“Processo alla Resistenza”. Che cosa accadde ai partigiani dopo l’aprile 1945
Dopo la Liberazione migliaia di combattenti antifascisti finirono sotto accusa -nei tribunali e sui giornali, largamente compromessi col regime- tacciati d’esser assassini, ladri o terroristi. “Una narrazione che larga parte dell’opinione pubblica italiana continua a sposare ancora oggi”, spiega la storica Michela Ponzani (altreconomia.it)
Assassini, vigliacchi, terroristi, “colpevoli sfuggiti all’arresto”. Erano questi i termini con cui i giornali degli anni 50 parlavano dei partigiani che, dopo aver combattuto nella guerra di liberazione dal fascismo, tra il 1943 e il 1945, erano finiti sui banchi degli imputati nei tribunali di tutta Italia. In una lettera anonima a un quotidiano, una donna arrivò persino a definire “un delinquente nato” privo del “minimo senso eroico” Rosario Bentivegna, comandante di un Gap, che il 23 marzo 1944 aveva attaccato un reparto delle SS Polizeiregiment Bozen in via Rasella, a Roma, descrivendolo alla stregua di un criminale comune.
“Furono circa 20mila i partigiani che, dopo l’aprile 1945, vennero sottoposti processo”, racconta ad Altreconomia Michela Ponzani, docente di Storia contemporanea all’Università Tor Vergata di Roma e autrice di “Processo alla Resistenza. L’eredità della guerra partigiana nella Repubblica 1945-2022”, un saggio che indaga le vicende degli ex combattenti nell’Italia repubblicana (Einaudi, 2023). “Quello che ho cercato di mettere in luce in questo volume è un problema quanto mai attuale -dice Ponzani-. Ed è la narrazione dei partigiani come assassini, terroristi e criminali comuni che era stata fatta allora e che larga parte dell’opinione pubblica italiana continua a sposare ancora oggi”.
In quale contesto politico e culturale si sono inseriti i processi agli uomini e alle donne che presero parte alla Resistenza?
MP Il contesto è quello di un difficilissimo e tormentato processo di transizione che segna il passaggio dal regime monarchico-fascista alla Repubblica. E che, peraltro, non è mai stato realmente portato a compimento se pensiamo al giudizio che gli italiani conservano tuttora del regime fascista e dei partigiani. Il processo alla Resistenza non si celebra solo nelle aule di giustizia ma coinvolge anche la stampa e l’opinione pubblica che si mostra inizialmente indifferente rispetto ai valori dell’antifascismo e poi sempre più orientata a condannare quelle che sono le azioni di resistenza armata, definendole atti di terrorismo o azioni di delinquenti comuni. C’è poi un altro elemento da tenere presente.
Quale?
MP Da un punto di vista giuridico i processi hanno preso il via perché è mancata un’equiparazione delle azioni di guerra partigiane a quelle messe in atto da membri effettivi delle forze armate. C’è stata una grave mancanza da parte della classe dirigente postbellica e successivamente repubblicana nel sanare questa contraddizione. Secondo le convenzioni belliche dell’epoca, infatti, i partigiani erano considerati degli irregolari, combattenti illegittimi: di conseguenza tutte le loro azioni di guerra venivano considerate legittime da un punto di vista politico ma non legali da quello giuridico. Ma questo non sarebbe stato possibile senza quel clima politico avvelenato e anticomunista che ha segnato le fasi più “calde” della Guerra fredda: dal 1948 fino ai primi anni Cinquanta si osserva una feroce repressione anticomunista, vengono recuperati e riutilizzati istituti e apparati detentivi degli anni del regime fascista.
Quale fu il periodo in cui si è registrato il maggior numero di processi?
MP La fase più acuta fu quella che seguì l’attentato a Palmiro Togliatti del 14 luglio 1948 con una fase di repressione violenta che ha coinvolto non solo ex partigiani ma anche sindacalisti, operai, contadini e persone comuni che sono stati arrestati e processati a seguito delle manifestazioni di piazza di quel periodo con l’accusa di sovversione armata contro lo Stato. Sulla base delle leggi in vigore in quel momento -che erano le stesse del ventennio precedente- erano considerati sovversivi, attentatori al bene della patria e del bene pubblico. Inoltre a giudicarli, come scriveva già Claudio Pavone, erano magistrati che avevano fatto carriera durante il regime fascista e si riciclarono nella Repubblica.
Il mancato riconoscimento come belligeranti ebbe anche come conseguenza il fatto di non aver diritto a pensioni di guerra o ad altri benefici economici che vengono invece garantiti a chi appartiene alle forze armate, lasciando gli ex partigiani in condizioni economiche molto difficili. Che effetto ebbe sulle loro vite?
MP Anche questo elemento non fece che acuire il clima di generale violenza post-bellica. Dobbiamo ricordarci che stiamo parlando di ragazzi, spesso molto giovani, che all’improvviso sono stati smobilitati senza alcuna particolare attenzione nei loro confronti. Molti hanno sofferto di sindrome da stress post traumatico dopo aver vissuto una terribile guerra civile, molto pesante anche dal punto di vista psicologico. Parecchi sono stati inviati in centri di raccolta dove hanno dovuto convivere con coloro che avevano combattuto. Altri, una volta tornati a casa, hanno incontrato nelle strade del proprio paese ex fascisti tornati in libertà. Più in generale, la maggior parte dei partigiani una volta posate le armi non ha avuto alcun riconoscimento da parte di un Pese che aveva fretta di voltare pagina e che spesso si è mostrato ostile nei loro confronti. La partigiana piemontese Marisa Sacco si chiedeva: “Il mondo saprà dare valore alle nostre azioni. Oppure, una volta rientrati a casa, saremo considerati degli spostati?”. Purtroppo, la seconda opzione è stata quella prevalente.
Durante i processi alla Resistenza, quali erano le accuse che venivano mosse più frequentemente?
MP Requisizioni violente, rapina, omicidio: le prime erano necessarie a garantire la sopravvivenza di una brigata, ma sono state considerate rapine comuni, furti. Le fucilazioni di fascisti, che nella maggior parte dei casi sono avvenute a seguito di sentenze emanate da tribunali partigiani, sono state considerate omicidi comuni: in questo modo si è tolto alla Resistenza il retroterra della motivazione politica. Un antifascista fuoriuscito in Spagna e rientrato successivamente in Italia è stato processato per aver contribuito a fare propaganda antinazionale contro il proprio Paese. E poi ci sono diverse sentenze che riguardano donne, tra cui una clamorosa della Cassazione del 1947, in cui viene esaminato il caso di un milite delle Brigate nere, accusato di aver fatto violentare e torturare una giovanissima partigiana: i giudici non considerarono quell’episodio un fatto di guerra ma un’offesa all’onore e al pudore della donna. Questo ci fa capire quanto il clima attorno alle partigiane fosse ancora più ostile.
Il primo processo alla Resistenza fu quello a Rosario Bentivegna, comandante di un Gap a Roma e tra gli autori dell’attentato di via Rasella. Un episodio dibattuto ancora oggi, nonostante un pronunciamento della Cassazione del 1957 che lo ha definito ufficialmente un atto di guerra legittimo.
MP Questo ci dice che le sentenze hanno un peso ma fin dall’inizio della storia repubblicana d’Italia c’è un pezzo della classe dirigente del nostro Paese che non si riconosce e non si riconoscerà mai nei valori dell’antifascismo. Non sto dicendo che siano tutti fascisti o neofascisti. Ma c’è una sorta di anti-antifascismo che puntualmente riaccende vecchie polemiche. In questo, occorre anche fare presente la responsabilità dei partiti di sinistra che, dagli anni Novanta in poi, non hanno avuto il coraggio di rivendicare le radici della propria stori e si sono ripiegati in una battaglia di retroguardia, quasi come a doversi scusare per le azioni armate della Resistenza. Occorre costruire una memoria collettiva -non una memoria condivisa- su come sono andati veramente i fatti e che dovrebbe essere alla base della nostra democrazia. Purtroppo questo è mancato in Italia.
Che cosa è successo ai partigiani attivi in altri Paesi europei, penso ad esempio alla Francia?
MP La Francia ha vissuto un’esperienza completamente diversa rispetto a quella italiana. Nel maggio 1947, giudicando la vicenda di un partigiano il tribunale di Sarlat lo ha considerato da subito un membro effettivo delle forze armate. Più in generale c’è stato un forte riconoscimento dei maquis come componente della resistenza militare francese agli ordini del Comando di Algeri guidato da Charles de Gaulle. La Francia inoltre non ha attraversato una fase di transizione alla democrazia tormentata come quella italiana e la Resistenza è stata subito riconosciuta come fattore centrale nella costruzione della nuova cittadinanza democratica. Parallelamente non c’è stata, come invece è avvenuto in Italia, una volontà di accelerare il processo di cancellazione delle responsabilità rispetto ai crimini di collaborazionismo. Ci fu un’amnistia, ma a differenza di quella italiana del 1946, le norme in materia vennero approvate negli anni Cinquanta e non furono mai votate in parlamento dai partiti comunisti.
I protagonisti della Resistenza sono ormai molto anziani o morti: stiamo perdendo gli ultimi testimoni di quella fase storica del nostro Paese. Come fare per evitare che cada nell’oblìo?
MP Dobbiamo smetterla di vivere nell’era del testimone. È stata una fase molto importante, perché ha permesso di entrare in contatto con la narrazione del passato più viva ed emozionale. Ma accanto alla memoria è fondamentare conoscere la storia perché se questa manca è impossibile conoscere un futuro democratico. Noi dobbiamo essere consapevoli delle vicende storiche che hanno interessato il nostro Paese, analizzarle criticamente e soprattutto riflettere sui tanti luoghi comuni e su quella narrazione auto-assolutoria che ancora circonda il regime fascista. Soltanto a partire dalla storia possiamo fare veramente i conti con il nostro passato.
Ilaria Sesana
21/4/2023 https://altreconomia.it/
Immagine: La targa con i nomi dei partigiani bolognesi caduti sull’esterno di Palazzo D’Accursio © Slices of Lights, via Flickr
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