Coloro che restano: le famiglie dei lavoratori migranti uccisi in Arabia Saudita
Non sappiamo ancora esattamente quanti lavoratori migranti siano morti in Arabia Saudita, mentre lavoravano per i Mondiali del 2034, ma i numeri potrebbero rivelarsi tragicamente molto elevati. Le orribili violazioni dei diritti umani sono responsabilità delle autorità saudite e della FIFA, che sta violando i propri regolamenti e principi in materia di diritti umani, come recentemente affermato da un gruppo di avvocati internazionali.
Hanno presentato un reclamo all’organizzazione calcistica mondiale lo scorso 15 maggio, denunciando che “la scelta dell’Arabia Saudita come prossimo Paese ospitante impone ora alla FIFA, in conformità con la propria politica, l’obbligo di garantire che i diritti umani riconosciuti a livello internazionale siano rispettati in Arabia Saudita”. La lettera è stata firmata dagli avvocati Stefan Wehrenberg dalla Svizzera, Rodney Dixon dal Regno Unito e Mark Pieth, ex-consulente anticorruzione della stessa FIFA.
Ma gli incidenti mortali sul lavoro sono solo una parte di questa ingiustizia. I lavoratori migranti lasciano Paesi poveri come Nepal, Pakistan e Bangladesh per lavorare in Arabia Saudita; devono prima ripagare il debito contratto per ottenere il lavoro, e poi iniziano a inviare denaro alle proprie famiglie. Questo è un investimento enorme non solo per la loro vita, ma anche per quella di molti altri parenti, mogli e figli. Quando questi lavoratori muoiono, cosa succede alle loro famiglie? Cosa succede a coloro che restano?
La dura lotta per ottenere un risarcimento

Il 21 marzo, Pete Pattisson, Imran Mukhtar e Redwan Ahmed hanno raccontato sul Guardian la storia di Muhammad Arshad, un pakistano di circa 35 anni deceduto mentre lavorava allo stadio Aramco di Al Kohbar, e considerato il primo decesso ufficialmente collegato ai Mondiali del 2034. Arshad ha lasciato una moglie e tre figli di età compresa tra i 2 e i 7 anni: “Avrà un impatto duraturo sulle loro vite – ha dichiarato Muhammad Bashir, padre di Arshad – Il reddito di Arshad era la loro unica fonte di sostentamento“.
Tecnicamente, le leggi saudite prevedono che, in casi come questo, le famiglie debbano ricevere gli stipendi e i benefit rimanenti, e i datori di lavoro debbano anche pagare un indennizzo. Ma quasi sempre non è così semplice. Il 15 maggio 2025, Pattisson ha scritto ancora sul Guardian che una donna nepalese, Binita Das – il cui marito è morto lavorando in Arabia Saudita nel febbraio 2024, lasciandola con cinque figlie e un bambino neonato – aveva ricevuto da Riad solo un mucchio di documenti. Das vive in una delle regioni più povere del Nepal con i suoi sei figli, in una casa di bambù e fango, e la loro unica fonte di reddito è l’estenuante lavoro nei campi che la donna deve sopportare. “Ora sono l’unica persona che può prendersi cura di loro – ha detto – E se mi succedesse qualcosa?”.
Il giornalista britannico riferisce che ci sono molte storie come quella di Bitina Das. “I nomi cambiano, ma sembra emergere uno schema: le famiglie vengono informate della morte improvvisa di una persona cara da un collega, i dettagli sono spesso vaghi e contraddittori, c’è poco o nessun contatto da parte del datore di lavoro, segue una lunga e spesso infruttuosa lotta per ottenere un risarcimento e i certificati di morte forniscono pochi indizi su cosa sia realmente accaduto”. Generalmente, la morte dei lavoratori migranti è classificata come “naturale” dalle autorità saudite: ciò significa che non è previsto alcun risarcimento alle famiglie. Si tratta di morte “naturale” anche quando qualcuno collassa a causa delle dure condizioni di lavoro o cade da un’impalcatura.
Binita Das ha ricevuto un po’ di denaro solo dai colleghi del marito e da un’assicurazione in Nepal a cui l’uomo aveva versato i contributi. Circa una settimana dopo la morte di Muhammad Arshad, suo padre ha dichiarato di non essere ancora stato contattato direttamente dal datore di lavoro, la multinazionale belga Besix Group. Asa Devi Sah Teli, il cui marito 41enne è morto l’anno scorso dopo un collasso mentre lavorava in un cantiere, non ha ricevuto alcun risarcimento e ora lotta per sopravvivere con lavori occasionali nei campi, guadagnando 400 rupie al giorno (quasi 4 euro). Il marito di Anjali Kumari Rai è morto in Arabia Saudita nel maggio 2024, ucciso nell’esplosione in un veicolo in cui stava lavorando: lei è rimasta con due figli di 2 e 4 anni, e senza soldi per le cure contro il cancro che l’ha colpita.
Cosa possono fare le famiglie

Secondo le leggi saudite, Rai ha diritto a un risarcimento, poiché morire in un’esplosione non può essere considerato una morte “naturale” nemmeno nel Golfo. Eppure, la 24enne nepalese non è stata contattata né dal datore di lavoro del marito né dalle autorità saudite. Questa è la crudele realtà dietro i Mondiali del 2034 e il progetto Vision 2030: uomini che muoiono improvvisamente mentre lavorano all’estero, e donne e bambini che muoiono lentamente di fame in patria.
L’Organizzazione Generale Saudita per la Previdenza Sociale (GOSI) prevede un’assicurazione obbligatoria per i lavoratori, basata su un contributo salariale del 2%, e le famiglie di un defunto possono ricevere 84 mensilità di stipendio fino a un massimo di 330.000 riyal (più di 77.000 euro). Ma, come è stato detto, non funziona sempre così: il risarcimento del GOSI non copre le morti “naturali”, quindi le autorità saudite semplicemente possono non indagare in maniera approfondita gli incidenti sul lavoro. Anche quando le famiglie hanno diritto a un risarcimento, spesso si trovano ad affrontare “ostacoli e ritardi significativi”, come afferma una ricerca di Human Rights Watch pubblicata il 14 maggio 2025.
Un’altra possibilità sono i programmi di assistenza sociale locali, istituiti dai governi dei Paesi di origine, ma questi sono spesso condizionati a permessi di lavoro validi. Di solito, alla scadenza del permesso di lavoro di un lavoratore migrante, questi si ritrova senza denaro sufficiente per tornare a casa, quindi è costretto a rimanere in Arabia Saudita, cercando un altro lavoro e alla fine trovandone uno, ma non sempre ottenendo un nuovo permesso. Quindi, se muore, la sua famiglia non può avere diritto ad alcun tipo di risarcimento da parte del datore di lavoro, né delle autorità del Golfo, né del governo locale e delle assicurazioni.
Non è nemmeno facile riportare la salma del defunto nel suo Paese d’origine. Diversi testimoni hanno riferito a HRW che i datori di lavoro hanno fatto pressioni per seppellire i corpi in Arabia Saudita, invece di rimpatriarli. Le aziende promettono supporto se la famiglia accetta la sepoltura in Arabia Saudita, ma quando una vedova o un genitore rispondono di voler riportare a casa il proprio caro, il datore di lavoro spiega che dovranno sostenere da soli tutte le spese. Una donna del Bangladesh ha raccontato alla ONG di essere riuscita a riavere indietro il corpo del marito solo grazie all’aiuto dei suoi parenti e dei colleghi del marito, che le hanno prestato 5.000 riyal (1.176 euro).
I debiti, le spese famigliari e le responsabilità della FIFA

La morte dei lavoratori migranti in Arabia Saudita ha un impatto pesante sulle loro famiglie, sia a livello umano che economico. “Le persone faticano a ottenere le informazioni più basilari sulla morte dei loro familiari, affidandosi quasi sempre ai colleghi degli uomini deceduti”, sottolinea un’indagine di FairSquare pubblicato a maggio 2025. La ONG ha intervistato le famiglie di 17 uomini nepalesi di età compresa tra 23 e 57 anni deceduti in Arabia Saudita tra il 2023 e il 2024: nessuna di esse ha ricevuto un risarcimento in linea con la legge sul lavoro saudita, né era a conoscenza di questa possibilità.
I familiari di Arbind Kumar Sah non sono stati nemmeno informati dal datore di lavoro dell’uomo della sua morte, né erano a conoscenza di alcun risarcimento che potesse essere loro dovuto. La famiglia è fortemente indebitata con degli usuari locali: Bhikari, il padre 65enne di Arbind, ha dichiarato a FairSquare che lo vogliono costringere a vendere la sua piccola casa per estinguere il debito. Lo stipendio del defunto era l’unica fonte di reddito della famiglia, e la casa è la loro unica proprietà. “Se non riesco a pagare in fretta, rimarrò senza casa”, ha detto Bhikari.
I debiti sono un elemento ricorrente in queste storie. Anjali Kumari Rai, la donna con due figli e un cancro, deve restituire 1 milione di rupie (oltre 10.000 euro) agli usurai del suo villaggio, ma ha bisogno di soldi per le sue cure mediche. Ripagare i debiti e comprare da mangiare sono solo una parte delle spese che deve sostenere una famiglia: ci sono anche quelle per l’istruzione dei figli e, per chi ha figlie in una società patriarcale come il Nepal, per la dote nuziale.
Le organizzazioni per i diritti umani hanno esortato la FIFA a fare pressione sul governo saudita affinché garantisca migliori condizioni di lavoro nel Paese e risarcimenti alle famiglie dei lavoratori feriti o morti nei cantieri. La risposta inviata dalla FIFA a HRW il 18 aprile 2025 promette che queste misure saranno adottate a breve, ma non fornisce dettagli sulle modalità. Nel novembre 2024, la FIFA aveva già respinto la richiesta di risarcire i lavoratori migranti danneggiati durante i preparativi dei Mondiali del 2022 in Qatar, nonostante la richiesta fosse stata presentata da un suo stesso comitato.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato in inglese su The Beautiful Shame
Valerio Moggia
1/6/2025 https://pallonateinfaccia.com/










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