REFERENDUM: I PRIMI DUE “NO”

Sono ormai trascorsi 26 anni da quando il “transnazionalista” Marco Pannella, leader storico dei Radicali italiani, offrì l’ennesima conferma di essere disponibile ad allearsi con chiunque pur di dare fastidio al “sistema” – al quale sosteneva di non appartenere (1) – attraverso il reiterato ricorso ai referendum “abrogativi”.

Infatti, se in precedenti occasioni (2) si era trattato di iniziative congiunte con Psi, Liberali, Verdi e Pci, nel giugno del ’95 tre dei dodici referendum sui quali votammo erano stati promossi dai Radicali e dalla Lega Nord di Umberto Bossi. La rozza e becera formazione politica che faceva del “localismo” e del “separatismo” due principi apparentemente incompatibili con i principi radicali.

Furono così abrogate le norme che regolavano il soggiorno cautelare per gli imputati di reati di mafia, che definivano pubblica la Rai e che prevedevano la contribuzione sindacale automatica.
Non sorprenda, quindi, la riproposizione della “strana coppia” Radicali/Lega in materia di referendum. Si tratta, evidentemente, di conseguire obiettivi solo occasionalmente condivisi (3).

Non si spiegherebbe altrimenti l’improvvisa convergenza d’intenti tra i sostenitori di un “garantismo” spesso liberticida e Lega salviniana – espressione del più bieco “giustizialismo” – che lo scorso 3 giugno, con la presentazione presso la Cassazione di sei quesiti referendari, hanno avviato l’ennesima “campagna” sulla Giustizia.

Quella Giustizia che, secondo i miserevoli principi della Lega, dovrebbe mostrarsi sempre più forte nei confronti dei “deboli” – extracomunitari, rom, senza fissa dimora – e “comprensiva”, se non, addirittura, “tollerante” nei confronti dei c.d. “colletti bianchi”: dagli autori del “falso in bilancio” ai vari Formigoni cui riassegnare il vitalizio!

La stessa Giustizia che – da tempo, a parere dei radicali – avrebbe avuto bisogno di essere “ridimensionata” e, sostanzialmente, così come avviene negli Usa, di perdere l’indipendenza (rispetto al potere politico) garantita dalla Costituzione.
Non è questione da poco!

Naturalmente, tempi e spazi oggi disponibili non consentono di approfondire contemporaneamente – in maniera sufficientemente adeguata – tutti i quesiti. Si tratta di sei questioni di grande interesse e rilevanza sociale, che meritano, quindi, di essere affrontati con particolare attenzione.
In questa occasione, mi limiterò a cercare di spiegare al meglio quali sono i motivi che mi inducono ad esprimere un convinto “NO” rispetto a due quesiti, in particolare, che considero fondamentali.

Il primo è sulla c.d. “Responsabilità diretta dei magistrati”, mentre il secondo è relativo all’ipotesi della “Separazione delle carriere”.
Rispetto al primo, è opportuno evidenziare che le vigenti norme prevedono che il cittadino che si ritenga danneggiato dal comportamento del suo giudice può solo avviare una causa contro lo Stato che, eventualmente, si rifarà (economicamente) sul magistrato.

Infatti, in virtù della legge Vassalli (117/1988), come modificata dalla legge 18/2015), il cittadino non può procedere direttamente contro il magistrato, ma deve citare in giudizio lo Stato.

Nel caso in cui sia accertata la responsabilità del magistrato, lo Stato è obbligato (4) a rivalersi nei confronti dello stesso entro un periodo massimo di tre anni.
I proponenti il referendum chiedono, invece, che il cittadino possa chiedere il risarcimento dei danni direttamente al magistrato; non più attraverso il filtro dello Stato.
A sostegno della loro posizione, affermano che, in effetti, in caso di successo del “SI”, nulla o quasi cambierebbe perché, in ogni caso, il magistrato – come già avviene oggi – pagherebbe solo in caso di accertata responsabilità per diniego della giustizia, dolo o colpa grave.

La realtà, però, non è così semplice e l’obiettivo è di ben altra natura!
Infatti, la possibilità di un’azione diretta nei confronti del giudice tende, in effetti, a compromettere pesantemente due principi fondamentali del nostro ordinamento: l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura.
In questo senso, esporre il giudice al rischio di una richiesta diretta di risarcimento danni – senza la salvaguardia di un passaggio preventivo attraverso lo Stato – significa porlo in una scomodissima condizione di “soggezione psicologica” nei confronti dell’imputato di turno.
E’, infatti, sin troppo facile immaginare – qualora il referendum dovesse avere successo – che difficilmente un giudice si porrà il problema di un’eventuale richiesta di risarcimento danni proveniente da un qualsiasi soggetto condannato per scippo, furto di un motorino, e, perché no, immigrazione clandestina o accattonaggio!

Viene, invece, da chiedersi, se lo stesso magistrato – o qualsiasi altro suo collega – potrà godere della stessa serenità d’animo nel momento in cui si tratterà di emettere sentenza ed eventualmente condannare a rilevante pena amministrativa e/o detentiva l’AD di una nota Società quotata in borsa, i vertici di una qualsiasi multinazionale, piuttosto che un affermato imprenditore, un politico o, comunque, un “potente”, consapevole del rischio di ritrovarsi di fronte a richieste di risarcimento danni nell’ordine di milioni di euro.

Tra l’altro, è anche opportuno rilevare ciò che i sostenitori del SI sottacciono o fanno finta di ignorare. Qualsiasi azione “diretta” nei confronti del giudice che avesse sbagliato non aumenterebbe le garanzie di risarcimento a favore del danneggiato.
In questo senso, ben altra garanzia è quella offerta dallo Stato. Così come previsto dalla legge Vassalli.
Credo, quindi, siano già sufficienti elementari considerazioni di questo tipo per rendersi conto dell’enormità delle conseguenze di un’eventuale vittoria del SI.
Una giustizia sempre più forte con poveri ed emarginati e debole – perché “timida” e “condizionata” – con i potenti!

Inoltre, è altrettanto importante non dimenticare che, secondo la Corte di Cassazione (5), l”’esclusione di un’azione diretta nei confronti del singolo giudice non integra alcuna limitazione dei diritti costituzionali o dell’UE o da quelli previsti da altre normative sovranazionali”.

Pari rilevanza assegno al quesito referendario relativo all’eventuale “separazione delle carriere” dei magistrati; tra funzioni giudicanti (giudici) e inquirenti (PM).
In effetti, la separazione tra le due funzioni è un altro tema ricorrente quando si parla di “Riforma della Giustizia”.
Il punto dirimente, però, è capire bene a cosa, in effetti, miri tanta ostinata perseveranza!

La normativa vigente prevede la possibilità che nell’arco della sua attività un magistrato possa cambiare funzioni ma ciò può avvenire nel rispetto di alcune limitazioni: 1) la permanenza in una delle due funzioni per almeno cinque anni prima di poter chiedere il cambio, 2) un massimo di quattro “passaggi” da una funzione all’altra e 3) l’obbligo del cambio di Regione in seguito al mutamento delle funzioni.

I sostenitori dello status quo (che, evidentemente, voteranno NO) ritengono che le attuali norme – grazie alla possibilità, in tempi diversi, di poter svolgere le stesse funzioni nel corso della propria vita professionale – “consentono (6) al magistrato inquirente e a quello giudicante di acquisire una comune “cultura del diritto” che finisce con l’offrire maggiori garanzie di per una migliore amministrazione della Giustizia.

In questo senso, al fine di ben comprendere quale, in realtà, sia l’obiettivo dei sostenitori della “separazione delle funzioni”, riporto quello che – purtroppo per loro, oggi come già ieri – rappresenta un involontario e clamoroso spot a favore del NO.
“Tra giudicanti e requirenti vi dovrebbe essere una “forma mentis” assolutamente differente: (7) garante, imparziale, terzo tra le parti, il giudice; parte stessa del processo penale il Pm, che rappresenta l’accusa contro la difesa”!

Quindi: da un lato, un giudice che – opportunamente – è chiamato a garantire i diritti costituzionali dell’imputato ed esercita le sue funzioni in ossequio alla imparzialità impostagli dal ruolo e, dall’altro, un Pm, cioè un magistrato requirente, che avrebbe un solo scopo: la condanna dell’imputato. Un obiettivo, quello del Pm, sull’altare del quale – prevedibilmente – sacrificare (anche) garanzie costituzionali, imparzialità e, perché no, deontologia professionale. Pena, insuccessi “professionali” e mancata progressione di “carriera”.

Saremmo, in definitiva, alla sostanziale “americanizzazione” di uno snodo del nostro ordinamento giudiziario!
Infatti, tra i più attenti “osservatori” e “addetti ai lavori (8)” non sono in pochi a ritenere che l’obiettivo della separazione delle funzioni (e delle relative carriere) nasconda, in realtà, un secondo fine: “un Pm , privato dello statuto di indipendenza di cui gode attualmente e ricondotto nella sfera dell’Esecutivo”. Quindi, in definitiva, sottoposto, a tutti gli effetti, al potere politico.

Senza peraltro dimenticare – come scrive Piercamillo Davigo, autorevole ex magistrato – che lo stesso Consiglio d’Europa ha raccomandato, a tutti e 47 gli Stati membri, l’attuale modello italiano “stabilendo che è invece opportuno che uno passi da una all’altra funzione, perché la cultura comune assicura una migliore amministrazione della giustizia”!

Queste, in estrema sintesi, alcune (prime) considerazioni per concorrere, con i primi due NO, ad impedire che si approfitti dell’attuale “crisi di credibilità” della Magistratura per assestarle un colpo definitivo, avviando un percorso destinato, inevitabilmente, a rendere la Giustizia del nostro Paese sempre più meno giusta!

NOTE

1- Salvo utilizzarne ogni possibile strumento che potesse consentirgli la più vasta eco mediatica.
2- Nel 1987 si votò un referendum sulla “Responsabilità civile del giudice” promosso da Radicali, Socialisti e Liberali. Nel 1990 si votò, invece, su di una nuova “Disciplina della caccia”, su proposta di Radicali, Verdi e Pci.
3- In questo senso, l’ultimo esempio è rappresentato dagli effetti prodotti dai tragici eventi verificatisi ad aprile presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ai Radicali, che interpretano diffusi sentimenti di sdegno e sostegno ai reclusi “comuni” – oggetto di feroci pestaggi e vile brutalità, da parte di decine di agenti in “assetto di guerra” – replicano Salvini e suoi degni sodali esprimendo piena solidarietà agli emuli di “Genova 2001”!
4- Prima della legge 18/2015 la richiesta del cittadino veniva sottoposta a una “verifica di ammissibilità” da parte del Tribunale competente e, soprattutto, non era previsto l’obbligo della rivalsa da parte dello Stato.
5- Nr. 1715/2015.
6- Fonte:”Sulla scalinata del Palazzaccio”, di Nello Rossi, Direttore del sito web “Questione Giustizia”, 14 giugno 2021.
7- Fonte:” Lista Emma Bonino”; 20 referendum 1999, sito web “Friuli Venezia Giulia Radicale”.
8- Vedi nota 6.

Renato Fioretti

Collaboratore redazionale del mensile Lavoro e Salute

4/7/2021

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