Welfare aziendale e finanziamenti privati per l’edilizia sanitaria

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Due notizie di questi giorni, magari non molto rilanciate tramite un minimo di dibattito pubblico, rendono l’idea di quanto stia avanzando la “grande trasformazione” economico sociale in Italia. Non siamo, per essere chiari, alle suggestioni di Karl Polanyi che vedeva in questa un riappropriarsi di spazi della società sulle logiche di mercato autoregolato, siamo semmai al loro esatto rovesciamento.

Le notizie dunque: da una parte l’annuncio in grande stile dell’alleanza con soggetti privati per la costruzione della nuova “Città della Salute a Torino”, dall’altra l’avanzamento del cosiddetto welfare aziendale a sostituzione degli aumenti delle remunerazioni nella contrattazione di secondo livello per lavoratrici e lavoratori.

Sono stati direttamente l’Assessore alle politiche sanitarie Antonio Saitta e il Presidente della Regione Piemonte Sergio Chiamparino ad annunciare la nuova strategia per poter finalmente costruire la nuova cittadella della salute a Torino. Si tratterà, finalmente, di una struttura all’avanguardia che terrà conto di diverse esigenze quali la cura, ma anche lo studio, la ricerca e l’innovazione nella produzione industriale. Non a caso i rappresentanti confindustriali hanno insistito, proprio in questo periodo, sulla necessità della presenza di incubatori. Come è subito evidente il ruolo del pubblico deve disporsi ad un ruolo attivo per poter attirare, nella competizione tra aree del Paese e dei mercati in generale, nuovi produttori con condizioni generali ritenute valide dai produttori stessi che si preparano a dettare le loro leggi in un regime di governance. Costruire strutture di questo genere ha naturalmente costi elevati, ma questo non è più un problema per Chiamparino e Saitta visto che attraverso il progetto di fattibilità sono convinti di strappare circa 240 milioni dal ministero, mentre dichiarano che in ogni caso sarà il privato ad avere un ruolo fondamentale per reperire in tempi non biblici ingenti risorse per portare a termine il tutto. Non è una novità, anche in passato le tecniche del project financing hanno fatto il loro esordio sotto l’egida di amministrazioni di diverso segno politico. D’altro canto la “ricetta” è vecchia, se è vero che essa ha già avuto importanti sperimentazioni da più di vent’anni in giro per l’Europa. Si parlava (era l’epoca di Tony Blair in Gran Bretagna) della strategia delle 3P (Partnership Pubblico Privato), con quest’ultimo che forniva somme per l’ammodernamento, la ristrutturazione o la realizzazione di strutture in cambio di convenzioni ultraventennali per la gestione di servizi. E’ successo più volte che il privato non fosse in grado di gestire al meglio il servizio in convenzione e che dunque il pubblico fosse obbligato a integrare risorse aggiuntive… Vedremo come si definirà la questione a Torino, quali saranno le tecniche e i partner scelti (la Compagnia di San Paolo morde il freno), quello che si sa è che il modello dovrebbe essere generalizzato ad ulteriori realizzazioni di edilizia sanitaria.

La difficile trattativa, al momento arenata, tra sindacati e parti datoriali intorno ai contratti segnala invece un altro possibile varco per l’inserimento stabile del settore privato nel sistema welfaristico e della salute nel nostro Paese; un vero e proprio schema di costruzione del famoso “secondo pilastro” del welfare di cui si parla da tempo. L’ipotesi confindustriale è semplice: spostare la contrattazione dal livello nazionale a quello decentrato e, su questo, assicurare aumenti monetari solo a chi sta sotto i minimi nazionali. Per gli altri solo misure di welfare aziendale (ulteriori pezzi di previdenza integrativa, polizze, assicurazioni sanitarie, ecc.). Chi fa una proposta di questo genere sa che può contare su diversi punti di forza che sono stati costruiti con l’aiuto dello Stato, della politica, e che sono in qualche modo resi oggettivi, evidenti e “internalizzati” nel calcolo di ogni cittadino. L’esempio principe è dato dalle politiche di bilancio come elementi di disciplinamento: i continui richiami restrittivi con riflessi enormi su sanità, assistenza, istruzione sono dovuti, bisogna farci realisticamente i conti perché le risorse sono finite a causa di una gestione oggettivamente irresponsabile. Ogni cittadino deve essere al contrario responsabile nel suo continuo calcolo di costi e benefici in una società piena di rischi. La copertura di questi ultimi non può più essere solidaristica e ognuno si deve attrezzare (dagli allarmi fuori di casa sino alle polizze dei più svariati tipi…). In questo contesto, con questa soggettività così plasmata, lo Stato interviene ulteriormente (altro che Stato assente, che si ritira in nome del laissez-faire… ) per facilitare l’interesse dell’operatore privato (sono tutti pronti dalla Compagnia delle Opere, a Confcooperative, gruppi finanziari, fondazioni). La prova lampante è lo sgravio fiscale di diverse centinaia di milioni garantito dall’ultima legge di stabilità di Renzi a favore, appunto, delle aziende che introdurranno la nuova misura di welfare. Lo sgravio fiscale è vantaggioso per l’imprenditore rispetto allo schema di aumento pecuniario in busta paga e allo stesso tempo aggrava la crisi fiscale dello Stato; un meccanismo infernale che si autoalimenta e che chiederà sempre ulteriori “gesti di responsabilità”. Più che con la responsabilità (che si vuole definitivamente introiettata) le persone  hanno avuto a che fare con la loro sofferenza sempre maggiore anche e forse soprattutto quando si parla di salute e assistenza. Come ha recentemente ricordato l’attento e utile sito di “Controlacrisi.org”, dai dati raccolti da una recente indagine del Censis emerge che il 53,6% degli italiani ha la sensazione che la copertura pubblica dello stato sociale si sia ridotta e che questa riduzione sia stata ampiamente compensata dalla spesa privata (52,8%). I tagli alle politiche di welfare degli ultimi anni hanno quindi prodotto una maggiore esposizione finanziaria delle famiglie che ha prodotto, di conseguenza, un aumento delle disuguaglianze sociali: si calcola, ad esempio, che 9 milioni di persone abbiano rinunciato alle cure sanitarie perché non potevano permettersi alcune prestazioni specialistiche.
Il volume complessivo della spesa per i servizi sanitari è di circa 32 miliardi di euro l’anno, (di questi 8/9 miliardi vengono spesi da 1,3 milioni di anziani per le badanti): una voce di bilancio sentita fortemente dal 71,5% delle famiglie. A gravare particolarmente sul budget sono principalmente il pagamento di ticket per farmaci e visite specialistiche (34,3%) e accertamenti diagnostici interamente a proprio carico (20,3%). Se il servizio di assistenza sociale dello stato non riesce più a soddisfare i bisogni dei cittadini, questi cercano modi alternativi per ottenere le stesse prestazioni, affidandosi sempre più spesso al “mercato nero” (32,6%). Insomma se lo Stato non c’è più a garantire prestazioni universali, le persone si arrabattano a cercare “una qualche soluzione”. La scelta verso il privato, l’integrativo, non è più tanto una scelta autonoma tesa a ricercare prestazioni aggiuntive, ma un passo “disordinato” tra mille strategie di possibile sopravvivenza. Chi ha ancora un lavoro può persino sentirsi fortunato, perché questo gli dà la possibilità di accesso a misure di welfare a esso connesso. E’ questa la tragica architettura che avviluppa anche la trattativa sindacale in corso. Per smontarla occorre una lotta complessiva tesa a rivendicare un’altra razionalità sociale, basata sul rilancio delle condotte egualitarie e solidaristiche di un welfare pubblico per cui le risorse ci sarebbero se non venissero dissipate sull’altare della speculazione, di una fiscalità ingiusta, di una evasione stratosferica.

Alberto Deambrogio

18 gennaio 2016

Pubblicato su www.lavoroesalute.org

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