Quale sicurezza con questo modello produttivo?

società malata

In ‹‹ La società del rischio ››, Ulrich Beck, contrapponeva la vecchia ‹‹ società classista ›› alla moderna ‹‹ società del rischio ››. La prima aveva in seno il problema e il conflitto della redistribuzione della ricchezza, intesa in tutte le sue forme materiali e non, nella seconda emergeva il problema della redistribuzione del rischio, dovuto alle tecniche e all’organizzazione della produzione. La separazione del tempo in epoche è una forma di organizzazione del pensiero, le due società alle quali si aggiunge il post-moderno, espressione del cambiamento e conseguenza delle scelte precedenti, ci danno una visione del presente, multipolare, dove permangono e convivono le istanze di conflitto tra sfruttati e sfruttatori, tra destinatari del rischio e beneficiari di questa distribuzione. Rapporti di forza e rapporti di rischio, sono frutto delle due società consequenziali e sovrapposte, come i loro prodotti.

L’Ilva e le ‹‹ varie Ilva ›› sparse in Italia, sono il risultato di decenni di produzione e scelte della classe dirigente all’interno della ‹‹ società classista ››. I loro vagiti hanno fatto eco nelle valli della desolazione e della povertà secolare, dove il capitale ha trovato terreno fertile. Nella società classista il conflitto è stato per il pane, per l’accesso all’istruzione e ai servizi. Sotto la guida dei partiti di massa ci si è garantiti il riconoscimento alla vita degna, accentando il rischio di morire per mano delle pistole e delle galere della democrazia, mentre la stessa classe ha continuato a scegliere sui corpi delle cavie.
I figli di nessuno,poi, i primi ad accedere al sapere e a metterlo in discussione, si avvicinarono ai loro padri e ai loro coetanei rinchiusi nelle fabbriche, entrando spesso in attrito teorico e pratico, ed evidenziarono le problematiche legate alla salute e all’ambiente dentro e fuori dai luoghi di produzione, anticipando o intravedendo il passaggio nella società moderna del rischio.

Alla distribuzione della ricchezza iniqua e classista si è aggiunta la distribuzione del rischio classista. Chi paga questo tipo di produzione e organizzazione oggi?
La domanda è retorica e la risposta è nelle polveri inalate dentro e intorno al mostro, negli occhi di chi percorre la strada verso un reparto di oncologia e di chi assiste alle colate e ai fumi, mentre si consuma la guerra di posizionamento tra i colossi dei comparti produttivi, dove le organizzazioni criminali si garantiscono una fetta di ricchezza dentro l’economia dei ricatti e del disastro. I numeri contano e dietro i numeri pesano le morti.

La scienza, la politica, gli industriali, per lungo tempo hanno accettato ‹‹ l’effetto indesiderato›› del modello di produzione attuale. È stato deciso nei centri di produzione del sapere e nei palazzi diffusi del potere che possa esistere il famoso ‹‹ rischio accettabile››.
C’è un problema di valutazione e percezione dei rischi sanitari e ambientali. Questo è esasperato a Taranto ed è più silenzioso ma non meno letale a Brescia. È presente nell’aria, nel suolo, nelle acqua, nel cibo e nei corpi di migliaia di persone. Sono le mappe della geografia del profitto.

I concetti e le intuizioni operaie e dei primi medici e tecnici che parlarono di lavoro insalubre, come l’ eliminazione degli inquinanti, delle sostanze dannose per l’uomo e l’ambiente dai cicli produttivi è superato dalla filosofia del grado di suscettibilità individuale. Solo i forti, i più resistenti, gli idonei alle condizioni imposte dalla necropolitica del profitto sopravvivranno.

La ricerca scientifica, i luoghi di sapere, i servizi di tutela ambientale e della salute sono permeati dal paradigma egemonico della distribuzione del rischio sull’individuo, che ignora la sua appartenenza a un gruppo sociale o economico. Gli indicatori come la deprivazione sembrano mai esistiti.

L’approccio volto all’eliminazione della fonte del rischio, della trasformazione dell’ambiente e dell’organizzazione di lavoro e di vita, viene sostituito dal nuovo fondamento che ha come legge costituente ‹‹ l’accettabilità del rischio ››. La sua gestione segna il passaggio al post-moderno.
Con questa logica infinite risorse vengono concentrate e sprecate in un gioco perverso, che tralascia modelli predittivi e principi di precauzione e necessità, per far posto alla distribuzione del rischio sul singolo. La sua comprovata suscettibilità ad una sostanza, la sua reazione all’inquinante decidono se è meritevole di vivere alle condizioni imposte dal profitto.

Gli studi condotti da Cesare Maltoni, sulla cancerogenicità dell’amianto, del cloruro di vinile, del benzene, dei clorofluorocarburi (CFC) e le intuizioni degli operai di Marghera, sembrano mai essere esistite.
Come l’umidità del molo e fili di canapa intrecciati, queste società convivono sotto un cielo necrotico. Sembra non esserci scampo all’avvelenamento dei corpi e degli elementi primordiali, la vita stessa da sempre legata alla morte, oggi nasce fagocitata da questa, per mano del profitto.

Chiudere i luoghi di morte per riorganizzare la vita, pretendere interventi decisi e mirati da parte degli organi competenti, è il compito di quella componente sociale ed economica, oggi frammentata e sfilacciata, che animava la conquista e il controllo dei saperi e la loro messa in pratica nel vissuto.

Non esistono altre vie per mettere fine a questo disastro, rinchiuso per troppo tempo dentro una visione politica unica e tossica, che ha dei volti e delle responsabilità.

Renato Turturro

Tecnico della prevenzione

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SICUREZZA SUL LAVORO/RACCONTI DI VITE

BLISTER

Avete presenti i farmaci che spesso tutti usiamo? Sono conservati dentro blister, scatole e scatolette. Imballaggio, packaging per i più moderni. Esiste una filiera della carta che si dirama nella produzione di scatole di carta per i medicinali e i cosmetici.
Esistono delle aziende dove ci sono donne e uomini che gestiscono il magazzino della materie prime e delle forniture, quello di spedizione e lavorano sulle linee di produzione. 40 ore a settimana, più qualche straordinario, perché può far comodo, anche se tassato.

Siamo in una provincia dell’estremo nord, quella degli imprenditori che si sono “fatti da soli” e a volte anche strafatti. Marta, ha 42 anni, due figli e un marito in cassa integrazione. Vivono in un appartamento, in una zona dove la maggior parte dei residenti fa parte della working class, gli operai insomma.
Il capannone è condiviso da due società, stesso proprietario, ma non chiedetemi perché, chiedete ad un commercialista che si occupa di evasione e vi spiegherà. E’ venerdì, fine turno, Marta deve finire il suo programma di lavoro prima di andare via, il magazziniere che le porta il carico da inserire poi sulla linea di lavorazione sta tardando. Un’altra settimana è trascorsa; centinaia di scatole per medicinali prodotte ad ogni ciclo di lavorazione, rumore, ritmo! Decide di andarsi a prendere da sola il suo carico, ha voglia di rientrare a casa, le spetta. Entra in magazzino, ci rimane per un po’. Trascorrono molti minuti, poi qualcuno, notando la sua assenza dalla postazione, va in magazzino e si accorge che è sommersa da chili e chili di scatole. Un bancale è caduto, l’ha investita, spinta e schiacciata, imprigionandola in più parti del corpo.

“Sapete, io sono sicuro che abbia problemi di alcol, ogni tanto va negli spogliatoi, e secondo me…”. Queste le parole del datore.

Marta con dignità racconta tutto, silenziosa. Ha bisogno di continuare a lavorare, ha ancora dolore, non solo fisico.
L’azienda non aveva alcuna documentazione sulla gestione del magazzino, i pallet non erano stoccati in alcuna struttura e non seguivano una logica piramidale di accatastamento.

Il padrone è sicuro di sé, spavaldo, prova a dire che aveva dato ordine di divieto d’accesso ai non addetti all’area. Si dimentica un particolare: l’area è pericolosa per tutti, anche per gli addetti! Se non finisci il programma di lavoro diventi “ lavativa, sfaticata”. Sono i metodi del padrone per far tenere le teste basse ed evitare di mettere gli occhi sulle sue inadempienze. Minimizzare i costi, massimizzare i profitti.

E’ il capitalismo baby!
Chissà, se di notte, si sente la voce del padrone offuscata dal rumore delle macchine, se si sente il tuo corpo assorbito dal ritmo deciso da loro.
Marta in silenzio, ha ripreso a lavorare, qualcosa è cambiato in ditta, non per libera volontà del suo datore, per qualche briciolo di legge e servizio pubblico che ancora esistono, per qualche sindacato, per le sue ossa rotte, che potevano essere
risparmiate. Marta cammina, i figli cresceranno e chissà il marito quando finirà di sentirsi inutile a casa, aspettandola.

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ERVIN

Ervin è nato in strada. Ma non una strada di città, con la sporcizia ai lati e in lontananza la vista dei grattacieli. Ervin è nato in cammino, il suo primo vagito è rimbalzato su una strada nomade. Sua madre, lo ha partorito mentre erano in fuga. Ervin è figlio delle bombe Nato, concepito alle porte del Kosovo, ha gli occhi del colore dei boschi della Macedonia. Infatti, taglia la legna e senza saperlo, forse tiene pulito il sottobosco. È uno dei custodi del futuro.

Il sole veniva tagliato in mille rami dalla chioma degli alberi, il profumo mattutino del bosco si era ormai dissolto. Ogni tanto chiudeva gli occhi e si faceva scaldare dai raggi coraggiosi che riuscivano a penetrare nel bosco. Metà mattina, un tronco non fissato, gli cade addosso. Forse un urlo di pericolo di un compagni di lavoro ha fatto eco sulla valle, rimbalzando sulle pareti rocciose e poi perso nel nulla. Di lui, nessuno, ha saputo nulla.

Un ditta che ora non c’è più, dissolta, si è portata via la verità. Ervin di giorni lavorava e la sera studiava. Nel tragitto verso casa, sorrideva mentre leggeva in manifesti politici, con le gigantesche lettere “C-L-A-N-D-E-S- T-I-N-I ”. Si fissava sulle ultime sette e sospirava. Non aveva detto a nessuno di essersi iscritto all’Università. Scienze naturali. Andava a dare gli esami ogni tanto e mentre parlava, muoveva le sue mani callose. Portava con sé il profumo del muschio, degli aghi tra i capelli, della terra che al mattino presto respira e sbadiglia. Chissà, se qualche professore ha mai notato le sue mani, mentre parlava di cose che lui toccava veramente e osservava tra un compito e l’altro nel ripetersi delle giornate pazienti. Ma nessuno gli hai mai chiesto nulla.

Ervin da solo, si è occupato dei suoi fratelli, sua madre, si è spenta in un reparto. I medici han detto “ non c’è rimedio, ci dispiace”. Ancora rimbombano, gli echi di quelle parole, tra gli alberi. Da quel giorno ha iniziato ad avere l’alito pesante, non ha più versato una lacrima vera. A volte, dagli occhi spunta una goccia di resina. Ora ha radici profonde, e tiene ferma la terra su cui i nostri pensieri camminano, senza che franino.

www.lavoroesalute.org

 

 

 

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