Tra Zenobia e jineoloji. Reportage dalle regioni autonome del Nord-Est della Siria, dove donne, vite e libertà sono sotto assedio
Bushra Mohammed fa parte di Zenubiya, un’associazione di donne arabe costituitasi a Raqqa e in diverse città della regione, di fatto autonoma, del Nord-est della Siria (Nes) dopo la sconfitta di Daesh, il sedicente Stato islamico. «Non c’è un movimento delle donne curde o un movimento delle donne arabe. Siamo un’unica organizzazione, un’unica realtà che comprende tutte» spiega. Zenubiya prende il nome dalla leggendaria regina guerriera di Palmira che nel III secolo a.C. sfidò l’Impero romano per rivendicare l’autonomia delle province orientali. La scorsa settimana, le attiviste dell’organizzazione hanno accolto una delegazione di giornalisti e politici europei in visita nella loro sede, nella città dove Daesh aveva stabilito la sua capitale dal 2014 al 2017.
Senza rinunciare ai loro simboli culturali, le attiviste di Zenubiya si riconoscono nello slogan «Donna, vita, libertà» caro alle loro compagne iraniane e alle curde del movimento jineoloji: alla fine dell’incontro con la delegazione lo intonano anche in arabo. Oggi, associazioni come Zenubiya si sentono profondamente minacciate dalla Turchia: da un lato, questa conduce una nuova ondata di aggressioni, attraverso milizie riunite sotto l’ombrello dell’Esercito nazionale siriano (Sna). Gli attacchi sono iniziati a fine novembre, in diverse province a maggioranza araba prima controllate dalle Forze democratiche siriane (Fds) a guida curda. Dall’altro, anche il nuovo governo di Ahmed al-Sharaa, autoproclamatosi presidente della Siria il 29 gennaio, ed espressione delle Hayat Tahrir al-Sham, milizie per anni affiliate ad al-Qaeda, è visto come conservatore sul piano delle pari opportunità, nonché molto vicino al governo di Ankara.
Un target per la Turchia
Durante l’incontro, le attiviste ricordano la storia di Qamar al-Sud, Aisha Abdul Qader e Iman Elmusa, tre donne del ramo di Zenubiya di Manbij.
«Sono state uccise durante l’attacco dei mercenari dell’occupazione turca, l’Esercito Nazionale (Sna), l’8 dicembre 2024 – racconta Hevi el-Eli, responsabile dei media per Zenubiya – Quando hanno attaccato Manbij, Aisha e Iman hanno deciso di lasciare la città perché lavoravano con l’organizzazione. Nel tentativo di attraversare il ponte Qara-qozak per mettersi in salvo dai mercenari – prosegue – sono state colpite dai bombardamenti turchi. Qamar, invece, non è riuscita nemmeno a lasciare la città in tempo». Qamar era stata minacciata da un suo zio, sembra, per le sue attività al fianco dell’associazione. «Quando i mercenari hanno preso il controllo di Manbij, quelle minacce si sono trasformate in realtà. È stata uccisa davanti ai suoi figli» aggiunge ancora Hevi. La foto che mi manda ritrae Qamar seduta in campagna, sorridente, vestita di rosa. Collaborava con l’ufficio per gli affari religiosi del movimento, che propone una sua versione di «Islam democratico».
Stando al resoconto delle attiviste, dopo che Manbij è uscita dal controllo delle Sdf, i mercenari hanno anche occupato il centro di Zenubiya e lo hanno trasformato in una sede militare. «Oggi, il principale bersaglio della Turchia non sono solo i popoli della regione – sottolinea Eli – ma, soprattutto, le donne e la loro volontà». E precisa: «Le nostre compagne sono state colpite per il loro impegno».

Senza scuola, senza casa
Se le donne che militano attivamente per la parità tra i sessi sono un obiettivo quasi naturale di molte delle milizie che compongono l’Sna, spesso ispirate a ideali ultra-conservatori, gli attacchi turchi non colpiscono solo loro. Direttamente o indirettamente, tutte le donne della Siria del nord-est ne subiscono le conseguenze. A Kobane e Manbij, in conseguenza dei bombardamenti turchi alla diga di Tishreen, 413mila persone sono rimaste senz’acqua né elettricità. Secondo fonti del Forum delle Ong attive nella regione, alla data del 20 gennaio, almeno 133 scuole avevano dovuto interrompere le lezioni per ospitare le persone in fuga da attacchi aerei e scontri tra Sdf e Sna. Solo la «Abi Ali al-Ma’ari» di Raqqa, visitata dalla delegazione, ne ospitava 160, tra cui Tulin. Seduta su un tappeto con la sua famiglia, in un’aula che era diventata una piccola abitazione di fortuna, Tulin ha raccontato della sua fuga da Shebha. Da questa regione del governatorato di Aleppo, la stampa curda ha denunciato che decine di migliaia di sfollati interni sono stati costretti a fuggire, quasi due mesi fa, da attacchi aerei e terrestri condotti dall’esercito turco e dall’Esercito nazionale siriano (Sna). I dati sono impossibili da verificare, ma sembrano confermati dalle testimonianze di alcuni di loro.
«Ci hanno attaccato e siamo usciti, siamo andati in strada – ricorda Tulin – Abbiamo visto morti sulla strada. Gli avevano preso i telefoni, gli avevano preso i soldi. Ci hanno detto: Andate, vi raggiungeremo».
Molti degli sfollati di Shebha sono dovuti fuggire dalle proprie case due volte: la prima nel 2018, in seguito all’operazione delle Forze armate turche contro le Sdf nella vicina Afrin, da cui si rifugiarono a Shebha. Da qui, una seconda volta, a fine novembre, proprio quando alcuni di loro, come ha raccontato un’altra testimone, iniziavano a ricostruire la propria vita. «Vogliamo sicurezza. Protezione. Vogliamo una casa» conclude Tulin, rispondendo a una domanda sull’appello che sente di fare alla comunità internazionale.
L’incognita Trump
Se l’appello di Tulin potrà essere ascoltato, molto dipenderà dalle decisioni della nuova amministrazione statunitense guidata da Donald Trump, nonché da quelle degli altri attori internazionali alleati a Washington.
Nel primo giorno del suo insediamento, Trump, che a gennaio ha definito il presidente turco Recep Tayyep Erdogan «un amico», ha deciso di interrompere tutti gli aiuti umanitari per 90 giorni, compresi quelli alla Siria.
Non è chiaro che cosa sarà del sostegno statunitense alle Ong che operano in Nes allo scadere di questi tre mesi, ma si teme che, a fare le spese della situazione incerta, possano essere i civili e, per prime, le donne. Solo per quanto riguarda il sistema sanitario, già a maggio, ben prima della decisione di Trump, Medici Senza Frontiere aveva lanciato un allarme sul sottofinanziamento dei bisogni umanitari in tutta la Siria settentrionale, sottolineando le difficoltà di accesso alle cure per milioni di persone
Se è vero che la sopravvivenza di una società che ha ispirato le sinistre di tutto il mondo è legata a doppio filo al sostegno di un presidente di estrema destra negli Stati uniti, la carovana nel Nord-Est della Siria ha ricordato che le persone che abitano e amministrano la regione hanno voci, soggettività e posizioni politiche proprie.

È ancora tutto possibile
Il posizionamento della Daanes, anche ai suoi vertici, a favore della parità di genere, non può essere relegato, per esempio, a un dettaglio. Il sistema di co-rappresentanza in vigore nella Nes, in cui le principali cariche pubbliche sono condivise equamente tra uomini e donne, è probabilmente il punto più avanzato nella realizzazione del progetto del confederalismo democratico, ispirato alle teorie di Abdullah Ocalan e improntato a ideali di ecologia, democrazia dal basso ed emancipazione femminile.
D’altra parte, i segnali lanciati dal nuovo governo provvisorio di Damasco fanno paventare una restaurazione in senso patriarcale in tutta la Siria.
Pur invitando le donne qualificate a impegnarsi nella sfera pubblica, la nuova ministra della famiglia, Aisha al-Dibs, le ha scoraggiate dall’oltrepassare «le priorità della natura conferita loro da Dio» e invitate a riconoscere «il loro ruolo educativo all’interno della famiglia».
Le autorità di Damasco e quelle di Raqqa stanno negoziando un accordo politico, e i sostenitori del confederalismo democratico sperano in una soluzione che possa mantenere in piedi le istituzioni costruite nel Nord-Est della Siria.
«È cruciale – afferma Ciwan Aras, un’attivista ecologista incontrata a Qamishlo – cercare di diffondere le nostre idee sulle donne, le libertà e l’uguaglianza con le altre persone, e condividere l’esperienza fatta qui nel nord della Siria».
«Se credo che un dialogo con il governo di al-Sharaa sia possibile? – aggiunge – Sai, credo che, per ora, sia ancora tutto possibile».
Giulia Beatrice Filpi è giornalista freelance, scrive di Nordafrica, Asia occidentale, diritti e migrazioni.
3/1/2025 https://jacobinitalia.it
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