STUPRI, FEMMINICIDI E OMICIDI SUL LAVORO

Il caso di Palermo, nella sua incredibile brutalità, ha riportato l’attenzione sul fenomeno dello stupro. Purtroppo, proprio l’inaudito livello di violenza sembra volerlo relegare a fatto straordinario, quasi unico. Sappiamo bene che così non è. Pur non avendo dati statistici alla mano ho la netta sensazione che il fenomeno sia in progressivo incremento. La “cultura dello stupro” è molto diffusa e finisce per permeare un numero largamente sottostimato di menti maschili. Il degrado culturale in cui siamo precipitati e di cui conosciamo molto bene l’origine (berlusconismo, machismo, sdoganamento degli atteggiamenti fascistizzanti) trova nella caduta verticale dei redditi (e dei diritti) da lavoro un combinato disposto altamente efficacie. La divaricazione dei redditi produce da un lato disperazione e rassegnazione, dall’altro l’arroganza di chi fa dei diritti null’altro che privilegi. Nel mezzo il nulla. La sconfitta della lotta di classe ha demolito una cultura alta, fatta di faticose conquiste sociali, lasciando larga parte della popolazione nel deserto di prospettive di vita.
Il revanscismo della destra trova oggi il modo di vendicare una lunga stagione di latitanza. Oggi il Capitale non ha più bisogno del fascismo nella sua versione storica, folcloristica. La sostanza del fascismo, tuttavia, si sta facendo largo lentamente ma con progressione costante: la corporativizzazione della società e l’uso della miseria economica come ricatto sociale e come strumento di incremento di accumulazione. Naturalmente, tutto questo trascina con sé la cultura dell’egoismo, della paura, della vigliaccheria, della violenza come ordine “naturale”. La donna è il primo bersaglio di questa violenza, di questo ordine. E la minaccia alle donne nulla è se non la parte evidente della minaccia alla popolazione tutta, fatta salva una sempre più ristretta cerchia di benestanti e di autentici capitalisti.

Così come percepisco un incremento dei fenomeni di stupro, ad opera di singoli o di branchi, leggo sempre più spesso casi di femminicidio. Non potrebbe essere altrimenti, dato il clima sociale che respiriamo. La cultura della miseria non può che causare la miseria della cultura. Ogni egoismo è lecito, ogni egoismo diviene un diritto percepito da parte del detentore di potere, il maschio verso la femmina così come il Capitale verso i lavoratori. L’atto estremo dell’uccisione non è mai un episodio singolo, imprevedibile. Il femminicidio conclude un periodo di tempo più o meno lungo fatto di violenze psicologiche, verbali e fisiche subite dalla vittima che tale non è quindi solo nell’atto dell’uccisione ma è stata vittima da quando è iniziato il rapporto. E così come nel caso degli stupri, anche nei femminicidi non si può mai ricorrere alla colpevolizzazione della vittima: è una modalità che nega in nuce la possibilità di dignità umana e femminile della donna.I due fenomeni sin qui trattati, gli stupri e i femminicidi, hanno molti tratti in comune, fra questi la “sparizione” mediatica della vittima e la mediatizzazione del o dei criminale/i con le sue scuse, i suoi alibi “morali” nonché la costante colpevolizzazione della vittima.

La cultura della miseria si manifesta anche nel mondo del lavoro. I numeri dei morti sul lavoro sono ancora in aumento. E questi morti, come nel caso delle donne, sono stati assassinati. Omicidi sul lavoro è la definizione che meglio descrive questa tristissima realtà. I numeri sono ogni anno impressionati, una vera strage. Quantità che tuttavia, spesso non tiene in conto i morti nascosti (fisicamente o con certificati di morte di comodo) e non contiene quasi mai i morti “in itinere”, in viaggio da o per il posto di lavoro. Pur in presenza di un impianto legislativo che sulla carta non può essere imputato di correità, la precisa applicazione delle norme previste è ben rara e spesso dileggiata dal datore di lavoro e dai suoi rappresentanti.
E’ talmente diffusa l’ignoranza dell’importanza della sicurezza sul lavoro che a volte sono i medesimi “padroni” (naturalmente si parla di artigiani e di agricoltori, non di veri capitalisti) rimanere vittime del lavoro, del loro lavoro. Ignoranza che non deve stupire affatto se per un attimo consideriamo il clima socioculturale in cui da troppo tempo siamo immersi.
E’ tempo che fra gli omicidi del lavoro vengano conteggiati anche coloro che non muoiono immediatamente sul posto di lavoro o in itinere ma coloro che allontanati dal lavoro decedono per cause (intossicazioni o avvelenamenti) che risalgono esattamente al lavoro svolto e/o all’ambiente di lavoro. Così come non dovremo dimenticare di conteggiare chi decide il suicidio sulla spinta della disperazione per non avere un lavoro.

La cultura della miseria non può che fare crescere la violenza sociale, contro le donne e contro i lavoratori tutti.

Elio Limberti

Collaboratore redazione del mensile Lavoro e Salute

22/8/2023

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