Sacrificare Taranto: la violenza di un destino imposto
Il caso ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia, resta il simbolo più brutale di una crisi gestita con opacità, superficialità e cinismo da parte delle istituzioni. Una crisi che, da decenni, devasta lavoratori, cittadini e territorio, senza che vi sia mai stata una reale volontà di affrontarla con serietà e responsabilità.
Le infrastrutture dello stabilimento, obsolete e fuori controllo, versano in condizioni critiche: non garantiscono sicurezza né a chi vi lavora né a chi abita nelle aree circostanti. L’incendio all’Altoforno 1 del 7 maggio scorso e la recente fuga di gas giorno 14, fortunatamente senza vittime, sono gli ennesimi ed ultimi segnali di un collasso annunciato. Eppure, si continua a rifiutare una valutazione oggettiva sul reale stato degli impianti e sull’impossibilità materiale di qualsiasi “conversione ecologica”, tanto invocata quanto smentita nei fatti.
La narrazione di una transizione “verde”, che vorrebbe rendere sostenibile un modello produttivo nato per altri scopi e altri tempi, è pura retorica. Il ciclo integrato a caldo, cuore inquinante dell’impianto tarantino, non è compatibile con nessuna riconversione credibile: né con i forni elettrici (produzione già coperta altrove), né con le vaghe ipotesi sull’idrogeno, oggi tecnologicamente immature e insostenibili economicamente.
Pur con intenti tutt’altro che ambientalisti, ma di parte, anche Carlo Bonomi, ex presidente di Confindustria, in audizione al Senato il 6 febbraio 2024 ha riconosciuto come lo Stato non abbia mai assunto una posizione chiara, né sul se, né sul come, rispetto alla produzione siderurgica in Italia. E ha ribadito che “… a Taranto non interessa alcuna produzione elettrica: quella serve altrove. Qui si vuole mantenere unicamente il ciclo integrato a caldo. Punto. Il resto è fumo negli occhi…”
E mentre si continua a evocare la “centralità strategica dell’acciaio” per la manifattura nazionale, nessuno chiarisce con quali tecnologie, con quali risorse e a quale prezzo umano e ambientale si intenda portarla avanti.
In questi giorni, la magistratura ha negato l’autorizzazione a riutilizzare l’Altoforno 1 a seguito del gravissimo incendio del 7 maggio. I ministri del Made in Italy e dell’Ambiente sono intervenuti con toni durissimi, accusando i giudici di aver compromesso l’impianto. Secondo i due esponenti del governo, l’impossibilità di colare i fusi di ghisa e loppa rimasti nel crogiolo avrebbe causato danni irreversibili alla struttura. Hanno inoltre sostenuto che la magistratura non avrebbe tenuto conto delle richieste presentate per mettere in sicurezza l’impianto.
Si tratta di un’accusa ancora da verificare, che forse trascende la realtà dei fatti: l’altoforno versava già in condizioni disastrose, come dimostrato dagli eventi stessi.
Un ulteriore scontro istituzionale: da un lato, una magistratura che, pur intervenendo su molteplici fronti — dai diritti civili alla salute pubblica — lo fa in modo disomogeneo (annulla il processo «Ambiente svenduto» e trasferisce gli atti a Potenza), alternando slanci di tutela a silenzi funzionali, talvolta ambigui; dall’altro, una politica sempre più impegnata a legittimarsi attraverso l’attacco sistematico a ogni forma di controllo democratico, nel tentativo di ridurre la giustizia a semplice strumento di governo.
Uno stabilimento la cui produzione d’acciaio è ormai residuale, in perdita costante, che non smette di creare problemi. Le infrastrutture degradate pongono rischi quotidiani per lavoratori e residenti, mentre le emissioni inquinanti persistono nonostante le promesse di intervento. La contraddizione più evidente resta il divario tra gli annunci di riconversione ecologica e la realtà dei fatti: mentre si promettono forni elettrici e tecnologie pulite, si continua a difendere un sistema a caldo ormai obsoleto, le cui criticità riaffiorano a ogni nuovo incidente strutturale.
I dati evidenziano l’arretratezza dello stabilimento: negli ultimi decenni nonostante gli investimenti erogati, le violazioni ambientali si sono ripetute sistematicamente e le deroghe concesse dalle istituzioni hanno di fatto prolungato l’attività di un modello industriale ormai insostenibile. Il risultato è una situazione inaccettabile dove sicurezza dei lavoratori, tutela dell’occupazione e sostenibilità ambientale risultano ugualmente compromesse.
Le istituzioni, senza un vero confronto con la popolazione e i lavoratori, continuano a imporre un ricatto inaccettabile: legare il destino di famiglie e comunità a una fabbrica ormai fatiscente e insostenibile. Questo doppio ricatto, sia occupazionale che reddituale, esclude ogni possibilità di immaginare alternative che rispettino il territorio, l’ambiente e la salute dei residenti. Persistere con un modello produttivo superato significa condannare lavoratori e cittadini a una precarietà senza fine, dove il lavoro viene ricondotto a un meccanismo di ricatto, fondato su una condizione di sfruttamento che impone un unico modello produttivo, completamente estraneo alle caratteristiche del territorio e dei cittadini. In questo modo si impedisce la valorizzazione di forme occupazionali alternative, sostenibili e coerenti con le risorse e le vocazioni locali.
A seguito della sospensione dell’altoforno disposta dalla magistratura, i ministri manifestano preoccupazione che gli acquirenti azeri possano decidere di rinunciare all’acquisizione dello stabilimento di Taranto.
Nel dibattito pubblico, tuttavia, vengono trascurati aspetti fondamentali della vendita, come i consistenti tagli al personale richiesti e il progetto di installazione di un’unità di rigassificazione nel Mar Grande, che potrà garantire la fornitura energetica allo stabilimento.
Sembra che l’acquisto preveda, oltre all’impiego di un rigassificatore galleggiante che sarà posizionato nel porto di Taranto, una riduzione dei posti di lavoro dagli attuali 10.000 a circa 7.800, con una produzione annua di acciaio stimata in circa 6 milioni di tonnellate. Una produzione che si baserà sull’uso di un solo altoforno per il processo a caldo, con la possibile aggiunta, sembra, di due forni elettrici. [3]
Ancora più grave è il rifiuto strumentale da parte delle istituzioni rispetto a una possibile e necessaria bonifica dell’area compromessa. Tale posizione viene giustificata con superficialità, sostenendo che l’intervento sarebbe improponibile a causa dell’estensione, dei costi e delle condizioni del sito. Una motivazione che si basa su un paragone improprio con l’area di Bagnoli, più contenuta, che a distanza di anni non è ancora stata completamente bonificata.
Un atteggiamento sprezzante nei confronti di lavoratori e cittadini, testimoniato anche dall’indifferenza con cui è stata trattata una soluzione percorribile come il “Piano Taranto”, elaborata proprio da chi vive quotidianamente le conseguenze dell’inquinamento e del degrado. Dopo il sequestro dell’area a caldo nel 2012, quel piano avrebbe potuto rappresentare una svolta concreta e partecipata, ma è stato colpevolmente ignorato, mai discusso, lasciato marcire tra commissariamenti infiniti e promesse sistematicamente tradite.
Difficile credere che la politica voglia davvero tutelare salute, lavoro e ambiente. La linea resta la stessa: Taranto come territorio di sacrificio. Una terra destinata a produrre acciaio sporco per il profitto di pochi, senza nessuna visione per un futuro dignitoso.
Taranto viene tenuta in ostaggio da una promessa di benessere che non si realizzerà mai. I salari crollano, le condizioni di lavoro peggiorano, la salute pubblica è in costante emergenza. Eppure, l’unica prospettiva concessa è quella della fabbrica. Un sistema basato sul ricatto occupazionale, sullo sfruttamento ambientale, sull’eliminazione di ogni alternativa.
Taranto è ridotta a una zona di sacrificio, un lager industriale dove chi comanda si arricchisce mentre si muore per malattia, mancanza di cure e di futuro. Qui la vita viene sistematicamente svalutata e sacrificata, giorno dopo giorno, sull’altare del profitto.
Franco Oriolo
20/5/2025 https://effimera.org/










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