Privacy e interesse pubblico

 Il caso del cosiddetto dossieraggio di questi giorni dovrebbe far riflettere secondo una prospettiva diversa da quella che politici e giornali perseguono univocamente. Da esso scaturisce una questione fondante che non mi pare sia stata affacciata: vediamola.

 Ci insegnano, ed è sancito nella Costituzione, che in una repubblica democratica la prevalenza spetta comunque all’interesse pubblico. Non credo che occorra spiegarlo attraverso degli esempi concreti: si intuisce che sia così. Altrimenti saremmo o transiteremmo in altre forme di stato e di governo.

 La privacy, è vero, tutela la nostra sfera privata: c’è uno spazio dentro il quale abbiamo il diritto di agire liberamente e in cui non sono ammesse invasioni dall’esterno, provenienti dal nostro vicino come dalla comunità, in particolare dallo Stato attraverso l’autorità dei suoi organi istituzionali. Ma, attenzione, quella sfera è protetta fino al punto in cui essa resti effettivamente privata: c’è un limite, cioè un confine, transitato il quale si passa dalla nostra res privata alla res publica, cioè allo spazio pubblico. 

 Oltrepassato quel confine, la nostra privatezza evapora e il campo è occupato dall’interesse pubblico, che esige la pubblicità delle azioni di chi in quello spazio operi in qualunque modo. Non possiamo pretendere, se la nostra condotta incida, direttamente o indirettamente, sulla comunità, di essere immuni dalla trasparenza: si impone che quel che facciamo sia visibile o, almeno, agevolmente ricostruibile. Noi abbiamo il dovere di non mascherarci e di non mascherare le nostre attività, movimenti, iniziative nello spazio pubblico; o che, se compiute nello spazio privato, producano effetti, anche solo di riflesso, nello spazio pubblico. Ciò vale per qualunque cittadino; massimamente per chi eserciti il potere di governo sulla comunità, a qualunque livello costui si trovi nella catena di comando.

 Tutto ciò non è negoziabile e si impone in forza del principio di congruenza: è immanente all’ontologia di qualunque repubblica democratica nel senso che deve essere e non può non essere perché altrimenti la repubblica non è o è limitatamente.

 I nostri politici non lo sanno oppure, se lo sanno, fanno finta di non saperlo. E, lo vediamo in questi giorni, protestano e fanno confusione e confondono. Ma la persona che ambisce al potere pubblico e lo esercita diviene inevitabilmente pubblica perché assume il ruolo di attrice protagonista nello spazio pubblico in rappresentanza dei cittadini. Se costoro lo scelgono eleggendolo, hanno il diritto-dovere di informarsi adeguatamente intorno a  chi si propone di rappresentarli. Ecco un primo, grave difetto del nostro sistema di informazione istituzionale: la gran massa dei cittadini non sa praticamente nulla delle persone che poi lo rappresenteranno (tanto più ora che una legge liberticida ha espropriato i cittadini del potere di scelta del candidato trasferendola alle oligarchie di partito).

 Sarà difficile che il ceto politico accetti di dover calare la maschera quando avanza le candidature e, men che mai, quando è nell’esercizio del potere o, anche, dopo che lo abbia dismesso: l’imperio della privacy si trasforma in comodissima mascheratura e, da destra a sinistra, tutti o quasi invocheranno l’usbergo dei diritti e dello stato di diritto. Lo abbiamo visto in questi giorni. Lo vedremo ancora. Ma non funziona così in una repubblica bene ordinata che postula, nel suo modello, che il governante a tutti livelli sia costantemente controllato; e i primi controllori sono i cittadini che, per controllare, debbono essere informati. Il controllo deve essere comunque diffuso: opposizioni, istituzioni di garanzia, magistratura, mass-media sono costituiti in organi di controllo e devono avere ampia facoltà di indagine.

 E la privacy dell’onorevole? Resterà intangibile e, soprattutto, protetta se – e solo se – l’agere sia contenuto rigorosamente entro i confini della sfera privata. Chi ambisce al potere pubblico deve però sapere e accettare che, per lui, i confini, rispetto a quelli stabiliti per il quivis de populo, sono più ristretti e più labili.

 Tutto ciò non è marginale, ma funzionale ad alimentare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e ad accrescere la qualità dei rappresentanti. Nel Contratto sociale Rousseau scrive che, in una repubblica, il «voto pubblico» eleva al governo quasi sempre «uomini illuminati e capaci, che occupano questi posti con onore»: i «piccoli imbroglioni», i «piccoli avventurieri», i «piccoli intriganti» si trovano molto più frequentemente in altri regimi politico-costituzionali.

 Se consideriamo il nostro ceto politico, potremmo confermare che è così? Possiamo ragionevolmente ipotizzare che questa sia la valutazione di quella metà di italiani che non vuol più votare? Ha forse torto Rousseau? No, Jean-Jacques ha ragione: solo che occorre dare ai cittadini votanti gli strumenti per leggere in filigrana la caratura di quegli ambiziosi che cercano il potere o lo hanno (e che non lo vogliono cedere: questione terzo mandato). Siamo una democrazia incompiuta e ci resteremo; riformare la Costituzione non servirà assolutamente a nulla.

 Non è finita qui, però. Il dossieraggio ora in scena, al di là della sua legittimità o meno, della sua imparzialità o meno, ha rivelato all’opinione pubblica che la tecnologia oggi è in grado di sapere tutto quel che occorre sapere intorno alla condotta penalmente rilevante di ogni cittadino. Chi invoca la privacy quale argine o teme irrazionalmente l’ignoto oppure ha qualcosa da nascondere. Da nascondere gli italiani, meglio certi italiani, hanno un debito per evasione fiscale pari ad oltre 80 miliardi di euro annui: servirebbero o no allo Stato? Se crediamo di sì, ora tutti hanno compreso che si può provare a recuperarli e, così, anche a far capire che la rotta è finalmente cambiata. Anche questo è un sogno. Ma allora lo sono pure la repubblica e la democrazia.

Umberto Vincenti

8/3/2024 https://www.lafionda.org/

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