Il genere al tempo del COVID-19
Nell’era del COVID19 la provenienza geografica, il genere[1] e la classe sociale hanno rappresentato fattori determinanti nell’aumento di disuguaglianze, discriminazioni e carenze di opportunità. Nella totale incertezza in cui ci siamo trovati a vivere le cose sicure sono rimaste quelle non monetizzabili e quelle che avremmo voluto vedere scomparire: le disparità, le ingiustizie, il non rispetto dei diritti fondamentali nell’emergenza sono diventati di fatto superflui, irrilevanti. Tuttavia dare tutta la colpa a un virus può solo condurci nella rotta di Acab… mentre è fondamentale mantenere una visione nitida su cosa la pandemia ha messo in luce: le strutture sanitarie, sociali e lavorative in cui le nostre esistenze si muovono, sono composte – già prima del Covid19 – di sempre più ampie differenze di diritti e opportunità di accesso a seconda del genere, della “razza” e della classe delle persone.
Nell’osservare cosa sia accaduto al “genere” ai tempi del COVID19 , il lavoro è l’ambito che più mostra quali discriminazioni e differenze di opportunità l’universo femminile si trova a vivere ogni giorno. Sappiamo infatti che il tasso di occupazione femminile in Italia è il 50% rispetto all’occupazione maschile del 68%, con una differenza di circa 18 punti. Sappiamo anche che il 27% delle donne lascia il lavoro già al primo figlio, mentre al primo figlio il 40,9% chiede un part time perché il lavoro di cura è tutto sulle sue spalle. Dopo la fase 2 del COVID19 molte persone sono tornate al lavoro, di queste il 72% è composto da uomini mentre il restante 28% se ha ripreso a lavorare da casa è costretta ad adattarsi al modello di lavoro paradossalmente definito intelligente, il cosiddetto smart work.
Un’indagine condotta dall’associazione Orlando di Bologna, di cui offriamo una sintesi, ha dato voce a donne di età compresa fra i 19 e i 65 anni che vivono in Italia, cercando di focalizzare le problematiche causate dal COVID19. Attraverso un questionario anonimo diffuso online sono stati toccati temi come le condizioni abitative, familiari e lavorative. Ne è uscita un’immagine nitida della situazione attuale. I risultati dell’indagine, elaborati dal Centro di Ricerca Digital Fems di Barcellona, saranno, a conclusione dell’analisi, messi a disposizione delle Istituzioni.
La situazione del lavoro, con il tema della violenza alle donne, sono due ambiti chiave per capire cosa sta accadendo alla popolazione femminile in Italia. L’indagine dell’associazione Orlando, attraverso un’intervista che ho fatto di recente alla sua presidente Giulia Sudano e alla ricercatrice Valentina Bazzarin, costituisce credo una buona base per le amministrazioni pubbliche utile per scegliere quali politiche e quali interventi adottare ai tempi del COVID19.
A febbraio di quest’anno, l’Istituto Nazionale di statistica[2] aveva pubblicato uno studio sulla situazione occupazionale della popolazione femminile con dati molto preoccupanti che a una prima lettura potevano anche non risultare tali. Si legge infatti che il divario di genere negli ultimi 40 anni è nettamente diminuito da 41 a 18 punti. La fotografia scattata dall’ISTAT si apre quindi con valori positivi che vengono rafforzati da aspetti come la maggiore resilienza delle donne a sostenere i periodi di crisi economica vissuti in Italia, prima del febbraio 2020, o come il livello di istruzione sia stato lo strumento con cui le donne hanno saputo superare tali periodi di crisi.
Tutto bene quindi, si potrebbe dire: la nostra presenza nel mondo del lavoro è migliorata e siamo al 75,3% di donne laureate e occupate. In realtà, se andiamo a vedere cosa dice l’analisi fatta poche settimane prima dell’arrivo mediatico del COVID19, notiamo che rispetto al lavoro, al carico di lavoro familiare e ai livelli di istruzione la situazione è molto preoccupante. Perché se è vero che siamo la maggioranza di laureate o dottorate, quelle di noi che trovano lavoro dopo i sei anni successivi al conseguimento del titolo di dottore sono ancora una percentuale inferiore a quella maschile. A questo si aggiunge, sempre dal rapporto dell’ISTAT, che se il dottorato risulta essere un titolo che consente una maggiore occupazione, tale occupazione per le donne è sinonimo di precarietà, di non inquadramento nel settore lavorativo corrispondente e di un divario medio nella retribuzione mensile di 313 € a favore degli uomini. In merito agli altri aspetti che fanno della condizione delle donne nel lavoro un elemento di squilibrio sostanziale, la conciliazione dei tempi di cura e il carico di lavoro familiare costituiscono l’altro dato allarmante. Fra questi un dato curioso è stata la risposta fornita dagli uomini in merito alla cura dei figli, ovvero la maggioranza degli intervistati è consapevole che la cura dei figli costituisce un fattore problematico e che, a questa percentuale di uomini “alfabetizzati”, non corrisponde una pratica altrettanto consapevole che riguarda gli aspetti di cura del nucleo. Si legge infatti che, sebbene sia gli uomini che le donne riportino il fattore “conciliazione dei tempi” come un aspetto di criticità nel lavoro in presenza di un minore, sono solo le donne, con il 38,3%, ad aver fatto richiesta di modifica della propria posizione contrattuale contro l’11% della popolazione maschile.
Arrivando all’oggi, notiamo che la situazione delle donne a causa della pandemia si è terribilmente aggravata[3] e l’analisi svolta dall’ISTAT a febbraio 2020, oltre a mostrare le tante discriminazioni e disparità presenti nelle politiche del lavoro, evidenzia una totale assenza delle Istituzioni nella presa in carico di tali criticità. Perché se a una parte della popolazione, le donne, che corrisponde a più della metà dei cittadini, non sono date – in tempi “normali” – le stesse opportunità e diritti, in momenti di crisi profonda come quella che il corona virus ci ha portati a sperimentare, dovrebbe essere logico prevedere misure di sostegno che vadano a sopperire alle già presenti e sostanziali disparità fra uomini e donne. Questo invece non sembra essere avvenuto e se ancora non vi sono state analisi o semplici letture delle situazioni di difficoltà in cui le donne si sono trovate a vivere nei mesi trascorsi, sicuramente la obbligata reclusione all’interno delle mura domestiche ha messo in luce un altro problema: quello della violenza sulle donne. Negli ultimi mesi del 2019, era stato pubblicato un rapporto curato da ACTIONAID sullo stato dei finanziamenti governativi a favore dei centri anti-violenza. Dal rapporto, si legge che oltre al ritardo nel versare le risorse alle Regioni da parte del Governo, vi è stata una difficoltà delle Regioni stesse nello spendere le risorse che gli erano state allocate. Il monitoraggio mostra anche che nel 2019, a conclusione della lettura fatta da ActionAid, non risultava ancora emanato il Decreto del Presidente del consiglio dei Ministri per la ripartizione dei fondi[4].
Di seguito riporto l’intervista a Giulia Sudano, presidente di Orlando, svoltasi a fine maggio 2020.
Come è nata l’idea di questa indagine?
L’indagine è nata all’inizio della fase 1 dalla volontà di comprendere da un punto di vista di genere gli impatti dell’emergenza Covid19 sia sulle condizioni abitative, familiari, lavorative e sul lavoro di cura, sia di condividere i risultati con le Istituzioni per favorire l’elaborazione di politiche più efficaci. Durante i primi giorni della pandemia è stato subito evidente che l’emergenza avrebbe aumentato il rischio di contrarre il virus e il carico di lavoro sulle spalle delle donne impegnate nei lavori di cura sia nel tempo di lavoro che in quello familiare. Immaginavamo che anche in questa emergenza le donne sarebbero state quelle più colpite dalla crisi economica. Con questa indagine volevamo scattare una fotografia del cambiamento e sollecitare le istituzioni da subito ad impegnarsi per contrastare l’acuirsi delle numerose discriminazioni di genere già presenti nel nostro paese.
A chi è venuta l’idea del questionario?
Negli ultimi anni, un gruppo di lavoro dell’Associazione Orlando insieme a partner esterni si è attivato per segnalare alle istituzioni la necessità di produrre dati di genere o di disaggregare per genere i dati demografici già in loro possesso. Per esempio, uno sguardo di genere ci rivela che la popolazione femminile nelle nostre città non è distribuita in modo omogeneo e che tendenzialmente nei quartieri con un basso reddito pro capite medio vivono più donne. Anche l’accesso ai mezzi pubblici, in determinate fasce orarie, è correlato al genere e una corretta programmazione delle corse passa anche attraverso la conoscenza di questo dato. Purtroppo in Italia siamo ancora lontani dall’avere dati di genere aperti e di qualità, ma non ci siamo scoraggiate e ci siamo rimboccate le maniche per disegnare un questionario che ci permettesse di raccogliere dei dati per comprendere quello che stava accadendo durante il lockdown. Non abbiamo interrotto la nostra azione di advocacy sul tema dei dati di genere nei confronti delle istituzioni, ma l’abbiamo integrata con un primo questionario quantitativo e qualitativo durante l’emergenza, che si inserisce all’interno di un percorso politico già avviato dall’associazione. I dati svolgono un ruolo fondamentale per la comprensione dei fenomeni e in questa emergenza abbiamo ritenuto ancora più importante attivarci per indagare e far emergere le diseguaglianze di genere.
Perché analisi collaborativa? Puoi spiegarci che cosa ha significato?
L’analisi collaborativa è in sintonia con l’approccio partecipativo che caratterizza gran parte delle attività culturali della nostra associazione ed è funzionale all’obiettivo politico di questa indagine. Mi spiego, con il questionario e tutte le altre azioni che portiamo avanti con l’associazione Orlando abbiamo l’ambizione di creare, dal basso, consapevolezza sulla situazione delle donne nelle città come viene descritta dai dati oltre che dalle esperienze e dalle testimonianze, e nel promuovere in collaborazione con le istituzioni, quindi con il livello decisionale, un’agenda politica delle donne attraverso i dati. I dati verranno poi rilasciati in forma aperta e in creative commons grazie alla disponibilità della ONG Catalana Digital Fems, che ha creato il deposito di dati di genere chiamato Gender Data Lab. La condivisione permetterà di rendere questi dati dei “beni comuni” da poter studiare e correlare per far emergere tutte le informazioni contenute al loro interno.
Come avete scelto il partner che si è occupato dell’indagine? Avevate già collaborato con loro per altre indagini di questo tipo?
Il rapporto con Digital Fems nasce a novembre del 2019, quando l’Associazione Orlando è stata invitata sul palco del progetto Sharing Cities durante lo Smart City World Congress a Barcellona. Avevamo organizzato durante l’Open Data Day del 2018 un incontro per produrre dati di genere a Bologna e, grazie alla collaborazione del Comune di Bologna, siamo riuscite ad ottenere nella sezione relativa ai dati aperti una prima fotografia della città. Abbiamo scoperto di essere state tra le prime al mondo e siamo state invitate a Barcellona per presentare questa esperienza.
Quanto tempo ci è voluto per creare il questionario? Che metodologia avete utilizzato? Che dati interessanti sono fuori usciti?
Il questionario è stato disegnato e distribuito in pochissimi giorni, ma il suo successo è andato molto al di là delle nostre aspettative. Era molto lungo, ma le donne evidentemente sentivano il bisogno di raccontarsi. Hanno iniziato a compilarlo 4000 persone e la maggior parte di loro lo ha terminato. Continuavano ad arrivare decine di risposte ogni giorno e quindi abbiamo deciso di lasciare il questionario online per quasi un mese invece che per i 15 giorni che avevamo ipotizzato inizialmente. I dati interessanti sono molti e stiamo organizzando un gruppo di lavoro, anche questo aperto, per analizzarli. Una evidenza preoccupante emersa è determinata dal fatto che le donne, nella fascia d’età compresa tra i 18 e 60, dichiarano di avere redditi inferiori ai 25.000 euro annui (il 46% percepisce meno di 15.000 euro l’anno). Una condizione di povertà economica già nota e marcata prima dell’emergenza, e aggravata peraltro dal dato che un 88% dei/delle rispondenti non riceve nessun supporto statale come, ad esempio, legge 104, bonus bebè, reddito di cittadinanza. Il questionario ha registrato anche che per il 60% di esse si è determinato un aumento del carico di lavoro domestico sia per l’accudimento di figli/e, anziani/e in casa, persone non autosufficienti, sia per le attività quotidiane di lavoro casalingo (spesa, preparazione pasti, pulizie di casa, lavatrici, stirare) e che per coloro che condividono la casa con altre persone. La rilevazione ha voluto indagare anche gli aspetti considerati positivi del blocco/isolamento forzato. Ci ha piacevolmente colpito che il 29% delle persone intervistate ha considerato che il minor inquinamento atmosferico è l’aspetto positivo dell’isolamento. Le persone hanno percepito quanto l’inquinamento e il cambiamento climatico siano aspetti fondamentali da risolvere per la salute pubblica.
Ci sono delle raccomandazioni che vuoi fare alle amministrazioni pubbliche interessate a investigare questo tema ancora in essere?
Con questa rilevazione il nostro obiettivo è stato quello di raccogliere ed elaborare dati da presentare alle istituzioni, in particolare al Comune di Bologna e alla Regione Emilia-Romagna, utili per sviluppare politiche e azioni efficaci rispetto alle discriminazioni di genere, già preesistenti l’emergenza, con uno sguardo attento alle implicazioni future dell’attuale crisi. Durante l’estate procederemo alla pubblicazione dei dati specifici sul nostro sito www.women.it e su https://genderdatalab.thedata.place/. Da settembre vorremmo lanciare delle nuove indagini su temi specifici per capire quali bisogni e necessità emergeranno nel medio periodo a causa dell’emergenza, per esempio le conseguenze dello sblocco dei licenziamenti a fine luglio.
Di recente, ho ripreso in mano un testo cardine della mia formazione, quello di Angela Davis su Donne razza e genere. Nel suo testo Davis mostra come le oppressioni razziali, di genere e di classe sono forme di violenza collegate fra di loro. Anticipatrice del concetto di intersezionalità, termine caro ai movimenti femministi contemporanei, nel suo ultimo lavoro, Davis ci dice che “Il femminismo implica molto di più che non la sola uguaglianza di genere. […] Deve implicare una coscienza riguardo al capitalismo, al razzismo, al colonialismo, ai post-colonialismi e all’abilità, e una quantità di generi più grande di quanto possiamo immaginare, e così tanti nomi per la sessualità che mai avremmo pensato di poter annoverare”. A mio avviso, tale coscienza è quello di cui abbiamo bisogno di questi tempi. Ci è necessaria per andare oltre e per smettere di pensare che andrà tutto bene, perché tutto bene non andava già prima del COVID19 e adesso è chiaro che dobbiamo cambiare rotta.
[1] Con il termine genere intendo tutte quelle identità di genere che non corrispondono alla sola caratteristica binaria oppositiva M/F.
[2]Sabbadini Laura, Misure a sostegno della partecipazione delle donne al mercato del lavoro e per la conciliazione delle esigenze di vita e di lavoroAA.C. 522, 615, 1320, 1345, 1675, 1732, 1925, XI Commissione Lavoro pubblico e privato Camera dei deputati Roma, 26 febbraio 2020. Disponibile qui: https://www.istat.it/it/files/2020/02/Memoria_Istat_Audizione-26-febbraio-2020.pdf
[3]https://www.internazionale.it/reportage/annalisa-camilli/2020/04/27/donne-lavoro-fase-2-italia
https://ilmanifesto.it/cura-e-violenza-al-tempo-del-coronavirus/
https://ilmanifesto.it/uomini-e-donne-tra-cura-e-conflitto/
[4] Orfano Isabella (a cura di) per ActionAid, Trasparenza e Accountability, Monitoraggio dei fondi Statali antiviolenza 2019, Ottobre 2019, Roma
a cura di Chiara Mellini
Associazione Corrente Alternata
9/7/2020 https://www.attac-italia.org
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