Sono tornati gli universitari

Diversi segnali fanno ritenere che potrebbe chiudersi l’anomalia degli ultimi anni, caratterizzati da un movimento studentesco silente e poco intraprendente

Le tende piantate nei mesi scorsi dagli studenti nelle università di tutta Italia, hanno mostrato qualcosa di inconsueto e di nuovo. Dopo oltre dieci anni di mobilitazioni assenti, o al massimo organizzate a livello locale, il movimento degli studenti universitari è tornato a farsi sentire e a protestare, senza barriere geografiche. Il fatto che gruppi differenti si siano mobilitati, dai collettivi ai sindacati studenteschi, è sicuramente un segnale di un fermento che era mancato dalla fine dell’ultimo governo Berlusconi. Nel frattempo, il movimento degli universitari non è scomparso, ma si è chiuso nella rappresentanza o nelle proprie strutture organizzative. La sua capacità di mobilitazione  è stata assai limitata, se non assente o totalmente immersa in quella di altre realtà, dal movimento femminista a quello per la giustizia climatica o alle molte vertenze di stampo locale. La presenza studentesca nelle mobilitazioni al fianco del popolo palestinese ha anch’essa mostrato segni di risveglio, con gli atenei tornati luogo di protesta, con assemblee, sit-in e occupazioni, ed esempi di azione congiunta tra soggetti (e strategie) movimentisti e istituzionali che hanno mescolato una critica sistemica a concrete richieste di cambiamento proprio delle politiche degli atenei.

Stiamo assistendo solo al potenziale inizio di una stagione di protesta studentesca, ma già adesso ha senso considerare gli elementi che possono favorire la crescita del movimento universitario e quelli che potrebbero esserne i punti deboli. 

Innanzitutto è d’aiuto partire dalle rivendicazioni degli studenti delle tende. Dagli annunci caricaturali dei posti in tenda simili a quelli delle stanze affittate a Milano, fino al cartello in veneto «me manca i schei» comparso sul Ponte di Rialto, l’elemento centrale di questa protesta è il denaro. Le politiche di stampo neoliberale che hanno radicalmente cambiato l’università negli ultimi decenni hanno reso l’accesso agli atenei sempre più difficile e competitivo e il mantenimento degli studi sempre più costoso. Le denunce fatte in sede istituzionale dalle rappresentanze studentesche, ma anche le rivendicazioni programmatiche delle organizzazioni e dei collettivi hanno accompagnato e descritto bene una situazione in continuo peggioramento, ottenendo, a volte, risultati limitati ma nessuna inversione di rotta. Il sommarsi dell’inflazione ha esasperato gli studenti, partendo proprio dal primo bene di cui ha bisogno chi si trasferisce in una nuova città (o chi legittimamente vorrebbe vivere da solo): la casa. L’incapacità della politica neoliberale nel rispondere a esigenze che necessiterebbero di una forte regolamentazione del mercato e di una penalizzazione della rendita sta emergendo in modo chiaro, rendendo più nette e radicali le richieste anche degli attori più istituzionalizzati del mondo studentesco. Risulta a dir poco insoddisfacente  la reiterata proposta di dare ulteriori fondi agli attori privati per esternalizzare la gestione del problema, e oltraggiosa la scelta, già responsabilità del governo Draghi e abbracciata da Giorgia Meloni, di stanziare la totalità dei fondi del Pnrr a sostegno degli studentati privati.

La dimensione materiale si unisce a una forte riduzione delle opportunità politiche (o meglio di quelle percepite) in sede istituzionale, che è causata dalla presenza delle destre al governo. Per quanto le forze parlamentari di centro e di centro-sinistra non abbiano fornito alternative radicali al graduale indebolimento dell’università e della ricerca pubblica in Italia nei dodici anni in cui si sono trovate al potere, sono riuscite ad avere un effetto moderatore sul movimento universitario. Sembra infatti chiaro che il governo più a destra della storia repubblicana possa mettere d’accordo tutte e tutti su posizioni fortemente d’opposizione. La retorica del merito copre la  scelta di rendere le istituzioni di istruzione superiore sempre meno accessibili penalizzando il pubblico a favore del privato e lasciando da parte coloro che più avrebbero bisogno del sostegno dello Stato per vedere garantito il proprio diritto allo studio. Se si aggiunge una manovra finanziaria davvero debole e lo spettro sempre più concreto di un ritorno dell’austerità di bilancio su spinta europea si può delineare chiaramente la distanza concreta tra l’operato del governo Meloni e le richieste della comunità studentesca. 

L’azione del governo e l’ingiustizia sociale su cui basa la legittimità delle proprie scelte conduce a un altro potenziale fattore a sostegno della protesta studentesca.  La convergenza messa in atto da Cgil, Arci e numerosi altri soggetti dell’associazionismo potrebbe portare a strategie di protesta meno episodiche del passato e a sponde inaspettate per il movimento studentesco. Il ricorso allo sciopero, ripreso da Cgil, Uil e sindacati di base, ma anche da categorie quali quelle dei trasporti e della sanità, apre a nuove sincronie soltanto in parte sfruttate. Il movimento femminista è in azione, seguendo percorsi transnazionali ma anche rispondendo ai posizionamenti conservatori dell’esecutivo e ai fenomeni di violenza sulle donne e di femminicidio che hanno raggiunto visibilità nazionale. La presenza di questi attori, cui si possono aggiungere i vari movimenti per l’ambiente e quelli per i diritti Lgbtqia+, potrebbe essere di grande impulso  per un movimento che si trova per la prima volta dinanzi alle dinamiche di piazza e a una dialettica politica oltre le aule e i corridoi degli atenei. 

Se la presenza di organizzazioni e collettivi può aver creato delle catene di trasmissione – con l’arrivo all’università di attivisti che hanno già protestato, da studenti nelle scuole o in altri movimenti – la creazione di reti con altri soggetti non potrà che giovare e rafforzare una mobilitazione nascente. Inoltre la situazione di concreto disagio economico, indotta dalle scelte del governo di tagliare il Reddito di cittadinanza, con effetti disastrosi sui quartieri popolari e sui piccoli centri di tutta Italia, rende potenziali alleati chi non ha preso parte ad altri movimenti nel passato recente. Nuove narrazioni e nuove proposte possono farsi sentire in zone che sono state troppo spesso egemonizzate dalle retoriche conservatrici, sempre meno credibili dopo la rimozione, con un tratto di penna, di un sostegno fondamentale per molte e per molti.

La fine del periodo pandemico e il ritorno degli studenti nelle città ha probabilmente portato alla ribalta le esigenze di partecipazione e azione politica e l’uscita da due anni di vincoli e restrizioni potrebbe aver favorito  anche un superamento, o per lo meno un ripensamento, di divisioni e pratiche precedenti. Un cambiamento evidente, per esempio, si può trovare nella fine della stagionalità tradizionalmente annuale delle mobilitazioni studentesche. Cambiamento già iniziato almeno nel 2014-15 con le proteste contro la Buona Scuola e che si può definire come consolidato per gli studenti medi a seguito delle grandi azioni avvenute in risposta alla morte di Lorenzo Parelli durante l’alternanza scuola-lavoro e potrebbe aver raggiunto anche gli universitari proprio con la protesta delle tende.

Il pericolo maggiore di un percorso di espansione sta nel dare un ruolo eccessivo alla competizione tra attori di movimento. La presenza dell’estrema destra nelle università e l’ambizione dei partiti di destra di consolidare e far crescere i propri gruppi studenteschi dovrebbero avere un ruolo compattante per le forze progressiste e radicali del mondo studentesco, ma le scelte prese dai diversi gruppi politici saranno determinanti. Dopo le divisioni, una tendenza a focalizzarsi unicamente sulla dinamica studentesca potrebbe indebolire le potenziali connessioni con altri attori e la costruzione di un consenso fuori dall’università. La politicizzazione della maggior parte dei soggetti studenteschi maggiormente rappresentativi dovrebbe funzionare da  argine, ma la presenza di attori moderati o addirittura di professata «apoliticità» negli organi di rappresentanza e nelle aule potrebbe essere un ostacolo concreto alle proposte di mobilitazione. 

Gli studenti universitari nella storia sono stati capaci di farsi portavoce di grandi istanze di cambiamento, e anche di essere iniziatori di grandi mobilitazioni. Dagli anni dell’austerità e delle larghe intese prevale invece l’anomalia  di un movimento universitario silente e poco intraprendente. Ciò che sta avvenendo per le strade e nelle piazze di tutta Italia potrebbe finalmente chiudere una fase, per aprirne una nuova e colma di opportunità.

Giuseppe Lipari è dottorando di ricerca in Scienza Politica e Sociologia presso la Scuola Normale Superiore e si occupa di movimenti studenteschi.

16/2/2024 https://jacobinitalia.it/

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