Salute mentale. Trent’anni dopo, le parole (di ora) e di allora

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Vivere l’esperienza del disturbo mentale per molti, tanto all’interno delle mura domestiche e ancor prima nel proprio essere più intimo, tanto in un mondo complicato per chiunque, fatto di relazioni non semplici che la “malattia”, quando vi fa il suo ingresso, va a evidenziare quasi fosse una lente di ingrandimento ad altissima definizione. All’improvviso, nulla più sembra potersi trascurare, nascondere, non vedere o fingere di non vedere. Né si può nascondere dietro il muro, di edera o di mattoni, di un qualche “luogo protetto e sicuro” il figlio, la sorella, il marito che all’improvviso “si è ammalato”. Il “problema”, oggi, purtroppo o per nostra fortuna, costringe a guardarlo in faccia. Quel “problema” che da tempo ormai ha il volto, il nome, i sentimenti, i desideri, le volontà, e le azioni di un individuo umano. Le sue opportunità e i suoi diritti di persona e di cittadino.

Credo che le associazioni, gli incontri, la ricerca di conoscenze ed esperienze nuove abbiano aiutato non poco le persone a ritrovare un filo, spesso una speranza, un orientamento in un percorso che sappiamo arduo, un sentiero pietroso, un bosco oscuro e minaccioso, strade sempre in salita.

Chi avrebbe mai potuto credere che le persone che frequentano e attraversano il disturbo mentale potessero comparire? Chi avrebbe mai immaginato, al principio, quando era il manicomio il luogo “della malattia mentale”, che le persone arrivassero a sentirsi parte di un processo collettivo, di avere un diritto, di rivendicarlo a piena voce, di mostrarsi, di esporsi, di interrogarsi? Di pensare di poter “stare bene”, di guarire, perfino.

Ci siamo interrogati insieme, tanti di noi, familiari, persone con esperienza, sulla natura della “malattia”, della cura, dei luoghi della cura, delle relazioni; abbiamo cercato risposte nelle pratiche che altri, in altri paesi, prima di noi, avevano avviato. È accaduto così che non è stato più tollerabile accettare che un programma di cura, un percorso di ripresa, un arduo cammino di emancipazione avvenisse nella separazione, nell’assenza, nel vuoto delle relazioni. Al di fuori della preziosa durezza, della vita di ogni giorno.

Da questa consapevolezza è emersa la freddezza di una condizione che rischiava di restare disperatamente immutabile: lo psichiatra isolato nell’ospedale psichiatrico prima, nell’ambulatorio ora; il familiare nascosto nella sua vergogna, nel suo dolore, nella mancanza di speranza; il “malato”, non più o non ancora individuo, condannato all’unica piatta identità della malattia, al silenzio e all’incomunicabilità.
Abbiamo cominciato a capire che era necessario inventare qualcosa: cercare le parole, rischiare la cura nelle relazioni, esserci.

L’apertura della prima porta ha permesso, non senza fatica e resistenze insormontabili, che in scena entrassero i protagonisti, tutti assieme per la prima volta: le persone con disturbo mentale (finalmente!), i familiari, gli operatori della psichiatria.

Quando poi, all’improvviso, ci siamo ritrovati su questa nuova scena ci siamo scoperti muti, senza parole. Ci siamo resi conto di non essere in grado di parlare. Si dice che Franco Basaglia abbia fatto tutto quello che ha fatto restituendo la parola, ascoltando, riattivando canali di comunicazione da sempre impraticabili.

Lo scrittore Giuseppe Pontiggia aveva fatto un’esperienza molto diversa da quella della schizofrenia, della malattia mentale, e tuttavia ci ha restituito parole provvidenziali, che io ancora oggi voglio riproporre. In uno dei suoi libri più belli, “Nati due volte”, narra della sua vita con il figlio venuto al mondo con un gravissimo handicap. In uno dei primi incontri col medico che ha in cura il suo bambino chiede, con la tensione che si può immaginare, cosa sarà delle loro vite.

«Guardi, suo figlio – dice il dottore – non so bene cosa sarà, come sarà, cosa farà, posso solo dire che ci sono tre possibilità: la prima più ottimistica, la seconda forse quella che si realizzerà, la terza più pessimistica». Il dottore parla diffusamente di queste possibilità e Pontiggia commenta: «[…] non era una comunicazione che mi rassicurava, né tanto meno mi faceva vedere un futuro ottimistico, però era una comunicazione che si rendeva conto che io ero lì e che avevo bisogno di sapere qualcosa e di saperlo con un linguaggio, con una voce, con uno sguardo che mi permettesse di confrontarmi con questa realtà».

Allo stesso modo, sebbene di fronte a un problema molto diverso, noi ci siamo resi conto di essere impreparati. Nel momento in cui il malato era diventato persona e coglievamo per la prima volta la possibilità della guarigione, ci fu chiaro che non avevamo parole.
Erano incapaci gli operatori, e i familiari non avevano alcuna esperienza nel dire, nel manifestare il proprio problema. Per loro rendere pubblico il carico e il dolore che vivevano era ancora una vergogna. Un qualcosa da tenere per sé, nascondere. Guai a dirlo!
Guardarsi attorno, al contrario, ascoltare le cose che gli altri dicono, poteva voler dire anche che non possiamo affrontare il nemico da soli e senza alleanze, senza saperi e senza strategie, senza risorse. Io per primo ho vissuto con molto dolore questo processo di cambiamento che ci mostrava l’inadeguatezza della vecchia psichiatria e nostra.

Giocando con leggerezza inaudita sul dolore delle persone che erano accanto a chi vive l’esperienza del disturbo mentale, si sono dette e fatte cose orribili. I familiari sono stati oggetto di manipolazioni, di strumentalizzazione, di infiniti condizionamenti. Abbiamo colpevolmente consentito che si facesse dire alle madri, ai padri, ai fratelli, alle sorelle cose che non avrebbero mai voluto pensare: dal ritornello della legge 180 “fallita”, alla nostalgia dei manicomi. Sembrava impossibile che si potesse e si dovesse parlare di persone, di sentimenti, di diritti.

Chi viveva l’esperienza non doveva fare altro che esprimere e testimoniare dolore, disperazione, rabbia, rancore. Basterebbe ricordare i luoghi comuni dei media quando ancora oggi parlano della «famiglia distrutta» e della «violenza del malato di mente», della «minaccia» che egli rappresenta per «la sicurezza sociale». O la superficialità colpevole dei politici che hanno presentato circa 50 proposte di modifica o di abolizione della legge 180 come soluzione “miracolosa” a tutti i problemi dell’assistenza psichiatrica.

La disinformazione era all’ordine del giorno (non diversamente da oggi). La classe politica ora esprime una pericolosa ostilità ideologica al sistema pubblico di salute e segnatamente alle politiche di salute mentale. Sostenuta da un’opinione pubblica disinformata e, peggio ancora, condizionata dai media attenti quasi esclusivamente alla «scandalosità e pericolosità del malato di mente», a tutto sembra interessata tranne che alle vicende delle persone e delle famiglie, che con fatica cercano soluzioni, possibilità, cure degne di questo nome per i propri cari. I loro sforzi, il naturale dolore che consegue all’arrivo inaspettato della “malattia mentale” in famiglia, vengono ancora una volta stravolti e manipolati.

Si promettono soluzioni facili, laddove nulla è mai stato né sarà facile, e ancora una volta tutto si risolverebbe, come di fatto accade, con la colpevole disattenzione proprio a quella legge che ha restituito a migliaia di persone e famiglie la speranza, il senso della possibilità, l’evidenza che curare per guarire si può.
E così in molte regioni d’Italia le risposte dei servizi

(sempre in affanno) continuano a essere improntate a un modello medico che si organizza attraverso ambulatori, farmaci, ricoveri, trattamenti sanitari obbligatori, reparti psichiatrici a porte chiuse, interminabili ricoveri residenziali. Abbandoni. Le amministrazioni regionali e aziendali (e la psichiatria) fanno fatica a realizzare risposte efficaci intorno alle persone, alle famiglie, ai loro reali bisogni e ai loro affetti.

È proprio quanto bisogna fare invece. Lavorare sulle organizzazioni, sulle risorse, sulle buone pratiche, sulla formazione, su una corretta e pertinente informazione e comunicazione. E in questo il ruolo dei familiari e delle loro associazioni si è dimostrato irrinunciabile. Un ruolo strategico primario, che noi tutti dobbiamo sostenere e mantenere con forza, con coraggio.

Dal 2003, data della prima edizione, e della nascita del Forum, a oggi, molte cose sono avvenute. Il cambiamento che si è avviato in Italia attraverso la legge di riforma ha trovato ulteriori molteplici conferme della sua giustezza. Sono le persone che vivono (o hanno vissuto) l’esperienza del disturbo mentale a testimoniarlo, a occupare sempre con più consapevolezza i luoghi degli incontri. Nel corso degli anni atti di indirizzo sono stati prodotti dai governi che si sono succeduti perché fossero sempre più chiare per le regioni le indicazioni legislative e le scelte a sostegno di una salute mentale comunitaria.

In Italia, la presenza dei servizi territoriali è ormai diffusa su tutto il suolo nazionale. Il fatto è che purtroppo molto spesso funzionano poco e male e non vuol dire che siano sbagliati in sé, ma soltanto che bisognerebbe impegnarsi per farli funzionare. Tornare a investire risorse, sia umane che materiali, o cominciare a farlo. Prendendo esempio da quelle realtà dove già lo si sta facendo, e in alcune da tempo, con risultati che a volerli vedere sono sotto gli occhi di tutti.

Da un po’ di tempo sono le persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale che hanno cominciato ad associarsi, a riconoscersi e a parlare. Non più con un filo di voce né con urla di disperazione e dolore ma con parole esperte che pretendono di essere ascoltate. Le persone sono finalmente consapevoli dei loro diritti e pretendono cure e trattamenti appropriati.

“… che la parola guarigione esiste vorrei non ci fossero più dubbi” ammonisce Silva Bon, forte della sua esperienza e del suo impegno nei movimenti per la salute mentale e le buone cure.

Le persone che vivono questa esperienza parlano di futuro, di desideri, di lavoro, di amore, di protagonismo. Di guarigione.

Peppe Dell’Acqua

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