Decreto lavoro, ennesimo regalo alle imprese

Ecco perché le misure approvate il primo maggio dal consiglio dei ministri sono in perfetta continuità con le politiche degli ultimi trent’anni

Il 5 maggio è entrato in vigore il decreto lavoro varato dal governo Meloni, che nelle intenzioni dell’esecutivo dovrebbe rappresentare uno spartiacque nella storia recente del paese. Il provvedimento interviene su svariate materie: dai contratti a termine alla riduzione del cuneo contributivo per passare all’estensione dei voucher e alla cancellazione del Reddito di cittadinanza, sostituito da nuovi strumenti di contrasto alla povertà.

La scelta di inaugurare il decreto lavoro proprio il primo maggio testimonia la volontà della premier di polemizzare con i sindacati, usando i nuovi mezzi di comunicazione per contrapporre il produttivismo del governo alla lentezza delle organizzazioni dei lavoratori. In questo scenario, la seduta del Consiglio dei Ministri si è trasformata per l’occorrenza in un reality, aperto dalla campanella suonata da Giorgia Meloni, quasi a testimoniare l’esistenza di due paesi: l’uno dedito a risolvere i problemi dell’Italia, l’altro rivolto a bighellonare in piazza. Nonostante il forte investimento simbolico, il decreto sembra però un coacervo di misure già viste, i cui effetti sono stati fallimentari per le classi lavoratrici e per l’economia nel suo complesso.

Riduzione del cuneo contributivo e abolizione del Reddito di Cittadinanza

Entrando nel dettaglio non si registra alcuna novità rispetto all’impianto ideologico che ha ispirato le politiche del lavoro nell’ultimo trentennio, a partire dal provvedimento principe: la riduzione del cuneo contributivo. Nelle parole di Giorgia Meloni si tratterebbe di un provvedimento «storico» per proporzioni e per platea di beneficiari. In realtà, la riduzione della pressione fiscale e contributiva si inserisce in una traiettoria di lungo periodo, che ha visto succedersi governi di diversa collocazione politica, dal secondo governo Prodi (anno 2007) al governo Renzi per passare all’ultimo esecutivo guidato da Mario Draghi con effetti nulli sui redditi dei lavoratori e delle lavoratrici. Inoltre, la somma stanziata dal governo Meloni, 4 miliardi circa, è inferiore a quella mobilitata dai suoi predecessori (il costo annuo degli 80 euro di Renzi era di 10 miliardi, mentre il provvedimento del governo Draghi costò tra i 7-8 miliardi) e ha una prospettiva temporale limitata da luglio a dicembre di quest’anno. Basterebbe questo per ridimensionare la portata del provvedimento. Tuttavia, il punto dirimente consiste nella natura di una misura che verrà finanziata, da una parte, attraverso i tagli al welfare (la cancellazione del Reddito di cittadinanza) e dall’altra dalla fiscalità generale, ovvero dalle tasse degli stessi lavoratori e lavoratrici. Infatti, i contributi che non verranno versati dai lavoratori e dalle lavoratrici nelle casse dello Stato non saranno deducibili dal reddito dichiarato, dunque contribuiranno ad aumentare la base imponibile e quindi l’Irpef (imposta sul reddito delle persone fisiche). Tra le più classiche partite di giro.

La riduzione del cuneo contributivo va letta in relazione all’altro cavallo di battaglia del governo: l’abolizione del Reddito di cittadinanza. Il provvedimento simbolo del Movimento Cinque Stelle – che durante la pandemia, secondo i dati di Istat e Banca d’Italia, ha consentito a un milione di persone di non sprofondare nella povertà assoluta – viene superato da una misura che crea una discriminazione tra i soggetti in condizione di povertà assoluta. Il Reddito di cittadinanza non esisterà più per gli «occupabili», soggetti di età compresa dai 18 ai 59 anni che pur versando in condizione di povertà assoluta non hanno minori, anziani o disabili a carico, e secondo le stime ufficiali rappresentano un quarto dei percettori del Reddito di cittadinanza, circa 615 mila persone. Per loro il governo ha pensato a uno strumento per il lavoro, che consiste in un’indennità di appena 350 euro con una durata massima di 12 mesi e legata all’obbligo di frequenza a percorsi formativi. Per cui, se un beneficiario partecipa a un corso di formazione di due mesi, la durata dell’assegno sarà di soli due mesi. Inoltre, viene confermato l’obbligo di accettare qualsiasi offerta di lavoro su tutto il territorio nazionale. Per i nuclei familiari con minori, anziani o disabili l’assegno ammonta a 500 euro con una durata di 18 mesi e possibilità di proroga di un anno. 

In breve, il governo distingue i beneficiari in «meritevoli e non», arrogandosi il diritto di stabilire i confini tra chi è povero per necessità e chi è povero per scelta. Un giudizio ideologico, che esula da qualsiasi valutazione delle traiettorie di vita, dei contesti socio-educativi, della domanda di lavoro pubblica e privata, ma ambisce a identificare la povertà come esito di una responsabilità individuale. Il messaggio, neanche troppo velato, lega la disoccupazione a una scelta personale, negando il condizionamento di fattori di contesto nella determinazione del fenomeno. Ed è questa impostazione ideologica che giustifica lo smantellamento di un sistema di protezione sociale universale, giudicato come un costo che disincentiva la ricerca attiva del lavoro o nella lingua neoliberale l’attivazione (individuale) al lavoro. 

Se il welfare viene trasformato da diritto universale a sistema «premiale», categoriale, che garantisce solo i meritevoli, anche il salario smette di essere un diritto da rivendicare, come corrispettivo di una prestazione lavorativa, per diventare una concessione che lo Stato eroga in sostituzione delle imprese. Riduzione del cuneo contributivo e erosione del sistema welfaristico diventano due facce della stessa medaglia e non semplicemente per ragioni contabili (la riduzione del cuneo è finanziato anche dalla cancellazione del Reddito di cittadinanza), ma per precise motivazioni politiche e ideologiche. L’obiettivo del governo consiste nello scardinare i legami di solidarietà che accomunano il destino di chi lavora, spesso con salari da fame, e di chi vive ai margini della società.  Viene colpito il Reddito di cittadinanza per la funzione assolta nel mercato del lavoro: garantire un salario di riserva contro fenomeni di iper-sfruttamento che investono larghi settori del mercato del lavoro. In assenza di forme di salario minimo, in grado di tutelare contro gli abusi dei salari da fame, il Reddito ha rappresentato l’ultima risorsa contro l’impoverimento e la precarietà del lavoro. La sua cancellazione scarica il rischio dalle imprese alle classi lavoratrici, che non potranno più contare su un terreno di tutele universali e si troveranno a competere in un contesto segnato da salari da fame e instabilità lavorativa. 

Un decreto per le imprese

A giovarsi di queste misure sono le imprese, che non saranno più incentivate ad aumentare i salari e verranno esonerate da qualsiasi impegno nel rinnovo dei contratti collettivi di lavoro. Un ulteriore regalo, in un quadro in cui circa sette milioni di lavoratori e di lavoratrici hanno contratti scaduti e  quelli rinnovati scontano una dinamica salariale che non riesce neanche minimamente ad attutire l’impennata dei prezzi. Inoltre, vengono rafforzati i bonus per le aziende che assumono i beneficiari del supporto per il lavoro con esoneri contributivi (sconti sul versamento dei contributi) che passano dal 100% nell’ipotesi di rapporti di lavoro a tempo indeterminato sino al 50% per i contratti a termine. Una vera e propria redistribuzione del reddito dal welfare e dai salari ai profitti e alle rendite. 

Che il sistema delle imprese sia il principale destinatario dei provvedimenti del governo trova conferma dalle misure di intervento nel mercato del lavoro, in particolare dalle norme che liberalizzano i contratti a termine e da quelle che intervengono nell’estensione dei voucher. Il primo assegna alla contrattazione collettiva, e in sua assenza al contratto individuale, il compito di indicare le causali per i contratti di lavoro sino a 24 mesi, spostando la responsabilità di regolare la fattispecie contrattuale dalla legge (come nell’abolito decreto Dignità) all’autonomia delle parti sociali. Un modo per consentire alle imprese di far pesare la propria forza sul terreno più congeniale: la singola unità produttiva, limitando il potere contrattuale dei lavoratori e delle lavoratrici, che saranno costretti ad accettare lavori precari. Un tema che colpisce in prevalenza le giovani generazioni che rappresentano la categoria più colpita dalla diffusione dei contratti a termine. Il 34% degli under 35 ha un contratto a tempo determinato e più di due giovani su tre vivono ancora con i genitori a causa dell’instabilità lavorativa e reddituale. Un dato macroscopico che il governo ignora nella sua propaganda quotidiana sul tema della bassa natalità. 

Il secondo provvedimento estende l’utilizzo dei voucher, incrementando da 10 mila a 15 mila euro annui i compensi per singolo lavoratore e eliminando i vincoli per le imprese. In particolare, nei settori legati al turismo cade il limite di assumere solo alcune categorie di prestatori: under 25 e pensionati. Da domani potranno essere assunti tutti con i buoni lavoro. Inoltre, potranno ricorrere ai voucher le imprese che occupano fino a 10 dipendenti (precedentemente era 8) e nei settori dei congressi, delle fiere, eventi e stabilimenti termali il limite viene esteso alle imprese con 25 dipendenti. Una vera e propria liberalizzazione della forma più odiosa di mercificazione del lavoro, che non lascia spazio a interpretazioni. 

Due misure che assecondano le richieste delle imprese, specie nei settori a più alto tasso di sfruttamento e povertà lavorativa e che finiscono per costruire un sistema di garanzia a tutela del profitto. Ma se le imprese potranno ritenersi soddisfatte, la stessa cosa non può dirsi per le classi lavoratrici e per l’insieme del paese. Infatti, come è ormai noto e riconosciuto da istituzioni internazionali tutt’altro che inclini ad assecondare prospettive socialiste (il caso esemplare del Fmi) la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro non ha avuto in passato alcun beneficio sulla produttività, ma ha invece avuto conseguenze negative sui salari. Insomma, l’Italia rischia di peggiorare il triste primato di maglia nera nei paesi Ocse per livello dei salari.

E l’opposizione naviga a vista

Molto dipenderà dalla capacità delle opposizioni di costruire un fronte comune per contrastare le politiche economiche e del lavoro del governo Meloni. Al momento, il quadro è tutt’altro che rassicurante e mai come oggi sembra mancare una capacità di mobilitazione politica all’altezza della sfida. Partiti e sindacati appaiono lontani da una presa di consapevolezza della gravità della fase. 

Sul versante parlamentare il Partito democratico e il Movimento Cinque Stelle appaiono più orientati a contendersi la titolarità delle battaglie simbolo come quella sul salario minimo o la difesa del Reddito di cittadinanza, piuttosto che unire le forze per rappresentare i bisogni e le aspirazioni della gran parte del mondo del lavoro. Sembra, inoltre, mancare una lettura approfondita degli effetti dei provvedimenti appena approvati, a partire dal legame strettissimo tra crisi del welfare e povertà lavorativa. Il riferimento è al rapporto tra la riduzione del cuneo contributivo, l’abolizione del Reddito di cittadinanza e la crisi salariale. Sia il Partito democratico che recentemente il Movimento Cinque Stelle hanno insistito sulla necessità di ridurre le tasse e le imposte sul lavoro come elemento di sostegno della dinamica salariale. Una prospettiva che nasce da una cultura politica interclassista, che mira a conciliare interessi opposti in un’idea di società armonica e pacificata. In questa cornice, la riduzione del cuneo contributivo rappresenta il tentativo di tenere insieme crescita dei salari con la garanzia del profitto, neutralizzando il conflitto sociale come strumento di trasformazione dei rapporti di forza tra capitale e lavoro. Un tentativo che non fa i conti con l’esito della riduzione delle tasse e delle imposte sul lavoro, cioè la destrutturazione del welfare state, ossia della principale conquista delle classi lavoratrici. 

Un discorso analogo riguarda le organizzazioni sindacali, che scontano negli ultimi decenni un arretramento della propria azione dal terreno salariale e distributivo a quello fiscale e redistributivo. Non è un caso che anche nelle piattaforme sindacali il tema della riduzione delle tasse sul lavoro abbia assunto un peso maggiore rispetto alla centralità della distribuzione primaria del reddito. Solo negli ultimi mesi la questione del salario minimo ha acquistato centralità nel dibattito dentro le organizzazioni sindacali. Tuttavia, le resistenze interne al fronte confederale sono esemplificate dall’assenza di una strategia comune di mobilitazione e da una scarsa chiarezza sugli obiettivi. Un ritardo che rischia di acuire la disillusione e la sfiducia verso la rappresentanza politica e sindacale, offrendo al governo un terreno propizio per consolidare il proprio consenso.

Simone Fana  è Autore di Tempo Rubato (Imprimatur) e con Marta Fana di Basta Salari da Fame (Laterza). Scrive di mercato del lavoro e relazioni industriali.

10/5/2023 https://jacobinitalia.it/

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