IL LAVORO DELLE DONNE NELLA CRISI

Nonostante le condizioni delle lavoratrici restino peggiori di quelle dei lavoratori per salario, sottoccupazione e sovraistruzione, la crisi ha paradossalmente ridotto il gap gender.
Nel periodo 2007/2014 il tasso di occupazione maschile è passato dal 70% al 64% mentre quello femminile si è mantenuto più o meno stabile dal 46,6% pre crisi al 46,2%.
Nessun paradosso e nessun miglioramento del lavoro delle donne, semplicemente la condizione di lavoro maschile peggiora più di quella femminile.
È l’effetto dell’approfondimento del fenomeno di femminilizzazione del lavoro; la progressiva riduzione del lavoro, nel suo complesso, a condizioni di precarietà e di assenza di diritti che ha caratterizzato tradizionalmente il lavoro femminile.
Le donne continuano ad essere parte di quell’esercito di riserva del mercato del lavoro e la svalutazione delle loro mansioni continua ad essere funzionale a tenere bassi i salari e i diritti di tutta la classe lavoratrice.
La tenuta dell’occupazione femminile negli anni della crisi è sostanzialmente dovuta alla crescita delle occupate straniere; a quelle donne che entrano nel mercato del lavoro a seguito della disoccupazione del partner e alle over 50 costrette al lavoro dall’allungamento dell’età pensionabile. È proprio nella fascia delle ultra 50enni che cresce maggiormente l’occupazione che invece diminuisce nella fascia 15-34.
Una tenuta che si associa ad un drammatico peggioramento della qualità del lavoro, attraverso la diffusione del part time involontario che già nel 2012 era schizzato ad oltre il 54% rispetto al 38% dell’inizio della crisi. Una situazione che accomuna l’Italia ai Paesi più duramente colpiti dalla crisi e sottoposti alle politiche di austerità dell’Unione Europea: Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna; i famigerati PIIGS.
La crisi economica ha ridisegnato il mercato del lavoro sviluppando forme di lavoro atipico e non stabilizzate, dove maggiore è la percentuale delle donne.
La bassa valorizzazione delle competenze e la segregazione occupazionale che caratterizzano il lavoro femminile spiegano la disparità salariale che per le donne si traduce in una retribuzione mensile inferiore di circa il 20% a quella degli uomini.
Le donne, insomma, lavorano di più ma in condizioni peggiori e per stipendi più bassi.
Senza contare che in Italia, paese ad alto tasso di welfare familistico, la mancanza di garanzie nel mercato del lavoro, di servizi di sostegno al reddito e le politiche di privatizzazione dei servizi pubblici perpetuano una cultura della donna come unica responsabile della cura di anziani e bambini.
Se, dopo quasi un decennio di crisi, la linea che separa la classe media e i working poor dalla povertà assoluta si è notevolmente assottigliata per tutti, sono però le donne, soprattutto madri single e con bassi livelli di istruzione e prevalentemente al sud, che ingrossano le fila della vulnerabilità economica verso la povertà e l’indigenza.

Sarà quindi e ancora, un 8 marzo di lotta quello dell’Unione Sindacale di Base, con tante mobilitazioni delle donne in diversi settori e città, per restituire a questa giornata il suo senso più pieno e originario.
A Roma e Milano le manifestazioni delle donne del commercio, uno dei settori a più alto tasso di sfruttamento; a Roma, anche, la manifestazione interregionale delle lavoratrici in appalto impegnate nelle pulizie delle scuole, in sciopero per l’intera giornata per rivendicare la stabilizzazione e la reinternalizzazione del servizio; al terminal 3 di Fiumicino un flash mob contro il sessismo e le discriminazioni delle lavoratrici dell’Aeroporto; sempre a Roma, nel pomeriggio, un’assemblea aperta alla cittadinanza delle lavoratrici dei nidi e delle scuole d’infanzia contro la privatizzazione e il licenziamento delle lavoratrici precarie.
L’8 marzo per noi continua ad essere una giornata in cui le donne saranno protagoniste delle proprie lotte, per affermare che non ci siamo per nulla rassegnate e siamo pronte al conflitto in ogni settore del mondo del lavoro.

7/3/2016 www.usb.it

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