’esperienza del confinamento produce in chi la subisce effetti stigmatizzanti ed è tra i predittori del disturbo post traumatico da stress, insieme ai timori per i propri familiari e le rapide modificazioni delle relazioni con colleghi e pazienti. Le conseguenze sono disagi psicologici ed emotivi quali ansia, depressione, tristezza e senso di colpa, acutizzati dall’impossibilità di gestire ed elaborare tali emozioni con i propri cari. 

Chi in questo lungo anno ha gestito la pandemia e impiegato il proprio tempo a salvare vite umane, nel nostro paese, non era preparato a situazioni del genere. Anche chi lo era, tuttavia, ne è stato segnato. Uno studio prodotto sulla salute mentale di personale medico e socio sanitario cinese ha palesato un aumento del 50% dei sintomi di depressione, del 45% di ansia, del 34% di insonnia e del 71,5% di disagio psicologico generalizzato. L’indagine, condotta su 1.257 operatori di reparti Covid o in seconda e terza linea, presenta certamente una serie di limiti metodologici visto che è stato condotto in un periodo molto ristretto (dal 29 gennaio al 3 febbraio 2020) e su un campione peculiare: a seguito della diffusione della Sars il sistema sanitario cinese aveva infatti introdotto una serie di protocolli ad hoc per la gestione delle epidemie. 

Lo studio ne menziona uno precedente, Applying the Lessons of SARS to Pandemic Influenza, in cui già nel 2003, dopo la Sars. Si indagavano le ripercussioni sulla salute mentale di chi lavorava in ospedali specializzati, dove si registravano l’aumento del 30% di sintomi da sindrome del burn out (a fronte del 19% degli altri ospedali), del 45% di depressione e ansia (a fronte del 30% per gli altri), del 21% consumo o dell’incremento di consumo di sostanze come tabacco e alcool (a fronte dell’8%), il 22% di abbandono della professione o richiesta di lunghi congedi per stress cronico.

Quest’ultima eventualità ricorda la storia di Victor Aparicio, l’infermiere del reparto di Terapia Intensiva dell’ospedale Maragnon di Madrid che, da mesi in congedo per il troppo stress accumulato, ha pubblicato sui propri social network due foto che lo ritraggono rispettivamente un anno fa e il 31 marzo 2021. Dopo un anno i suoi capelli e la sua barba sono divenuti bianchi, il suo viso è teso e sono comparse molte rughe.  

E chi non era preparato? 

Uno studio condotto su 2.049 medici di base in Piemonte ha riportato dati analoghi. Il 32% degli intervistati ha mostrato sintomi da stress post traumatico, il 75% di ansia e il 37% di depressione. All’inizio della pandemia l’indicazione più trasmessa a cittadini e cittadine era di recarsi dal proprio medico curante in caso di comparsa di sintomi riconducibili al Covid, per non intasare i Pronto Soccorso. La categoria risultava però poco informata, il 48% ha lamentato l’assenza di disposizioni chiare e il timore di esporre i propri familiari al contagio, il 61% ha denunciato l’assenza di indicazioni diagnostiche. Le donne, in particolare più giovani e con meno esperienza, sono risultate le più colpite.

Nel Regno Unito il 60% degli operatori socio sanitari ha mostrato disturbi di salute mentale e forte angoscia. Più colpite le donne, specie se infermiere, chi lavorava in città epicentro e chi aveva figli. A incidere molto anche la condizione di «danno morale» dovuta alla consapevolezza di non aver svolto il proprio lavoro al meglio a causa di condizioni esterne, soprattutto in contesti (come il Nord Italia) in cui si è dovuto operare un razionamento dei trattamenti. Centrali anche la paura di ammalarsi e trasmettere il virus, e di essere stigmatizzati quali untori perché a contatto con questo.

Nella sola prima ondata, nel Regno Unito, un caso su dieci di Covid-19 era tra gli operatori sanitari (Torjesen, 2020) e in un sondaggio effettuato nel 2020 più della metà degli operatori sanitari intervistati ha denunciato un deterioramento della propria salute mentale (Thomas, Quilter-Pinner e Research, 2020). Il 45% dei medici inglesi (Bma, 2020) ha denunciato stati di ansia, depressione, stress, burn out e altri problemi associati; un sondaggio del Royal College of Nursing effettuato nell’agosto 2020 ha mostrato un forte aumento dello stress e della preoccupazione per la propria salute mentale. 

L’Istituto Superiore di Sanità ha pubblicato una serie di linee guida in cui si denuncia una situazione molto grave e si provano a delineare proposte di intervento improntate su prevenzione attraverso comunicazione, formazione, monitoraggio e intervento, anche telematico. Anche l’organizzazione del lavoro e dei tempi di vita ha un ruolo cardine, ma al netto delle indicazioni su ritmi del sonno, corretta alimentazione e monitoraggio del consumo di sostanze quali tabacco o alcool, è indispensabile e improrogabile un intervento centralizzato per affrontare la questione.

Il punto non è soltanto – e già basterebbe – che non possiamo far operare chi salva vite umane in condizioni di disagio psicologico. Il problema vero è che la salute mentale di lavoratori e lavoratrici sanitari è stata duramente messa alla prova, ed è accaduto perché in questo anno hanno pagato sulla propria pelle tutti i disservizi e la cattiva gestione della sanità pubblica, e non bastano applausi dai balconi o qualche euro in più in busta paga a rimediare. 

Rita Cantalino, si occupa di ambiente e tematiche sociali. Ha partecipato ai movimenti attivi in Terra dei Fuochi e nella Rete Stop Biocidio. Dal  2016 gestisce la comunicazione di A Sud Onlus (www.asud.net) e del Centro di Documentazione Conflitti Ambientali (www.cdca.it).

15/5/2021 https://jacobinitalia.it

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