Progettare la lotta politica per la sanità pubblica

Prima parte

di Luca Negrogno

In occasione del centenario della nascita di Giulio Maccacaro, medico tra i fondatori di Medicina Democratica, pubblichiamo la prima parte di questo saggio sulle prospettive politiche delle lotte sociali e il Servizio Sanitario Nazionale

Osservare il Servizio Sanitario Nazionale nel rapporto con le lotte sociali permette di considerarne la nascita, le funzioni e le trasformazioni all’interno di un framework complesso, capace di illuminare le dimensioni materiali, culturali e istituzionali sulle quali è maggiormente necessario intervenire per invertire la rotta della sua destrutturazione. Oggi che «il Ssn si trova al centro della più perfetta delle tempeste, la più grave dalla sua istituzione», come scrivono Chiara Giorgi e Francesco Taroni, la ricerca sul quadro storico e concettuale in cui si sono svolte le lotte necessarie per la sua istituzione, sui controversi processi della sua gestione istituzionale e sugli “assalti” reazionari orientati alla sua distruzione (così li ha recentemente indicati Nerina Dirindin – e noi accettiamo solo momentaneamente tale definizione in quanto rischia di porne l’origine esclusivamente all’esterno del sistema, oscurando quanta parte della destrutturazione reazionaria sia emersa dalle stesse contraddizioni interne della sua lacunosa gestione istituzionale) risulta necessario in primo luogo per evitare che la crisi di questa fondamentale istituzione di civiltà venga avvertita come una imponderabile fatalità, rispetto alla quale sia impossibile, inutile o insensato opporsi.

Obiettivo delle lotte attuali dovrebbe essere infatti rivitalizzare la pensabilità e la credibilità dell’ipotesi di un Servizio Sanitario Nazionale di fronte alle avversità date sia dalla modificazione delle caratteristiche strutturali del contesto sociale (epidemiologiche, demografiche, tecnologiche), sia dalla situazione geopolitica e dalle trasformazioni della governance sovranazionale – con le loro significative conseguenze sulle condizioni macroeconomiche e culturali su cui la possibilità di un servizio sanitario universalistico si basa (la caduta in disgrazia della redistribuzione della ricchezza verso il basso e della tassazione progressiva dei redditi, in primo luogo).

Osservato da una visuale che voglia coglierne l’incrocio strutturale con le lotte sociali, il Servizio Sanitario Nazionale appare come un’istituzione il cui senso è inscritto nelle logiche dell’azione pubblica e risente delle sue trasformazioni. Esso va letto cioè sul terreno di una costante dialettica tra spinte dal basso, rivolte alla socializzazione del lavoro riproduttivo, e tentativi di appropriazione privatistici, la cui interazione e il cui relativo equilibrio danno luogo a processi costituenti –- da cui derivano specifiche configurazioni istituzionali – costantemente contesi tra innovazioni progressiste e resistenze reazionarie. Come hanno messo in luce i recenti lavori di Chiara Giorgi (2021, 2023), il modo in cui si sono evolute la struttura, le funzioni e le articolazioni del servizio sanitario stesso, le diverse composizioni delle soggettività che vi hanno agito, anche all’interno di una dialettica conflittuale, le sintesi momentanee, gli accomodamenti e le divaricazioni venute in essere tra loro, i risultati e i limiti della loro azione (nella mutevolezza dei contesti storici: vale a dire lungo le diverse fasi della sua istituzione, del suo malgoverno, dei suoi svariati tentativi di razionalizzazione) costituiscono un oggetto d’analisi che è necessario delineare unitariamente, al fine di osservare efficacemente gli attuali elementi di crisi e le possibilità di contribuire al loro superamento con l’azione politica.

Il concetto di “azione pubblica”, formulato da Giulio Moini nelle analisi sulla depoliticizzazione che attraversa le democrazie neoliberiste e sugli strumenti attraverso cui l’esercizio di poteri di definizione e regolazione dei rapporti sociali si complessifica in forme multilivello e multistakeholders dopo l’epoca del New Public Management (vale a dire dopo gli anni ‘80), se applicato in tale ambito, può fornire uno strumento di lettura delle lotte sociali capace di tenere conto della attuale difficoltà a sintetizzare le “spinte dal basso” in contenuti, identità e organizzazioni specifiche. Considerando cioè la frammentarietà e il campo variegato di posizionamenti e soggettività di cui ci occupiamo, la commistione – talvolta inestricabile – di spinte emancipatorie e privatistiche nelle innovazioni via via sostenute dai diversi soggetti in campo (partiti, movimenti, società scientifiche, imprese, assicurazioni e fondazioni, ordini professionali, tutto il complesso contesto in cui operano sia la moltitudine sia i violenti processi di espropriazione che le si contrappongono), il concetto di azione pubblica consente di vedere dove, pur nella loro contradditorietà, si annidano le possibili alleanze e le varie resistenze da superare.

In particolare utilizzando il concetto di azione pubblica sia nella lettura storica che nell’analisi dell’attualità è possibile superare i limiti che caratterizzano il  dibattito politico attuale sulla sanità, disarmato nel cogliere in modo processuale come vadano a diversificarsi e a interagire le varie forme di militanza, attivismo, voice e presenza nello spazio pubblico da parte dei soggetti collettivi che oggi portano la maggiore spinta innovativa nel campo delle questioni sanitarie – nella fase in cui ai tradizionali sindacati e partiti si aggiungono vari gruppi professionali e gruppi di utenti, organizzazioni comunitarie e associazioni – protagonisti della trasformazione dell’azione pubblica stessa negli ultimi decenni.

Questa scelta consente di prestare attenzione alle pratiche e ai discorsi dei vari soggetti sul piano concreto delle molteplici ibridazioni, contrattazioni e relazioni trasformative che si generano nell’ambiguità dei processi sociali; nel campo in cui l’azione politica, cioè, oltre a misurarsi sul terreno dell’invenzione di istituzioni, sovrappone e ibrida tra loro le questioni della sussidiarietà, del rapporto tra sociale e politico, della contraddizione tra spinte capitaliste all’innovazione razionalizzatrice e pressioni sociali per il riconoscimento delle differenze e per la riduzione delle disuguaglianze (temi oggi centrali nella declinazione della “community care”: ambivalente oggetto di varie spinte riformatrici dei sistemi sanitari). Attorno a questi ambiti la riflessione politica è caratterizzata da un dibattito spesso rozzamente polarizzato, che non ha sciolto le riserve sulle eventuali possibilità trasformative – in direzione della riqualificazione del pubblico e dell’allargamento dei diritti sociali – che si intravedono nell’azione delle nuove soggettività emergenti (come associazioni di utenti e organizzazioni comunitarie), oltre al qualificare come meri vettori di state making e society making neoliberista. Questo frame teorico consente di vedere la qualità delle varie azioni che, nella loro ambivalenza, producono modificazioni istituzionali in quanto generano relazioni aperte e incidono sullo spazio politico.  Solo in tal modo diventa possibile interrogarsi sul ruolo che svolgono nel complessivo equilibrio dell’azione pubblica i nuovi soggetti collettivi come le associazioni di utenti, le organizzazioni comunitarie e le associazioni professionali (spesso portatrici di declinazioni progressiste dei concetti di community o primary health care e contestualmente imbricate in forme di lobbying e di azione politica ove insistono anche fondazioni e centri studi ancorate al mondo degli interessi assicurativi e sussidiaristici), fino alla possibilità di leggere l’azione di veri e propri “nuovi corpi intermedi” risultanti da ibride articolazioni tra università, amministrazioni locali, terzo settore e fondazioni (con declinazioni che vanno da i grandi attori del volontariato cattolico fino ai progetti “autogestiti” del mutualismo di base, passando per le svariate esperienze di Forum, gruppi di pressione, Reti nazionali e sovranazionali).

Indagare la natura di queste nuove soggettività che agiscono nell’arena delle mobilitazioni sociali e politiche sulla sanità è possibile anche come riflesso di una adeguata lettura storica del processo di politicizzazione dell’azione pubblica che caratterizzò le fasi seminali del Servizio Sanitario Nazionale.

Proiettare sulle  elaborazioni dell’epoca un framework orientato a leggere la complessità dell’azione pubblica, producendo reciproci rimandi tra l’analisi dell’attualità e la ricostruzione storica, ci consente di porre una sfida necessaria tanto ai sistemi “depoliticizzati” di azione pubblica istituzionale quanto alla stessa azione politica dei nuovi “corpi intermedi” e delle varie soggettività che traggono la loro essenza dalla attuale configurazione della mediazione democratica. Si tratta cioè di considerare come interlocutori e target dell’azione politica quel complesso e variegato mondo che va dagli organi professionali ai movimenti di utenti, dai partiti e i sindacati fino al terzo settore, alle fondazioni e al variegato mondo delle ibridazioni comunitario-istituzionali che insistono nel mondo del welfare – che oggi si dibattono nell’incertezza tra l’opportunità di un’ulteriore torsione neoliberale (esito inevitabile della scelta a vantaggio delle strategie corporative, particolaristiche e privatistiche sempre disponibili) e quella di una decisa sterzata in direzione della ricostruzione del pubblico. Solo sulla base di una lettura politica di questo tipo è possibile svolgere una riflessione adeguata sulle attuali strategie di movimento, alla ricerca di modi efficaci per incidere sull’azione pubblica stessa. In estrema sintesi: posto che il fine politico è chiaro e riguarda la possibilità di esistenza di un Servizio Sanitario Nazionale, bisogna dotarsi di strumenti adeguati a riflettere sulle nostre strategie, le nostre tattiche e le nostre interlocuzioni.

La storia delle lotte per il Servizio Sanitario Nazionale e la “politica delle alleanze”

Chiara Giorgi e Francesco Taroni hanno dato un’utile indicazione sulla natura delle lotte per l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale: esse sono state, a partire dai primi anni della Repubblica fino all’approvazione della legge 833 del 1978, inscindibili da una “politica delle alleanze” in cui la componente di movimento – impegnato a rivendicarne e a usarne la dimensione redistributiva sul terreno delle lotte che avvenivano nei luoghi di lavoro e di vita – si saldò a quella tecnica della messa in discussione dell3 professionist3 e a quella istituzionale costituita dagli esperimenti di pianificazione territoriale da parte delle amministrazioni locali progressiste. La critica andò cioè di pari passo con le sperimentazioni amministrative e con le elaborazioni scientifiche: una convergenza di tensioni e fenomeni che permise la strutturazione della più grande conquista di civiltà democratica che abbia caratterizzato il nostro paese.

Scrivono ancora Giorgi e Taroni parlando del SSN: «con ogni evidenza, esso fu espressione di una forte pressione dal basso, delle aspirazioni trasformative del tessuto sociale e degli assetti istituzionali, di pratiche politiche e partecipative inedite, di un fermento intellettuale di ampio respiro. Di qui le peculiari origini «politiche» dell’assetto universalista, pubblico e decentrato del Ssn, il quale rispose a una visione della salute come fatto sociale e politico, a un’impostazione integrata dell’intervento sanitario e di quello sociale, alla centralità del momento preventivo e del dato qualitativo, a una organizzazione territoriale, a un impegno diffuso capace di investire anche le questioni legate alle condizioni di lavoro e alla tutela dell’ambiente». Oggi, dopo un lungo trentennio caratterizzato dalla decadenza del concetto di «rischio di popolazione» (vale a dire del legame ontologico ed epistemologico necessario tra salute e condizioni di vita soggettivamente vissute), sintomo di un più generale affermarsi di categorie individualistiche e governamentali nello stesso discorso scientifico della medicina e della sanità pubblica, la prevenzione risulta richiusa in una declinazione solo individuale, focalizzata sui comportamenti soggettivi. Come la sindemia di Covid 19 ha mostrato, l’approccio individualistico attuale risulta incapace di indagare i complessi rapporti tra forme di vita, esposizione al rischio, costruzione collettiva della capacità di “coping” (o si potrebbe dire controllo popolare) rispetto alle nocività. Per questo, concludono l3 due autor3, la ricostruzione di una forma universalistica di sanità pubblica è inscindibile da un più generale processo di «riappropriazione democratica delle condizioni di vita e delle forme di produzione e di socializzazione della ricchezza». Detto in altri termini, «la storia della nascita del Ssn dimostra che gli esperti non bastano»: nella fase attuale in cui la auspicata riforma della sanità territoriale – in assenza di un più generale dibattito sulla ricostruzione di forme di fiscalità progressiva che ricostruiscano le condizioni base dell’universalismo – rischia di tradursi in un mero conteggio tecnicistico di articolazioni di governance e centrali operative, l3 autor3 ci spingono a ricordare che «lo stesso rilancio di un servizio sanitario pubblico, universalista, egualitario, può dipendere da una espansione di quelle istituzioni e servizi collettivi del welfare che sono sia oggetto delle politiche di austerità, sia, tuttavia, terreni cruciali per prefigurare forme più ampie e alternative di organizzazione sociale ed economica». Di conseguenza la possibilità di un rilancio del Servizio Sanitario Nazionale «può infine dipendere da una nuova politica delle alleanze, da una inedita combinazione di lotte e mobilitazioni, da una nuova stagione di diritti sociali, dalla soddisfazione di antichi e nuovi bisogni, da una riscrittura universale e democratica del welfare medesimo».

Come scrive altrove Chiara Giorgi, «l’ideazione e la nascita del SSN avvalorarono una particolare azione combinata derivante dalle spinte provenienti dalla società, da una inedita politica di alleanze, dal rinnovamento del sistema istituzionale, dal processo di disgelo costituzionale, dalle pressioni del movimento sindacale e dei partiti della sinistra». Infatti «le vicissitudini che portarono alla riforma sanitaria e all’istituzione di quest’ultimo furono il frutto di una particolare sinergia realizzatasi – già a monte dell’approvazione della legge del 1978 – tra le conquiste operaie e sindacali in fabbrica, l’elaborazione delle linee generali della riforma, le pressioni e mobilitazioni portate avanti dalle varie realtà della stagione dei movimenti, i provvedimenti di pianificazione regionale sanitaria, rafforzati dall’istituzione delle Regioni. La stessa iniziativa autonoma di molte Regioni prima della riforma costituì un’anticipazione di molte delle soluzioni adottate dopo la legge n. 833».

Una particolare sensibilità e articolazione tra le lotte dei movimenti sociali di base, le elaborazioni delle nuove soggettività di movimento e le sperimentazioni di vari segmenti istituzionali facilitò questa sinergia: sempre secondo Chiara Giorgi, «i conflitti sorti in quel periodo storico attorno al welfare, le sperimentazioni istituzionali e territoriali di allora riuscirono a prospettarne un nuovo modello, opposto a quello fino ad allora presente, caratterizzato da gravi limiti di copertura, logiche burocratiche, tratti corporativi, occupazionali e discrezionali».

Una particolare congiunzione tra diverse dinamiche contribuì a crearne le premesse: la lotta femminista e del movimento di psichiatria critica, la lunga stagione delle lotte contro la nocività in fabbrica, cifra essenziale del “lungo ‘68” italiano, e la loro successiva articolazione al complesso di temi espresso dalla triade fabbrica-società-territorio, la dialettica esistente tra organizzazioni sindacali e gruppi di base, operanti nelle fabbriche e nei quartieri, la disponibilità di alcune amministrazioni locali a sperimentare articolazioni innovative avanzate in un quadro normativo del quale da lungo tempo si percepiva l‘inadeguatezza, la contestuale disponibilità degli organi statali e di varie forze parlamentari a realizzare forme di razionalizzazione del sistema sanitario esistente, contribuirono a rendere possibile una convergenza di orientamenti e di azioni verso una «riforma difficile da evitare» (Berlinguer).

Se l’emergere delle soggettività e delle pratiche femministe aveva mostrato l’indissolubilità di forme di rivendicazione e di azione autogestionaria – costruendo veri e propri ambiti di servizio, direttamente riconnessi ai nuovi bisogni emergenti e alla lettura politica di essi – la pratica del movimento di psichiatria critica aveva sostenuto l’indissolubilità di scienza e potere, legando alla sperimentazione pratica di alternative istituzionali la credibilità della critica teorica; allo stesso tempo, l’incontro in fabbrica tra autonoma soggettività operaia e tecnici della medicina, della scienza e della psicologia critiche, pronti a mettere in questione “l’uso di classe” della propria disciplina, aveva aperto spazi di partecipazione diretta collettiva immediatamente implicati nella realizzazione di “politiche dal basso”. Come spiegano Giorgi e Pavan, «si trattò insomma di una sorta di doppio gesto. Da un lato, un gesto teso a de-istituzionalizzare le strutture vigenti; dall’altro, un gesto volto a inventare nuove istituzioni capaci di generare «welfare altro», sottratto alle logiche della mercificazione, della burocratizzazione, della delega, del clientelismo, dell’inerzia, della compartimentazione, dell’irresponsabilità».

In questo gesto si realizzò la convergenza tra il posizionamento critico e autocritico delle soggettività tecniche, la contrapposizione dal basso che veniva dalle fabbriche e dai quartieri e la capacità delle organizzazioni politiche di sperimentare sintesi pratiche tra queste diverse spinte.

Tale convergenza si nutriva di dialettica critica tra diverse soggettività e diversi posizionamenti. A rileggere oggi i documenti di quella stagione è evidente che, nella grande varietà di forze e soggettività in gioco, si sviluppava un dibattito serrato, caratterizzato da toni fortemente critici. Prendiamo come esempio il rapporto tra comitati di fabbrica legati alla sinistra extraparlamentare e organizzazioni sindacali: recentemente Lorenzo Feltrin nella nota introduttiva alla ripubblicazione di “Contro la nocività: Operaismo ed ecologia nel Lungo ‘68”, opuscolo del Comitato Politico degli Operai di Porto Marghera presentato il 28 febbraio 1971, ha avuto modo di considerare che: «la lettura del ruolo dei sindacati e delle riforme proposta da “Contro la nocività” appare col senno di poi come eccessivamente unilaterale, tant’è vero che oggi ci troviamo a difendere quel che resta del sistema di sanità pubblica a vocazione universale generato dalle lotte degli anni ’70. Anche la critica al “modello operaio” sviluppato da Ivar Oddone e i suoi collaboratori alla Camera del Lavoro di Torino è ingenerosa, nella misura in cui non riconosce il debito dello stesso gruppo operaista di Porto Marghera nei confronti dell’esperienza torinese. Esperienza per molti versi straordinaria, che ebbe poi significativi riscontri in America Latina, influenzando importanti lavori come La salud en la fábrica (Era, 1989) di Asa Cristina Laurell e Mariano Noriega. Ad ogni modo, l’unilateralismo di “Contro la nocività” dev’essere visto alla luce della competizione del gruppo con i sindacati in un contesto di forte assertività dell’autonomia operaia, e non come un dogma con pretese di universalità.» Lotte dei comitati di base, organizzazioni della sinistra istituzionale e sindacati confederali, per quanto in un rapporto dialettico, nutrivano reciprocamente la loro azione, in un processo il cui esito complessivo fu capace di tenere insieme deistituzionalizzazione e istituzione di nuove articolazioni pubbliche. In questa particolare convergenza, ciascuna soggettività implicata agiva entro un posizionamento ambivalente, fluidificato dalla qualità della mobilitazione sociale e disponibile a considerare la novità delle possibili sinergie (anche nell’inevitabilità di scontri e rotture). Il tema stesso della salute e della sua articolazione istituzionale come diritto esigibile (quindi come forma di redistribuzione di plusvalore o di freno imposto a monte alla sua estrazione) e ambito di politiche pubbliche favoriva la articolazione variabile di più livelli di elaborazione, in quanto particolare punto di congiunzione tra la generalità (dello scontro di classe, come si diceva allora, quindi in generale dei temi relativi all’esistenza, alle relazioni sociali, all’ecologia, all’organizzazione della vita in comune) e lo specifico (della scienza medica, dell’organizzazione sanitaria, della oggettivazione tecnica della salute e della malattia).

D’altra parte è importante considerare che le lotte per l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale hanno coinciso con una fase storica caratterizzata della più ampia ambivalenza tra pressione popolare per l’estensione dei diritti e contrazione politica degli spazi di redistribuzione economica – tanto che vari osservatori hanno parlato di una particolarità degli anni ’70 italiani.

Giorgi e Pavan scrivono che «la stessa peculiarità del caso italiano, per cui alcune delle riforme in materia di welfare si realizzarono quando altrove in Europa era cominciata già la fase di riorganizzazione del capitalismo in chiave neoliberale e il modello socialdemocratico entrava in un lungo processo di revisione, conferma la peculiarità del laboratorio italiano degli anni Settanta». Tale ambivalenza veniva letta e in vari modi assunta, anche come finestra politica di possibilità, da ciascuno dei principali soggetti promotori di quella epocale conquista di civiltà. L’oscillazione, nella quale dovevano dibattersi le politiche della sinistra istituzionale, tra innovazione a controllo capitalista e lotta per la realizzazione di riforme radicali orientate alla giustizia sociale era stata efficacemente notata da Giulio Maccacaro nel 1976, quando riconosceva che «l’azione delle organizzazioni della sinistra (pensiamo soprattutto a PCI, CGIL, CISL)» aveva negli anni ‘70 «una caratteristica duplice: 1) da un lato vi è la tendenza a inserirsi, come forza promovente, all’interno dei piani capitalistici per la riforma sanitaria; 2) da un altro lato vi è la spinta a raccogliere e mobilitare esigenze e lotte, dentro e fuori la fabbrica, tali da accrescere, sul tema della salute, la maturità politica e la forza del proletariato, e a fare uscire le rivendicazioni di base dai limiti possibili ai piani di ristrutturazione capitalista». In questa ambivalenza si è giocata una dialettica generale di posizionamenti, critiche, scambi, assemblaggi, da cui derivano le fondamentali conquiste istituzionali e sociali della nostra storia; tornare a leggerne le elaborazioni è necessario per riflettere sulle strategie politiche di oggi.

Le fasi successive: disapplicazione, disarticolazione, delegittimazione della Sanità Pubblica

Se già Medicina Democratica aveva criticato le fasi finali della elaborazione della legge 833 denunciandone la natura di “non riforma” per via dello scarso peso attribuito alla prevenzione, per «la negazione di una reale partecipazione dal basso» (Giorgi, Pavan) e per un’organizzazione che complessivamente comportava «la pubblicizzazione della spesa e non dei servizi e la privatizzazione degli utili e non dei costi», parte del movimento promotore della legge percepiva chiaramente quanto «la riforma segnasse l’inizio di un altrettanto lungo e complesso percorso collettivo (…) volto a esigerne l’applicazione integrale, a prevenire, più che curare, le malattie, a scardinare il vecchio sistema», di cui erano già evidenti le resistenze corporativistiche, tecnicistiche, privatistiche. Se gli anni ’80 hanno visto la larga inadeguatezza dei Governi nel realizzare i veri principi della riforma (tre questioni su tutte: l’inadeguato sviluppo di forme di partecipazione dal basso nella gestione delle Unità Sanitarie Locali; l’insufficiente programmazione – e conseguente lettura razionale dei bisogni e della spesa – esercitata dai ministeri; la mancata armonizzazione tra diversi territori nazionali e tra i principi della legge e i programmi formativi universitari), è con gli anni ‘90 che anche sul piano istituzionale inizia lo smantellamento di quella istituzione inventata, con una vera e propria “controriforma”.

Seguiamo la narrazione di Chiara Giorgi sugli effetti della legge n. 502 del 30 dicembre 1992 promossa dal Ministro della Salute De Lorenzo: «l’aziendalizzazione della gestione trasformò le USL da organizzazioni gestite dai Comuni ad aziende pubbliche controllate dalle Regioni (ASL) e previde la possibilità di scorporare gli ospedali dalla gestione diretta delle ASL, costituendoli in Aziende ospedaliere autonome, permettendo così la realizzazione della separazione fra compratori e produttori di prestazioni. La Lombardia (e non solo) fece largamente ricorso a questo strumento per caratterizzare la propria identità in competizione con le altre Regioni e con il Governo centrale, minando alcuni dei principi fondamentali della legge del 1978. A sua volta, la nuova regionalizzazione del sistema venne motivata sulla base dei principi del federalismo, ma ebbe l’effetto di irrigidire il vincolo di bilancio delle Regioni rispetto alla spesa sanitaria, in quanto trasferì loro la responsabilità di far fronte con risorse proprie a eventuali eccessi di spesa oltre ai trasferimenti statali, in cambio di più ampie competenze sull’organizzazione e sul funzionamento dei servizi». Se già «il decreto correttivo Ciampi-Garavaglia emanato nel 1993 eliminò l’apertura alla privatizzazione del finanziamento», la stagione dei governi di centro-sinistra tentò di correggere le più gravi distorsioni della prima controriforma, con esiti sui quali ancora oggi la lettura non è univoca. Sempre secondo Giorgi «la riforma introdotta da Rosy Bindi (…) segnò una discontinuità rispetto ai provvedimenti del 1992 e si inserì in un contesto di forte scontro tra sostenitori di privatizzazione della sanità (tradotta nella possibilità per i cittadini di uscire dal SSN, nello sviluppo di fondi sanitari integrativi, nella privatizzazione degli ospedali, nella concorrenza tra fornitori pubblici e privati) e difensori del SSN», tuttavia le presenza di forti spinte (anche nel centro-sinistra) subalterne all’egemonia neoliberista, i cambiamenti nella governance (soprattutto nell’ambito del rapporto centro-periferia) e l’assenza di una relazione articolata con i movimenti di base su questo tema resero i risultati di quella stagione parziali e insufficienti.

In particolare nell’ambito dei rapporti tra centro e regioni i problemi erano sorti a partire dagli anni ‘80, quando era diventata evidente la «”discrasia” esistente tra un accentramento delle entrate e un decentramento delle spese» (Taroni citato da Giorgi). Sempre secondo Chiara Giorgi, a partire dagli anni ‘80 si affermò «la progressiva dissociazione tra politiche nazionali e politiche regionali, la tardissima approvazione del Piano sanitario nazionale, che predisposto nel 1979 avverrà solo nel 1994, la conseguente mancanza di un coordinamento e di indirizzi nazionali, la “sfasatura” tra il cammino espansivo intrapreso dalle Regioni e le subentrate rigide politiche di contenimento della spesa pubblica e sociale. I rapporti tra livello nazionale e regionale rimasero dunque problematici anche dal punto di vista del controllo della spesa sanitaria, realizzato soprattutto con le leggi di bilancio annuali del governo nazionale, senza un coordinamento sistematico con le Regioni».

Le Regioni, tra cui c’erano stati alcuni importanti centri propulsori della riforma, che avevano elaborato leggi locali innovative prima della stessa 833, iniziarono a essere protagoniste di forme di allocazione di risorse rispondenti a principi produttivistici e particolaristici; dai “laboratori di democrazia” (Giorgi) degli anni ‘70 si passò a modelli di gestione sempre più computazionali e oggettivistici, accentuati dal corporativismo professionale e, in tempi più recenti, dalla sproporzionata crescita territoriale delle aziende sanitarie, «sotto la pressione del neo-centralismo regionale e dell’autonomia aziendale» affermatesi negli anni ‘90. Come spiega Francesco Taroni ne “Il volo del calabrone. 40 anni di Servizio sanitario nazionale» (Il Pensiero scientifico, Roma, 2019), gli interventi nazionali (come la creazione della categoria dei servizi «ad elevata integrazione sociale e sanitaria» della riforma Bindi del 1999 e la successiva legge n. 328/2000 «per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali»), e le iniziative regionali per potenziare il ruolo dei distretti sanitari «sono nel tempo risultate efficaci»: alla gestione manageriale delle risorse facevano infatti da contraltare sempre più gravemente la dissoluzione del momento preventivo e della sua articolazione territoriale, il prestazionismo basato sulla remunerazione, l’enfasi sugli ospedali di grandi dimensioni. Con l’aggravarsi della crisi del 2008, il definanziamento pubblico e il crescente peso (anche regolativo) del privato, queste tendenze hanno raggiunto un livello di complessiva insostenibilità, emersa in particolare durante il biennio pandemico.

Complessivamente si può dire con Giovanni Berlinguer che nel decennio immediatamente successivo all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale «i Governi» non furono «all’altezza delle leggi che il Parlamento approva»; nei tre decenni seguenti, contestualmente con un contraccolpo che attraversò tutto l’Occidente, «le elaborazioni progressiste in campo internazionale, culminate con le dichiarazioni egualitarie e sociali di Alma Ata (1978) sottoscritte da OMS e Unicef, furono immediatamente negate da una reazione che investì il mondo istituzionale e trovò immediata alleanza in gran parte dell’università, la quale era rimasta in tutto il mondo un ambito di resistenza al cambiamento, pronto a farsi centro della reazione». Come scrive nel 1988 Franca Ongaro Basaglia (in  “Tutela, diritti e disuguaglianza dei bisogni”, di Franca Ongaro Basaglia, in “Psichiatria Tossicodipendenze Perizia. Ricerche su forme di tutela, diritti, modelli di servizio”, a cura di Maria Grazia Giannichedda e Franca Ongaro Basaglia, Franco Angeli, Centro Studi e Iniziative per la Riforma dello Stato, 1987), «i movimenti che, in Italia, avevano incominciato, negli anni ‘70, a produrre nuovi saperi collettivi sul terreno della salute (quello dei lavoratori nelle fabbriche e quello delle donne) non hanno superato la fase di espansione del movimento e non hanno resistito al riflusso, prevalentemente perché i pochi tecnici che operavano al loro interno, da ruoli di scarso potere, non sono riusciti a far breccia nell’assetto istituzionale della medicina, con il risultato che queste critiche e queste esperienze si riducono spesso a petizioni di principio che non trovano realizzazione pratica (vedi il controllo ambientale come prevenzione delle malattie da lavoro che ancora si accetta di monetizzare, o le rivendicazioni da parte delle donne del fatto che aborto e parto non sono malattie ma esperienze di vita, da vivere come tali). Sono convinta, invece, che se non si entra in conflitto con questa cultura, così come è stato fatto nell’ambito della psichiatria, e non si fa breccia al suo interno, essa risulterà sempre vincente nella definizione di salute e malattia». Negli stessi anni così si esprime Marcello Cini (in “Attualità dell’opera e del pensiero di Giulio A. Maccacaro. Costruzione della scienza del lavoro della salute dell’ambiente salubre”, a cura del Centro per la Salute “Giulio A. Maccacaro” – Castellanza, 1988,Cooperativa Centro per la Salute “Giulio A. Maccacaro” s.r.l. editore), considerando i limiti nell’applicazione delle riforme degli anni ‘70: «gli sforzi di trasferire all’esterno le conoscenze, le situazioni, le esperienze dei gruppi operai più avanzati sono falliti non soltanto per gli sfavorevoli rapporti di forza sul terreno dello scontro sociale e politico, ma anche per gravi difetti di comprensione di quali siano i concreti canali di mediazione fra le spinte attive nel tessuto sociale le sedi che assicurano la produzione e la socializzazione del sapere tecnico-scientifico. Detto in altre parole, non è che fosse sbagliata l’intuizione che la scienza e la tecnologia sono attività le cui regole, finalità e modalità sono contrattate nel terreno sociale. Era invece sbagliata l’identificazione degli interlocutori, la scelta delle procedure, l’oggetto della contrattazione. Insomma, non avevamo una teoria affidabile della non-neutralità della scienza».

Disapplicazione dei principi ispiratori, disarticolazione delle strutture di governo, delegittimazione nei rapporti tra istituzioni e popolazione hanno contribuito a ridurre il valore della Sanità Pubblica nella consapevolezza collettiva, oltre che nei programmi dei partiti e nelle azioni delle amministrazioni. Il fatto che i recenti anni pandemici non abbiano trovato una risposta adeguata in termini di mobilitazione politica e sociale sta anche a dimostrare la scarsa dimestichezza con una tematica che non è più oggetto di formulazione collettiva, di cui non si colgono più (se non in modo confuso o reazionario) la natura pubblica e le sue implicazioni di possibile strumento politico per ridefinire la qualità e l’orientamento della produzione, delle relazioni, della vita in comune tra le specie e con l’ecosistema. ù

Affrontare da questo punto di vista un’analisi degli attuali problemi su cui intervenire può portarci a riformulare possibili strategie di risposta politica, cogliendo i limiti delle letture esistenti nelle possibili mobilitazioni a sostegno del Servizio Sanitario Nazionale.

Le distorsioni del Servizio Sanitario Nazionale emerse dalla sindemia

Nell’analisi delle attuali condizioni del Servizio Sanitario Nazionale Francesca Coin (in “Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita”, 2023, Einaudi) ha recentemente mostrato come le condizioni di disinvestimento progettuale, organizzativo e di senso sulla sanità pubblica si siano tradotte in un complessivo processo espulsivo autogestito dal personale stesso, descritto dall’autrice all’interno di quel più generale movimento definito delle “grandi dimissioni”. Come scrive in un commento al libro Cristina Morini, «nel caso del settore sanitario, il vettore dell’immedesimazione, il professionalismo, il vincolo etico, sacrificale, “a fare il bene” che impregna molti mestieri connessi alla cura non bastano più a reggere burnout, stress lavorativo, conflitto tra lavoro e vita privata. La pandemia ha scoperchiato la situazione di forte crisi attraversata dalla sanità pubblica». Francesca Coin identifica il disagio nel mondo del lavoro e la dismissione delle forme di regolazione e sicurezza collettive ad esso storicamente legate come parte di un più globale piano neoliberista di cui oggi, in assenza di conflitto, cogliamo l’inveramento “solo” al livello soggettivo, sotto forma di malessere esistenziale e relazionale. Per quanto tale concetto sia efficace soprattutto come metafora e come sintesi evocativa – capace anche di restituire l’agency delle soggettività coinvolte – e non come preciso indicatore di un referente oggettivo, la narrazione delle “grandi dimissioni in uscita dal Servizio Sanitario Nazionale” è una delle più potenti restituzioni oggi disponibili della crisi della sanità pubblica: l’approccio di Francesca Coin ci sembra particolarmente importante perché, in mancanza di contesti di elaborazione collettiva e politica di questi temi – che ne consentano anche una sensata misurazione oggettiva – ci permette di focalizzare le dimensioni della crisi laddove oggi è insieme maggiormente possibile e urgente intervenire, vale a dire nella dimensione delle soggettività che ne attraversano il campo. Consapevoli della necessità di ricostruire un piano di mobilitazione sociale e politica per difendere e rilanciare l’idea e la pratica di una sanità pubblica universale, svolgeremo qui un’analisi delle debolezze che oggi con tale necessità si scontrano. Come scrive nell’esergo di uno dei paragrafi della sezione dedicata alla sanità Nye Bevan citato da Francesca Coin, «il Servizio Sanitario Nazionale durerà finché ci saranno persone disposte a lottare per esso»: proviamo qui ad approfondire la sua intuizione, di uno sguardo “soggettivistico” sulla crisi della sanità, collegandola anche all’ambito delle debolezze politiche che oggi mettono a rischio la sua possibilità di esistere.

Guido Giarelli e Giovanna Vicarelli (Giarelli, Vicarelli 2022, “Libro Bianco. Il servizio sanitario nazionale e la pandemia da Covid 19”, FrancoAngeli) hanno messo in evidenza come la condizione di crisi del servizio sanitario nazionale abbia, oltre a cause strutturali legate ad un preciso disinvestimento politico ed economico, una dimensione culturale e organizzativa che si può leggere attraverso l’opacità delle forme di regolazione, delle prassi e della qualità della loro organizzazione. A partire dalla manifesta insufficienza dei Livelli Essenziali di Assistenza come strumento di tendenziale uniformazione delle prestazioni esigibili – uno dei fenomeni attraverso cui si possono leggere la vaghezza e svuotamento della nozione di “Stato regolatore” in un contesto in cui dominano diversi modelli organizzativi (con una infinita varietà dei processi di integrazione sociosanitaria e la più ampia diversificazione dei rapporti tra ospedale territorio) – l3 due autor3 notano che la sfida attuale, consistente nel legare i processi di territorializzazione della sanità a dimensioni di universalismo, desanitarizzazione dei bisogni sociali, riequilibrio del rapporto ospedale/territorio, sviluppo della promozione della salute, richiede di mettere mano alle distorsioni fondamentali del Servizio. Tali distorsioni (“distributiva”, “culturale”, “strutturale” e “funzionale”) dovrebbero essere affrontate attraverso una serie di linee strategiche: «la focalizzazione sulla salute collettiva, l’ambiente e la promozione della salute; la centralità del territorio e della comunità in una logica di prossimità delle cure; l’integrazione dell’ospedale in una rete modulare di cure; l’innovazione digitale quale strumento di miglioramento della qualità delle cure e di governance sanitaria; un ampliamento della formazione dei professionisti sanitari nella direzione di una costellazione pluralistica di saperi in una prospettiva interdisciplinare e interprofessionale» (Giarelli, Vicarelli 2022).

Non è possibile cioè affrontare il tema delle disuguaglianze di salute – la più evidente negazione attuale dell’universalismo – senza un deciso cambio di marcia capace di saldare uguaglianza, equità e personalizzazione, in modo da costruire «politiche intervento che valutino la posizione degli individui all’interno della gerarchia  sociale», per sostituire una personalizzazione attenta ai determinanti sociali di salute a un «approccio quantitativo e statistico» standardizzante – che ha già mostrato notevolissimi limiti ma che continua a essere corroborato dalle attuali forme di aziendalizzazione.

Su un tema che riteniamo centrale, quello dell’orientamento patogenico del servizio sanitario nazionale, le parole di Giarelli e Vicarelli consentono di «comprendere anche le ragioni ancora molto forti della resistenza al suo superamento. Le caratteristiche principali di tale orientamento sono fondamentalmente tre: 1) una ontologizzazione della malattia, reificata quale oggetto astratto e distaccata dall’esperienza vissuta del malato, scissa dalla sua corporeità; 2) una esternalizzazione della malattia, concepita come risultante dall’attacco di un’entità esterna all’individuo; 3) una individualizzazione della  malattia, considerata quale problema di natura prettamente del singolo individuo con scarsa o nessuna connessione con l’ambiente sociale e naturale esterno». Secondo le parole dell3 autor3, solo pratiche di partecipazione, empowerment, community care, che mettano in primo piano la resilienza collettiva e il capitale sociale portati dall’associazionismo della cittadinanza, se prese in considerazione come fondamentale interlocutore della governance sanitaria, possono costituire uno strumento efficace per un suo superamento, verso la desanitarizzazione dei bisogni.

Sullo stesso tema Gavino Maciocco, focalizzandosi sull’obiettivo della strutturazione di un sistema appropriato di cure primarie, ha mostrato l’indissolubile legame che tiene insieme la formazione dell3 professionist3 e la qualità delle politiche. «Cure primarie significa infatti capacità di cogliere i bisogni di salute del territorio, interagendo con soggettività in un sistema complesso di relazioni. (…) Le scelte di politica sanitaria, la preparazione e la dedizione dei professionisti» sono il principale veicolo di innovazioni organizzative capaci di migliorare la possibilità di intercettare i bisogni. Sono necessari processi di “integrazione orizzontale”, ad esempio team multiprofessionali delle cure primarie, e di «integrazione verticale tra differenti livelli di cura (cure primarie e cure specialistiche) e anche tra differenti livelli istituzionali, ad esempio [con] il coinvolgimento dei Comuni, per garantire la qualità e la continuità dell’assistenza».

Maciocco individua anche due importanti sacche di resistenza a questo tipo di innovazioni: l’università e la logica aziendale. «Anche la formazione universitaria, troppo focalizzata sullo studio delle singole malattie e poco interessata a occuparsi dei problemi delle persone e della complessità dei percorsi assistenziali, rappresenta un serio ostacolo all’innovazione delle cure primarie. In Italia la situazione è ulteriormente aggravata a causa della mancanza – caso quasi unico al mondo – della disciplina accademica della Medicina di famiglia (…)».

Le resistenze ai processi di integrazione e di proattività e all’innovazione delle cure primarie provengono, infine, dal mercato. Il mondo del privato for profit (e anche del privato low profit, ossia del privato sociale) vede nella cronicità una ghiotta occasione di business. Ma è un mondo composto da una miriade di gestori e di erogatori di prestazioni, ognuno dei quali interessato a realizzare la propria parte di utile, dove i concetti di presa in carico e di integrazione sono pressoché sconosciuti.“ Ancora una volta si tratta di andare ad approfondire e ad articolare le prassi e le culture dell’universalismo, in questo caso valorizzando la prossimità come luogo di contrasto alle disuguaglianze come unico veicolo di un reale orientamento all’uguaglianza sostanziale.

Non basta dunque difendere il pubblico ma è necessario innovare le sue logiche, anche osservandone le distorsioni, le insufficienze, le dimensioni di privatismo entrate nel cuore della sua struttura.

Neri e Bifulco hanno mostrato come la sanità sia oggi permeata «profondamente da logiche di mercato – di recente anche nella loro dimensione finanziaria – che ne “mettono a valore”, come si dice oggi, i potenziali di redditività a scapito della sua natura, appunto, di servizio fondamentale» dopo che «in base ai principi del New Public Management, all’interno delle organizzazioni sanitarie pubbliche [si] sono applicati criteri e metodi di gestione derivanti dalle imprese private». Per esempio, «l’Italia è stata tra i primi paesi europei ad adottare, tra il 1995 e il 1998, un sistema di remunerazione tariffaria associato ai Drg, che valorizza la produzione “core” dell’attività ospedaliera, cioè i ricoveri, e rende meno remunerative, di fatto penalizzandole, le attività preventive e quelle con una maggior componente sociale e territoriale anziché ospedaliera». Per quanto il sistema di remunerazione sia stato accolto negli anni ‘90 anche da tecnici di sinistra come strumento all’interno di un complessivo tentativo per razionalizzare, fornire strumenti per sottoporre a controllo pubblico, decostruire privilegi e baronie, tale «sforzo ha mostrato chiari limiti» e le logiche dominanti di “market-making” cui ha dato luogo si possono ormai leggere anche nell’analisi di diversi modelli regionali di sistemi sanitari – anche quelli che hanno preferito la “programmazione negoziata” (come Toscana ed Emilia Romagna) alla costruzione dei “quasi mercati” (Lombardia).

Il tema dell’aziendalizzazione è uno di quelli che richiede maggiore attenzione analitica per gli esiti ambivalenti che ha prodotto «anche nelle Regioni più “virtuose”, dovuti prima di tutto alla compresenza di logiche di azione contraddittorie all’interno delle organizzazioni sanitarie, dove le scelte sono guidate non solo da fattori economici, ma anche politici e sociali. E tuttavia, la logica dell’aziendalizzazione ha avuto un impatto molto forte sul sistema sanitario, con effetti positivi e negativi». In primo luogo la «ricerca di economie di scala nella produzione di servizi, e (…) un’elevata contrazione dei posti letto ospedalieri, [che ha] spesso sguarnito le zone di provincia e le cosiddette “aree interne”, creando diseguaglianze tra i cittadini, ma ha anche privato queste aree di punti di riferimento importanti per l’assistenza sanitaria» anche perchè la “razionalizzazione” prevista non è stata adeguatamente supportata «da un sistema efficace di cure primarie». In generale, contrariamente a quanto sostengono alcuni di coloro che hanno provato ad applicarne i principi regolatori da essa forniti al sistema sanitario, «l’aziendalizzazione ha finito per privilegiare un modello organizzativo basato sulla produzione di prestazioni, portato quindi a concentrarsi sulla malattia e non tanto sulla prevenzione e promozione della salute», anche incidendo negativamente sul «rapporto fra ospedale e territorio».

Neri e Bifulco ricordano che «la territorializzazione è il cuore dell’approccio integrato alla salute sancito dalla riforma del 1978. In quella cornice, essa era intesa non come mera dislocazione della cura ospedaliera sul territorio ma come un cambiamento radicale dei modelli di cura. La ramificazione nel territorio delle funzioni di servizio e di governo ha alle spalle innanzitutto l’approccio dei determinanti sociali di salute, che nel focalizzare le diseguaglianze nella salute della popolazione prende in conto l’intreccio tra dimensione individuale e sociale e il peso di fattori quali il contesto sociale e di policy, le condizioni di vita e di lavoro, i servizi accessibili e disponibili, la posizione socio-economica».

Rilanciare la territorializzazione come strumento fondamentale dell’universalismo richiede quindi oggi un lavoro, politico, culturale, di movimento, transdisciplinare e trasversale a vari settori sociali, capace di farsi carico dei «frames, delle concezioni in tema di salute che sono incorporate nelle architetture organizzative e ne orientano le pratiche quotidiane» poiché «la fragilizzazione del territorio è legata a doppio filo all’avanzata di dinamiche di desocializzazione della salute» che tendono a «forgiare una domanda consumeristica il cui aumento tendenziale vale a giustificare surrettiziamente la scelta di ampliare il sistema di offerta attraverso il privato accreditato» e le prestazioni garantite dai cosiddetti pilastri mutualistici o assicurativi, che contribuiscono a svuotare di senso la leva universalistica della fiscalità progressiva.

In definitiva «il meccanismo domanda-offerta è incoerente con strategie di promozione della salute, che per loro natura dovrebbero interessare prevalentemente la componente territoriale dei servizi»; esso corrobora «la naturalizzazione della domanda di salute, collegata al paradigma del mercato».

La «parabola discendente del territorio nel Servizio sanitario nazionale è il frutto di potenzialità innovative andate sprecate, in particolare per quanto riguarda funzioni di prevenzione e promozione». Solo alcune sparute sperimentazioni, come quella delle microaree, consentono oggi di guardare a formule organizzative capaci di concretizzare l’universalismo articolandone le pratiche al territorio; ma non si è fatto ancora abbastanza per studiarne limiti e implicazioni politiche se, come ha recentemente scritto Nicoletta Dentico citando una anonima dirigente sanitaria dell’Emilia Romagna, non bastano le regolazioni astratte se non si tematizzano le pratiche e le soggettività: «dove trovare le crepe dentro cui insinuarsi – ha chiesto una dirigente dell’Emilia-Romagna – quando il pubblico avrebbe gli strumenti per regolamentare i contratti di committenza con il privato, e invece delega a quest’ultimo la determinazione della tipologia di prestazione da erogare, e il relativo utilizzo del budget?».

Vittorio Agnoletto, con la storica organizzazione Medicina Democratica e una serie di altre organizzazioni politiche e sindacali regionali, ha promosso il referendum abrogativo dell’equiparazione pubblico privato in sanità in Lombardia; con un atto prettamente politico, la maggioranza in Assemblea Legislativa Regionale ha negato la possibilità del referendum, facendo in modo che fosse «tolta ai cittadini la possibilità di scegliere». La lotta ora continua al TAR e nelle piazze: riteniamo un passo nella corretta direzione che il Comitato Promotore sia ampio e raccolga soggetti finalmente convergenti su questo tema: una allusione all’importanza di ricostruire oggi uno spazio ampio di lettura politica che ci permetta di legare teoria, attività di programmazione, pratica clinica, azione collettiva e riflessione sulla soggettività nella progettazione di una lotta, dove oggi sono più necessarie le condizioni istituzionali della sua produzione.


Seconda parte

Nella seconda e ultima parte di questo articolo, le prospettive teoriche e politiche delle lotte sulla salute, dall’analisi critica del settore pubblico alle nuove forme di politicizzazione delle pratiche della cura

La riflessione teorica nelle nuove forme di mobilitazione sulla salute: ripoliticizzazione della cura e solidarietà

Donatella Della Porta e Mario Diani, indagando il rapporto tra mobilitazioni sociali e sistemi di welfare, hanno indicato come centrale nelle lotte sociali la capacità di «spostare i confini tra pubblico e privato», superando la visione evolutiva dei cluster di diritti (civili, sociali e politici) e mostrando come tale ridefinizione contribuisca a forgiare e a permettere l’emersione di nuove soggettività, che a loro volta riarticolano con la loro presenza il campo politico complessivo. Le lotte sociali novecentesche hanno favorito «l’espansione del ruolo dello stato» che, intervenendo «con crescente frequenza nei settori relativi alla vita privata, in particolare attraverso la fornitura di servizi sociali e l’azione delle agenzie assistenziali», ha anche prodotto «un maggiore controllo su aspetti della vita che in precedenza sarebbero stati lasciati alla regolamentazione autonoma degli attori sociali, con esiti ambivalenti. L’estensione del servizio sanitario pubblico, ad esempio, ha favorito la standardizzazione dei metodi terapeutici e il trattamento di eventi cruciali nell’esperienza degli individui, come la maternità. È seguita una tendenza alla burocratizzazione e alla razionalizzazione della sfera privata» (Dalla Porta) su cui sono intervenute le critiche di nuove soggettività che a loro volta hanno modificato il campo della riflessione politica. Il movimento femminista, i movimenti di critica alla psichiatria, i gruppi attivi contro la nocività degli ambienti urbani hanno sì propugnato una «estensione del welfare, ma anche una trasformazione delle istituzioni dello stato sociale».

Sempre seguendo la riflessione di Della Porta e Diani, se «molta ricerca, focalizzata su movimenti sociali progressisti, ha sottolineato il loro ruolo nell’espansione dei diritti», tale estensione non è nè univoca nè lineare: «Marshall ha suggerito una evoluzione dai diritti civili a quelli politici e sociali, in realtà le lotte per questi diritti sono state spesso intrecciate, mobilitando sempre nuovi gruppi sociali, dalle donne ai migranti».

L’analisi del rapporto tra lotte sociali e welfare va quindi condotta tenendo conto della mutevolezza e dell’articolazione interna dei diversi gruppi sociali, della trasformazione dei gruppi sociali stessi e del loro rapporto con la configurazione degli ambiti di intervento statale – anche nei termini della retroazione esercitata dai nuovi fronti di diritto istituiti con le lotte precedenti.

Di conseguenza anche le concettualizzazioni, le tattiche e le strategie espresse dalle soggettività attive nelle mobilitazioni sociali vanno lette con la capacità di cogliere forme nuove e non convenzionali di attivismo politico: in quanto implicano l’attivazione di soggettività impreviste, diversi rapporti con l’articolazione dei poteri statali e della governance, in definitiva comportano forme sempre differenti di collocazione all’interno della “azione pubblica”, che richiamavano in precedenza come orizzonte teorico in cui collocarci. A questo proposito l’intento del seguente paragrafo sarà quello di focalizzare l’attenzione su due ambiti che non sono affatto nuovi ma appaiono oggi essere ancora poco in relazione con le riflessioni relative alle lotte in contesto sanitario: il mutualismo e il transfemminismo. Essi possono da una parte aiutare a comporre il quadro di un universalismo da rilanciare innovandolo nelle sue fondamenta – che vada oltre la standardizzazione realizzando forme di apertura alla proliferazione emancipatoria delle differenze – e dall’altra proporre sperimentazioni reali di uscita dallo specifico sanitario per realizzare forme di salute e benessere calate all’interno delle relazioni sociali.

Nelle pratiche di mutualismo e nelle pratiche transfemministe si realizzano infatti sia l’attenzione a quelle che nelle politiche istituzionali risponderebbero alle martellanti raccomandazioni sulla “integrazione socio sanitaria” e sulla “promozione della salute” (ove però queste spesso restano più dichiarate che reali), sia emerge una visione “di parte” della salute, nella misura in cui si mette a critica l’origine (violentemente) genderizzata delle oggettivazioni scientifiche e si producono saperi sulla cura a partire dall’esperienza: modi per liberare una visione politica sulla non-neutralità della scienza e delle discipline tecniche, che altrimenti resterebbe imbrigliata e invisibilizzata dall’oggettivazione dei saperi, dei discorsi e delle pratiche dominanti nella sua gestione istituzionale.

Lo sviluppo di pratiche di mutualismo è stato variamente discusso nella letteratura scientifica focalizzata sui movimenti sociali. Anselmo e altrə hanno usato il concetto di “solidarietà urbana” e hanno messo in luce le possibili interazioni verificatesi tra ambiti istituzionali e azioni di movimento, notando come in alcuni contesti internazionali siano emersi inediti incontri tra «mobilitazioni sociali e (barlumi di) innovazione sociale». Altre riflessioni hanno invece messo in luce la difficoltà riscontrata di dare luogo a strutturali forme di interlocuzione con le istituzioni in questi percorsi. Queste riflessioni, emerse principalmente nel campo della sociologia del welfare e delle politiche sociali, hanno costituito una parte molto minoritaria nella più generale riflessione che in questi anni si è sviluppata a proposito del rapporto tra welfare e mutualismo nel suo complesso.

L’interesse rispetto al mutualismo ha attraversato prepotentemente vari ambiti di discussione sul welfare attraverso cui con il concetto di “mutualismo” si sono identificate genericamente le pratiche del terzo settore, delle fondazioni, delle assicurazioni, di innovativi ibridi “comunitari” tra pubbliche amministrazioni, associazionismo di volontariato e promozione sociale, impresa ecc. Nel dibattito sociologico maggioritario sul tema si sono valorizzate, piuttosto che gli aspetti di azione collettiva e di prassi emancipatoria che hanno caratterizzato i dibattiti di movimento, le questioni relative alle maggiori capacità di affrontare, attraverso di esso, le sfide poste dalla sostenibilità economica dei sistemi pubblici di protezione, dal bisogno di intercettare e intervenire su bisogni “nascosti” con un maggiore prossimità rispetto alle istituzioni pubbliche tradizionali come i servizi sociali o i servizi sanitari, la presunta capacità di azione sul legame comunitario, anche attraverso elementi di responsabilizzazione, partecipazione e coprogettazione con la cittadinanza.

Come ha spiegato recentemente Alberto De Nicola il dibattito di movimento si è polarizzato invece tra le posizioni critiche alla macroarea di concetti di “comunità”, “partecipazione” ecc, vedendone i vettori strumentali di trasformazioni neoliberali, e chi ha collocato in essi possibilità di contro-condotte e contro-dispositivi orientati alle «potenzialità trasformative connesse al ricorso alle comunità e all’agire comunitario nelle politiche del Welfare», alla «politicizzazione e ri-socializzazione dell’economia» anche attraverso la «proliferazione di economie alternative, [e il] ritorno di logiche di azione marginalizzate dai sistemi di Welfare», legate a comunità oppresse e invisibilizzate.

In Grecia l’elaborazione attorno alle social clinics, particolarmente sviluppata per le condizioni di retrenchment del servizio sanitario in seguito all’attacco alla spesa pubblica condotto dalle istituzioni europee, ha assunto caratteri politici fortemente connessi con le dimensioni della resistenza e della sopravvivenza delle comunità, che si sono sviluppati in modo congiunto con forme radicali di conflitto e di autogestione territoriale, sorte in risposta ad una profonda azione di impoverimento delle istituzioni pubbliche strozzate dal diktat europeo. Heath Cabot ha parlato a proposito di “solidarietà contagiosa” come «altra faccia della crisi, che ha indotto nuove forme di partecipazione nella cittadinanza greca». In modo inestricabile rispetto alla crisi indotta dai meccanismi neoliberali, «la solidarietà parla di nuove forme di azione collettiva, comunitaria e sociale», di una nuova idea di «salute emergente nei momenti di bisogno somatico e sociale». In quanto paradigma e pratica della socialità, «la solidarietà riconfigura le interrelazioni tra persone, farmaci, assistenza e società, producendo nuove visioni di cittadinanza e di guarigione somatica e sociale»; tuttavia lo stesso autore riconosce che «la solidarietà ha una vita ambivalente in quanto prodotto diretto dell’austerità».

In campo internazionale, mentre alcune forme di mutualismo sono state valorizzate in quanto strumento di creazione di cura comunitaria radicalmente esterna e alternativa ai dispositivi governamentali dei servizi statali (si veda ad esempio il libro di Spade, “Mutuo aiuto”), alcune riflessioni hanno invece valorizzato la relazione tra le pratiche mutualistiche e i cambiamenti possibili/necessari nell’ambito del welfare state, pensando ad una complessiva “rivoluzione della cura”.

Gabriele Winker e Matthias Neumann appunto individuano «l’opportunità di una diversa etica sociale attraverso la cura stessa» per modificare «la gestione dei tradizionali campi del welfare state, appellandosi a tutti coloro che in tale pratica pubblica sono coinvolti in modo non disinteressato, non competitivo, perché non direttamente quantificabile». In modo simile si sono sviluppate alcune riflessioni femministe e transfemministe (si vedano le opere di Beatrice Busi e Maddalena Fragnito in primis) interessate a «combinare diversi pubblici e diversi gruppi di attivisti nel tentativo di sviluppare connessioni» impreviste.

Le pratiche e le riflessioni femministe e transfemministe, anche attraverso i linguaggi artistici – per l’importanza che l’arte riveste nella ridefinizione potenzialmente conflittuale del sensibile e dei dispositivi che ne consentono la rappresentabilità – hanno messo in luce la trasversalità e la generalità del lavoro di cura, anche lungo le faglie di razzializzazione che definiscono la “divisione globale del lavoro di cura” e le sue contraddizioni. Secondo questa elaborazione l’attività di cura è stata sempre cruciale e può acquisire forme radicali grazie all’intersezione tra sguardi antirazzisti, transfemministi ed ecofemministi, valorizzandone il senso ma anche deromanticizzandola, problematizzandola, e cogliendone l’ambigua natura di dispositivo di produzione e riproduzione di ineguaglianze, «non innocente ma sempre coinvolto nelle relazioni di potere» (come ricordano Krasny e Fragnito). L’etica della cura, che rischia di invisibilizzare la dimensione politica dell’organizzazione della cura (una delle forme di invisibilizzazione è stata la retorica dell’eroismo che ha caratterizzato gli anni pandemici in relazione alle lavoratrici/tori del Servizio Sanitario Nazionale. Su questo si vedano i lavori di Costanza Galanti e Sara Vallerani), va corretta con la riflessione di Mbembe sugli assunti necropolitci che «attraverso la distribuzione della cura ci dicono chi deve vivere e chi no». Da questa collocazione ambivalente si possono guardare «non solo le eziologie della nostra crisi culturale (l’incapacità di pensare le nostre relazioni) ed ecologica, ma anche contestare le scelte su cosa viene curato e cosa no, sulla divisione sessuale e razziale del lavoro come traccia fondamentale delle attività di cura» (come scrive Maddalena Fragnito).

Sugli stessi temi ha insistito il “Manifesto della Cura – Per una politica dell’interdipendenza” (The Care Collective, 2021) che ha rideclinato la cura come ambito di lotta politica sulla base della critica alla sua “naturalizzazione”. Commentando il manifesto Lea Melandri ha scritto: «a mancare finora non sono le esperienze che hanno tentato di spostare la cura fuori dai legami di parentela, ma il riconoscimento e il sostegno a queste forme “universali”, “promiscue” di socializzazione dei servizi e di difesa dei beni comuni, da parte delle istituzioni. Se serve il “mutuo soccorso”, altrettanto essenziale è la possibilità di avere “spazi pubblici”, che favoriscono la vita in comune, affitti calmierati, case, alloggi, scuole, asili, parchi, centri sociali, case di riposo gestite sulla base di una logica che non sia di profitto. Sappiamo quanto l’incuria degli Stati, sotto questo aspetto, sia dominante, lontana dalla prospettiva di una visione, come quella del Manifesto della cura, che vuole essere “femminista, queer, antirazzista ed ecosocialista”, incentivare modalità di proprietà più democratiche, socializzate ed egualitarie come le cooperative, dar vita a nuove istituzioni transnazionali e lavori green. Ma gli ostacoli al cambiamento purtroppo non sono solo quelli che vengono dall’esterno, da un sistema neoliberista che sta investendo con logiche di mercato tutti i bisogni e le manifestazioni dell’umano, mettendo al lavoro la vita». In questo senso la riflessione del libro, a partire dal fatto che la pandemia ha svelato la centralità sociale dei lavori di cura a tutti i livelli (dall3 cosiddette badanti all3 rider fino alle lavoranti del settore sanitario), propone una integrazione tra pubblico e mutualismo, sulla base di una rivendicazione collettiva che nasca dalla generalità di questa soggettività precarizzata, genderizzata e razializzata – cui si propone di impegnarsi in una riflessione politica su di sé e sul proprio modo di costruire relazioni.

Di fronte alla situazione attuale, in cui i le tendenze alla “razionalizzaizone” rischiano di essere gestite solo “dall’alto” – quindi innervate da oggettivismo, competitività e assenza di  critica sui temi relativi alla riproduzione sociale nel suo complesso, l’apporto congiunto delle pratiche di mutualismo e della riflessione queer, femminista e trasfemminista sta nella possibilità di un cambio di paradigma epistemologico, che liberandosi dagli assunti positivisti si spinga verso il ricoscimento dei saperi esperienziali, e nella centralità degli aspetti relazionali della politica – che si declini nella capacità di costruire alleanze inattese al di fuori del feticismo identitario dominante. Sulla base di questi apporti sarebbe possibile ricostruire uno spazio in cui ricucire il legame storico – oggi spezzato – tra progettazione istituzionale e “lotte per il progresso dei diritti”, il cui esito ha operato nell’opera riformatrice degli anni ‘70.

Giulio A. Maccacaro indicava già all’inizio degli anni ‘70 la difficile strada da seguire in una fase in cui alla spinta di rinnovamento sociale e politico si affiancavano la tendenziale chiusura degli spazi di redistribuzione economica e l’avanzare di proposte tecnicistiche di razionalizzazione del sistema. Per Maccacaro era chiaro che «la scelta a favore della riforma ospedaliera e il ritardo della medicina extraospedaliera implicano (…) un indirizzo sanitario che è tecnicistico ed è incontrollabile dal basso, e che per questi motivi si articola in modalità tipicamente autoritarie. Anche la medicina preventiva, fra l’altro, si configura così prevalentemente sotto il segno della “diagnosi precoce” (dépistages, screenings di laboratorio) cioè come pratica tecnica, senza intaccare le cause patogene reali (sfruttamento)». Le innovazioni necessarie alla tenuta del sistema, se gestite solo dall’alto, assumono connotati per cui le stesse parole d’ordine del movimento (prevenzione, riforma, ma anche “integrazione sociosanitaria”, “determinanti sociali di salute”, ecc) diventano strumenti di controllo e irregimentazione autoritaria. Di conseguenza emergeva la centralità della questione sanitaria come punto di articolazione tra generale e particolare, intersezione da cui prende forma un campo di ambiguità – entro cui insistere con l’azione politica: «la battaglia sanitaria può essere uno strumento valido all’interno della lotta di classe, nella misura in cui identifica le contraddizioni di classe; non può essere un fine né uno strumento valido, invece, nella misura in cui illude i lavoratori sulla possibilità di ottenere (mediante riforme considerate come variabile indipendente nei confronti del modello prevalente di sviluppo economico) modelli alternativi di sviluppo dell’assistenza. L’errore è dunque di considerare certi sviluppi possibili dell’assistenza (all’interno del sistema) come forme di consumo e di impegno sociale del reddito non subordinate alle esigenze di accumulazione del capitale. In pratica, «La battaglia per la salute, quando si pone come espressione di una esigenza generica di soddisfacimento ai bisogni generali senza un riferimento alle specifiche contraddizioni di classe, si configura come un momento di razionalizzazione interna allo sviluppo capitalistico».  «(…) In sintesi, la lotta per la salute può passare attraverso (…) un controllo egemonico degli strumenti di difesa della salute da parte della classe operaia, ma deve giungere soprattutto, e rapidamente, alla lotta contro le vere cause sociali delle malattie. Solo a questa condizione la lotta per la salute può diventare un momento valido della lotta di classe. In questo contesto, si pone subito il più urgente “che fare?” dei medici (e degli studenti in medicina). In parte, il problema è generale e concerne la questione, molto discussa in questi tempi, dell’utilizzazione politica della collocazione professionale dei tecnici, soprattutto se questi non sono inseriti direttamente nella fabbrica. Esistono però alcuni punti precisi che vanno chiariti subito, al di là del problema di fondo di come legare organicamente la propria collocazione professionale alle lotte proletarie:(…) la battaglia per la salute, che nasce alla base dall’avvertimento di contraddizioni acutissime, è stata trasformata in richieste e azioni che nel migliore dei casi precedono o stimolano i piani del capitale, senza discostarsene in alcun modo sostanziale, ma che per lo più addirittura sono a rimorchio degli orientamenti del capitalismo più attivo e lungimirante. È necessario incoraggiare gli sforzi sporadici e limitati delle organizzazioni sindacali per superare le linee più arretrate e per raccogliere e interpretare le reali esigenze dei lavoratori (ad es. nel campo della medicina del lavoro); ma è necessario anche dire che questi tentativi avvengono oggi purtroppo in assenza di una scelta politica di fondo, ed in assenza quindi di un giudizio politico sui gravi errori compiuti sinora».

Ricostruire uno spazio in cui emergano le questioni invisibilizzate

Le recenti prese di posizione a difesa del servizio sanitario nazionale (CGIL, Fondazione Gimbe, Regione Emilia – Romagna, Regione Toscana) scontano i limiti derivanti dall’assenza di una discussione politica generale che ritematizzi gli aspetti fondanti dell’universalismo, del necessario rinnovamento delle culture professionali, della desanitarizazzione dei bisogni sociali, dell’organizzazione e delle pratiche dei servizi. Le richieste di una quota maggiore di finanziamento pubblico del sistema, se non metteranno in discussione questi elementi – e di conseguenza il contenuto delle pratiche del servizio sanitario – resteranno all’interno di un paradigma di cui gli ultimi anni hanno dimostrato l’insostenibilità politica.

In conseguenza dei fenomeni mostrati nei precedenti paragrafi, la componente pubblica del sistema sanitario è venuta configurandosi come necessaria-ma-subalterna al privatismo delle prestazioni, al corporativismo delle professioni e alla declinazione in forma consumistica dei bisogni delle popolazione. L’intervento statale si è ridotto così ad essere uno stimolo, una tutela e una protezione dal rischio di impresa nel complessivo mercato delle prestazioni e delle tecnologie – il cui protagonismo è riservato a gruppi professionali, imprenditori della sanità privata e reticolari ibridazioni tra questi ultimi e varie amministrazioni locali, da Sud a Nord.

Ricucire il legame – legame che è storicamente esistito come hanno mostrato i paragrafi precedenti – tra “razionalizzazione dall’alto” e “lotte per il progresso dei diritti” significa progettare innanzitutto forme di azione pubblica capaci di incidere su questa indebita convoluzione incestuosa del rapporto pubblico-privato. Maccacaro, consapevole che «la classe è estranea alla dicotomia astratta tra riforme e rivoluzione» (dal manifesto fondativo di Medicina Democratica), ha operato nella finestra di possibilità offerta da questo posizionamento ambiguo. Per riattivarne la potenza si tratta oggi di ricostruire il legame tra le organizzazioni che hanno contribuito alla costruzione politica del Servizio Sanitario Nazionale – e quelle che hanno seguito le alterne vicende delle sue varie implementazioni e modificazioni – in uno spazio in cui possano convergere le esperienze delle mobilitazioni mutualistiche “dal basso” emerse durante la pandemia, dei gruppi di lavoratori e lavoratrici interessati a mettere in questione e a rinnovare il loro modo di lavorare nel sistema sanitario, dei movimenti ecologisti e transfemministi – che da molto tempo non hanno uno spazio comune di riflessione.

Oggi variegate soggettività, molto diverse tra loro, denunciano la crisi della sanità pubblica: è necessario analizzare il senso politico di queste denunce per capire la strategia che queste prese di posizione implicano. Per noi è utile collocare questi fenomeni all’interno di una lettura politica inequivocabile: l’attacco alla riproduzione sociale, esercitato in termini estrattivi dal capitale.

È evidente che vari fenomeni rendono la situazione attuale drammatica per molti altri soggetti – la precedentemente richiamata “tempesta perfetta”: una nuova fase della transizione epidemiologica – in sui si sommano i problemi cronico-degenerativi (aggravati dall’invecchiamento medio delle popolazione e dalla maggiore pressione dei determinanti sociali e ambientali) con le minacce batteriche e virali (aumentate per la maggiore circolazione delle merci e per la pressione ambientale determinata dal modello di produzione – si veda la questione della zoonosi), la crisi finanziaria, la crisi geopolitica ad essa connessa, l’amplificazione di complessità etiche ed organizzative che in questo quadro pongono il problema energetico e la impetuosa innovazione tecnologica. Di conseguenza l’insostenibilità del sistema tradizionale è evidente e problematica per vari soggetti, con posizioni politiche diverse.

La proposta di legge di iniziativa regionale, promossa dalle giunte delle Regioni Emilia Romagna e Toscana, costituisce un luminoso esempio di una mobilitazione a difesa della sanità pubblica che non è venuta “dal basso”: si tratta delle regioni che, nella varietà dei modelli organizzativi, avevano puntato sull’integrazione pubblico-privato a forte regia pubblica (a differenza di quello lombardo che ha demandato la funzione programmatoria al privato), un modello comunque esitato nello sbilanciamento a vantaggio di prestazioni ospedaliere profittevoli – a svantaggio dell’intervento sui determinanti sociali di salute e dell’integrazione sociosanitaria. È principalmente per riprodurne la sostenibilità che adesso queste regioni avanzano la richiesta di accedere a maggiori finanziamenti: per riprodurre il sistema della profittabilità che garantisce bacini elettorali e rendite di posizione. Si tratta di un sistema in cui coesistono una base di servizio pubblico – che deve occuparsi della prestazioni necessarie-ma-poco-profittevoli (pronto soccorso e sue inridazioni territoriali, situazioni complesse socio-sanitarie, residenzialità delle lungodegenza psichiatrica e disabile, ecc) – su cui poi prospera lo strato superiore delle prestazioni profittevoli.

Ci sono dei motivi per cui la mobilitazione non è venuta “dal basso”: oggi esistono due forti limiti, due contraddizioni, due irrigidimenti tattico-identitari che rendono la nostra azione di movimento gravemente irrilevante rispetto all’azione pubblica nel suo complesso, a differenza di quanto si era verificato all’epoca delle lotte per l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale:

  • l’incomunicabilità tra le esperienze di mutualismo e autogestione (gli ambulatori popolari europei, per esempio) e le mobilitazioni di tipo professionale, sindacale e salariale. Sono per esempio state poche e di potenza risibile le vertenze in cui si siano vissute reali convergenze tra settori professionali e gruppi di pazienti e cittadinanza. Le mobilitazioni sono fino ad oggi risultate nel complesso tecnicistiche, corporative, poco credibili e lontane rispetto ai reali problemi di salute della popolazionenel campo delle soggettività ad alta competenza tecnica (medich3, gruppi professionali interessati al territorio, corpi della medicina di base, gruppi interessati alla community care, ecc.) non si è riuscit3 a costruire un contesto in cui si potesse discutere di come stare tatticamente nei processi di innovazione a trazione del capitale. Questo è accaduto soprattutto per un feticismo tattico – la tendenza a fare discendere dalle scelte tattiche la propria identità – di cui oggi sarebbe ridicolo (se non fosse drammatico) il fatto che i distinguo si concentrano sulle scelte di collaborazione alle innovazioni tecniche guidate negli ultimi 30 anni – a livello nazionale e locale – dal centrosinistra.

Il sistema ha bisogno di produrre innovazioni in questo momento: la sindemia ha mostrato che se non c’è un servizio sanitario che offra una tutela generalista al maggior numero di persone possibile (una salute medio-bassa ma che comunque permetta di estrarre la forza lavoro socialmente necessaria), diventano impossibili anche le prestazioni profittevoli, cioè  non funziona neanche più il sistema della commistione incestuosa tra il pubblico e il profitto. Tali necessarie innovazioni si snodano lungo i settori della territorializzazione, della partecipazione e della integrazione sociosanitaria, per esempio attraverso la destrutturazione dell’emergenza-urgenza (Agenas ha promosso una ristrutturazione della suddivisione tra emergenza e urgenza, necessaria affinché i pronto soccorsi possano sopravvivere), che necessita di una forte integrazione con il welfare territoriale.

Si tratta di processi ambivalenti. Nei concetti utilizzati per promuovere l’innovazione dall’alto troviamo anche elementi che sarebbero avvicinabili alla nostra concezione di salute: nel concetto di integrazione sociosanitaria per esempio potremmo trovare gli strumenti per procedere verso una desanitariazzazione dei bisogni sociali e una maggiore attenzione ai determinanti politici, economici, ecologici e ambientali di salute. Quando invece questa innovazione viene gestita dall’alto, come segnalava Maccacaro, diventa una operazione meramente amministrativa e/o repressiva: finalizzata a limitare i costi, a dirimere con sempre maggiore furore oggettivistico quali questioni debbano essere contemplate dentro le prestazioni dei servizi sanitari e quali invece siano da scaricare su un sistema di servizi sociali cronicamente a corto di risorse e innovazioni metodologiche.

Trattandosi di un processo ambivalente dobbiamo decidere come starci; l’elaborazione femminsita era molto avanzata rispetto all’attuale dibattito sul legame tra gli ambulatori popolari e le lotte per cambiare le istituzioni: era lì chiaro che l’autogestione generasse forme di autonomia e soggettivazione, tutelabili solo attraverso l’istituzionalizzazione. Allo stesso modo oggi è chiara nel movimento transfemminista la questione delle tre ecologie (mentale, sociale, ambientale) che è necessario tenere insieme: costruire modi per stare dentro queste dinamiche contraddittorie e in questi processi, con una struttura politica all’altezza, significa necessariamente andare oltre i feticismi identitari – promuovere cioè una politica che tenga al centro le relazioni.

Se le questioni attuali sono leggibili come un attacco alla riproduzione sociale è chiaro che l’allargamento dello spazio pubblico, una lotta sul confine tra pubblico e privato – che si ponga l‘obiettivo di istituire, generare istituzioni – deve giovarsi dell’elaborazione transfemminista di oggi, la cui critica ai modelli normativi di salute si fonda sulla proliferazione emancipatoria delle differenze. Quando infatti oggi si parla di personalizzazione – nell’innovazione gestita dall’alto – si sta dicendo: «adeguiamo il programma della presa in carico, dell’assistenza, dell’approccio clinico e delle prestazioni alle caratteristiche economiche e alle potenzialità produttivistiche della persona, a quanto capitale privato eventualmente si potrebbe mobilitare, a quanto lavoro informale familiare (e non) sottopagato si può estrarre da questa sofferenza». Noi invece, quando parliamo di personalizzazione, stiamo contrastando il concetto normativo di salute, provando a risolvere la contraddizione tra universalismo e differenze, promuovendo nuove e impreviste forme di partecipazione popolare. Allo stesso modo i concetti di “partecipazione”, “integrazione sociosanitaria”, “determinanti sociali di salute”, “equità” – che oggi sono tra i veicoli principali dei tentativi di razionalizzazione dall’alto – richiedono un approfondimento dalla nostra parte, capace di renderci chiaro come vogliamo programmare le nostre strategie di lotta.

Immagine di copertina di Eva Bronzini

9/1/2024 https://www.dinamopress.it/

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