Viaggio in Kenya

Credits Lara Berthod

In Africa, l’Aids è ancora un rischio che compromette la salute di moltissime donne, le loro vite e la loro libertà. Il cambiamento parte da realtà come Tuinuke Na Tuendele Mbele, che combattono lo stigma della malattia promuovendo l’empowerment femminile e il dialogo. Un reportage dal Kenya

Sono trascorsi 43 anni dal 5 giugno 1981, quando per la prima volta venne individuata quella sindrome che poi si sarebbe chiamata Aids. 

Due pagine sul Morbidity and Mortality Weekly Report del Centers for Desease Control and Prevention (Cdc) di Atlanta: da quel giorno, l’Aids ha ucciso oltre 36 milioni di persone. Un numero che in Africa, dove tuttora la prevenzione è carente, aumenta anno dopo anno. 

Siamo andate in Kenya e ci siamo inoltrate nei suoi slum per il progetto Libere di viaggiare, che abbiamo ideato nel 2023 con l’obiettivo di creare una rete di connessioni tra viaggiatrici, che generi empowerment, supporto pratico e le condizioni per superare gli stereotipi di genere attraverso contenuti divulgativi e articoli di foto-giornalismo.

In un contesto come quello del Kenya, non si può non tener conto di uno dei fattori principali che influenza la diffusione della malattia: l’accesso all’istruzione. Senza equità sociale, infatti, non può esserci istruzione di qualità. Un rischio che compromette la salute di sette giovani su dieci nell’Africa Sub-sahariana: è la percentuale di donne che non sanno cosa sia l’Hiv. 

Non sono solo numeri, ma storie di donne. Storie come quella di Rosemary (nella foto sotto, ndr), madre di tre figli, che ha vissuto sulla sua pelle lo stigma della malattia e ha saputo trasformarlo in emancipazione. 

Rosemary
Credits: Libere di viaggiare/Lara Berthod

Della lunga conversazione che abbiamo avuto con lei ci è rimasto impresso un dettaglio in particolare: la sua volontà di emancipazione, che non è stata unicamente conseguenza dell’emarginazione, ma è nata insieme a lei. 

È un desiderio che si porta addosso. Ce l’ha inciso negli occhi quando racconta di essere stata una bambina che giocava a calcio con i fratelli con una palla di carta straccia, che cantava e ballava senza remore, che studiava con dedizione ma a cui è stato impedito di accedere alla scuola superiore. 

Le sue condizioni familiari, racconta, non le hanno permesso di vivere la vita che avrebbe voluto, ostacolata in primo luogo da un padre alcolizzato e violento, indirizzata ben presto verso il lavoro nelle coltivazioni di canna da zucchero e lontana dai libri, dalla scuola, dal perimetro della capitale Nairobi. 

In lei non si è fatta spazio la frustrazione, ma un puro sentimento di rivincita ed emancipazione. Dopo l’imposizione di un matrimonio combinato ha iniziato a lavorare come lavandaia e, ben presto, è rimasta incinta del primo figlio. Lei e il marito non erano però nelle condizioni di sostenere l’arrivo e la crescita di un bambino. 

L’attenzione e la cura non sono stati sufficienti, e, a distanza di due anni, Rosemary ha perso il suo bambino a causa di una grave malnutrizione. Una parte di lei si è spenta quel giorno, ci ha raccontato, ma alla fine è riuscita comunque a reagire. Negli anni successivi, dopo altre tre gravidanze, ha scoperto di avere l’Hiv. 

Era il 2004, e, come riporta l’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo (Aics), nella baraccopoli di Korogocho, dove Rosemary viveva in quel periodo, a causa della malattia le è stato persino impedito di utilizzare i bagni pubblici. 

In quel momento risuonava forte l’eco della conferenza di Durban, il primo congresso sull’Aids in Africa. Intitolato Break the silence, aveva avuto come tema proprio l’urgente necessità di rompere il silenzio sulla parità di accesso alle cure, su una prevenzione migliore e su un sostegno governativo all’istruzione. Ma si sa, il processo è lento e il cambiamento passa prima dalle azioni delle singole persone. 

La svolta, infatti, è arrivata nel 2005, quando, insieme ad altre quattro donne sieropositive, Rosemary ha dato vita all’associazione Tuinuke Na Tuendele Mbele – tradotto letteralmente dalla lingua kiswahili, “alziamoci e andiamo avanti”. 

Una realtà rivoluzionaria, che ha proposto fin da subito di affrontare le sfide sociali che colpiscono le madri sieropositive, soprattutto negli insediamenti come lo slum di Korogocho. 

L’obiettivo è quello di migliorare il tenore di vita delle donne attraverso l’istruzione e la creazione di attività generatrici di reddito, con la missione di potenziare e stimolare lo sviluppo economico fornendo supporto istituzionale alle comunità locali, provando così a garantire una vita migliore per ogni donna e adolescente a Korogocho. 

Abbiamo incontrato Rosemary, e ci ha raccontato di come, a distanza di vent’anni, il contesto socio-culturale in cui si è fatta spazio Tuinuke Na Tuendele Mbele non sia cambiato poi così tanto: “c’è più consapevolezza, ma resta ancora forte l’influenza degli anziani della chiesa, quindi la libertà di scelta è limitata” ha commentato Rosemary.

“Tuinuke è stata creata per dare alle donne sieropositive un luogo in cui potersi informare, per dare loro una voce e un posto dove poter lavorare con piacere, combattendo lo stigma e la discriminazione, ma soprattutto per essere economicamente responsabili in famiglia”. 

Come spiega il Journal of Acquired Immune Deficiency Syndrome (Jaids), per ridurre il rischio di trasmissione di infezione da Hiv dalla madre al figlio è necessaria una più ampia integrazione dei servizi di pianificazione familiare, di salute materna e infantile e nei servizi di salute riproduttiva.

Il contrasto alla povertà, l’accesso all’istruzione, il supporto alla progettualità personale e l’emancipazione sono elementi fondamentali, perché stiamo parlando di una realtà in cui la logica della famiglia allargata e della vita comunitaria incidono enormemente sulla libertà personale, e dove l’accesso all’istruzione – proprio come nel caso di Rosemary – non è certo agevolato per le donne e le ragazze. 

Soprattutto nei contesti rurali, restano bassi i livelli di consapevolezza dei propri diritti, e le donne continuano così a essere relegate alla vita domestica, ai ruoli di cura e a quelli riproduttivi. 

La tradizione incide molto sul processo di emancipazione femminile. Per questo, progetti come quello di Tuinuke sono fondamentali per dare una nuova interpretazione ai ruoli sociali delle donne e per supportare la progettualità personale. 

Tuinuke Na Tuendelee Mbele
Credits: Libere di viaggiare/Lara Berthod

“Quando una donna riceve informazioni e conoscenze può compiere scelte consapevoli” ci ha detto Rosemary “e credo che questo sia ciò di cui la maggior parte delle donne ha bisogno. Con Tuinike stiamo cercando di fare del nostro meglio per soddisfare questo bisogno fondamentale per le donne”. 

Tuinike non è solo un’associazione, infatti, ma un vero e proprio business: Rosemary, con un progetto dell’Organizzazione della società civile (Osc) ha imparato a cucire e a lavorare la stoffa e ha iniziato a insegnare ad altre donne l’arte del cucito. 

La sartoria di Tuinuke Na Tuendelee Mbele offre alle donne sieropositive e alle giovani madri l’opportunità di creare prodotti artigianali per la vendita. Le donne coinvolte nel progetto si incontrano nella sede dell’associazione, dove lavorano insieme per cucire tessuti, realizzare collane di perline e altri oggetti artigianali. 

Una giornata tipica inizia con una riunione del gruppo, durante la quale vengono discusse le attività da svolgere e assegnati compiti specifici. Le donne lavorano poi individualmente o in gruppi e, durante il processo, hanno l’opportunità di condividere le proprie esperienze sostenendosi a vicenda, creando un ambiente di supporto e solidarietà. 

Alla fine della giornata, i prodotti finiti vengono esposti per la vendita o distribuiti ai clienti, contribuendo così al reddito dell’associazione e delle sue socie. 

Tuinuke
Credits: Lara Berthod

Il nostro viaggio non si è concluso in sartoria, ma la percezione sulle disparità di genere non è tanto diversa anche in altre aree del Kenya. 

A Mombasa, con Libere di viaggiare abbiamo incontrato Amica, che ha confermato come, ancora oggi, lo stigma sull’Hiv allontani molte persone dai centri di cura: “non c’è un vero programma nazionale, ma ci sono donne che personalmente si assumono la responsabilità di fare informazione e prevenzione nelle nostre scuole”. 

Amica percepisce una forte scissione tra legge formale e pratiche culturali, che emerge soprattutto nel mondo del lavoro: lei è una DJ, e la discriminazione la colpisce in prima persona. 

“Gli uomini non ammettono che tu abbia opinioni: spesso opprimono la libera scelta, favoriscono la carriera dei figli maschi e osteggiano l’emancipazione femminile” spiega Amica, che aggiunge come ancora oggi ci sia disparità anche all’interno del sistema scolastico. 

Ci sono tuttavia alcune eccezioni, come il villaggio matriarcale di Umoja, esempio di resilienza e determinazione dove viene offerto un rifugio sicuro alle donne che hanno subito violenze e discriminazioni. 

Dalle esperienze che abbiamo incontrato emerge una percezione della tradizione come riflesso della volontà maschile, che trattiene le donne soffocandone i diritti fondamentali. 

Storie come quella di Rosemary sono rivoluzionarie, ma altrettanto lo sono le parole. In Africa orientale, la poesia popolare ha fornito un mezzo attraverso il quale le comunità hanno elaborato il trauma dell’Hiv e dell’Aids, offrendo testimonianze dirette delle sue devastanti conseguenze e contribuendo alla comprensione e alla gestione della malattia nella vita quotidiana. 

L’arte è un potentissimo strumento di sensibilizzazione e la poesia è stata utilizzata come mezzo di comunicazione e negoziazione sociale, rendendo il discorso sulla malattia più accessibile e rilevante per la comunità locale. 

Le parole e il dialogo continuano dunque a essere strumento per superare lo stigma. Per questo, viaggiare ci sembra fondamentale per costruire una rete di scambio di conoscenze, per creare una connessione tra donne che vada oltre i confini di un singolo paese, e per ricordarci che essere libere di viaggiare porta con sé la necessità di condividere questa stessa libertà, insieme a esperienze e conoscenze, in un’ottica di decolonizzazione del modo in cui guardiamo il mondo. 

Note

Libere di viaggiare è una community che fornisce alle viaggiatrici uno spazio sicuro e d’ispirazione, nata da un’idea di Nicole Pizzolato, archeologa, Lara Berthod, ingegnera e fotografa, e Martina dal Pozzo, studentessa in Massoterapia a Monza e proprietaria di un’azienda agricola ad Asiago.

di Alessia TaglianettiLara Berthod

12/9/2024 https://www.ingenere.it/

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