Diario di un’esperienza di volontariato a Chios

Ho iniziato a pensare seriamente alla “questione migranti” quando, tramite diverse realtà di attivismo e tramite un percorso universitario di studi mediorientali, mi sono imbattuta nella Rivoluzione siriana.

Un po’ per il desiderio di acquisire maggior familiarità con la lingua araba, un po’ per la necessità di capire cosa stesse accadendo in un paese che avrei tanto desiderato visitare, ho iniziato a seguire il lavoro di giovani attivisti siriani che, su Facebook, raccontavano la loro incessante lotta per la libertà e per la giustizia.

Il mio viaggio a Chios, in realtà, è iniziato a Istanbul; lì ho incontrato alcuni di questi ragazzi che mi raccontavano cosa volesse dire lasciare la propria casa, mi mostravano le foto dei bombardamenti e mi rendevano partecipe delle difficoltà di vivere in un paese che non sempre si dimostrava accogliente.

Molte volte, mentre ero sull’isola, trovandomi a guardare la costa turca, che vedevo ogni giorno dalla terrazza del mio piccolo appartamento che si affacciava sul mare, pensavo ai miei viaggi in Turchia.

Lì ho capito che diffondere notizie su Facebook non era abbastanza per rispondere a tutti quei “Perché non te li porti a casa tu?”

A casa non potevo portarli, perciò ho deciso di partire per la Grecia.

Avevo iniziato a seguire l’operato di un’associazione italiana, Stay Human odv, fondata da Musli Alievski, attivista rom italiano per i diritti umani; proprio mentre ribollivo dal desiderio di sporcarmi le mani, loro stavano organizzando la prossima “carovana” nell’isola di Chios.

Quella prima esperienza fu breve ma intensa, abbastanza da far nascere l’idea di un’esperienza più lunga, che sarebbe durata due mesi, sempre come volontaria per Stay Human.

Due mesi che poi, per me, sono durati un anno e otto mesi.

E’ sempre difficile raccontare cosa sia Vial, il campo che “accoglie” i migranti che arrivano sull’isola.

Chios è la terza isola per numero di sbarchi, data la sua vicinanza alla Turchia; sono 15 i chilometri che separano le due coste anche se questa distanza, che pare irrisoria a chi viaggia in condizioni normali, è comunque costata delle vite, dal 2016 ad oggi.

E’ difficile raccontare di un’isola tristemente famosa per i flussi migratori, in cui i proprietari dei locali sul porto non fanno entrare i migranti. E nemmeno te, se ti accompagni a loro. E molti degli abitanti del posto sono sulla stessa lunghezza d’onda.

Una volta sbarcati sull’isola, i migranti vengono registrati e spostati al campo Vial, che si trova invece a quasi 8 km dal centro della città di Chios. Questo, nella pratica, significa che chi avesse bisogno di spostarsi dal campo avrebbe ben poche alternative: un autobus, con una corsa per andare e una per tornare, un taxi per il costo di 10/12 euro, non sempre affrontabile soprattutto per chi ha famiglie numerose e di conseguenza molte spese, oppure una camminata di un’ora e quaranta minuti circa.

Immagine di Stay Human odv

L’amministrazione del campo, gestito da autorità locali con l’aiuto (almeno sulla carta) di UNHCR, ha impiegato poco tempo per non essere più in grado di fornire quanto necessario a soddisfare i bisogni minimi necessari a vivere, in termini di cibo, di alloggi, di risorse per i neonati e di igiene.

Vial nasce infatti su una ex fabbrica di plastica, i cui edifici sono stati adibiti a magazzino e piccoli container fanno da alloggi ai residenti del campo, strutturato per contenere tra le 1100 e le 1500 persone, con un totale di 14 latrine a testa (7 per genere); spesso, a causa dell’inadeguatezza dei collegamenti, vengono a mancare acqua corrente ed elettricità.

Se già la situazione era tendente al degrado, c’è stato un netto peggioramento quando, tra l’estate e l’inverno del 2019, in seguito a sbarchi sempre più numerosi, il campo è arrivato ad ospitare più di 5000 persone, e questo ha portato allo sviluppo di un’area negli appezzamenti di terra attorno al campo, chiamata jungle; qui, con tende fornite sia dall’amministrazione del campo, sia da alcune associazioni di volontariato, i migranti erano costretti a stare sotto il caldo soffocante dell’estate greca, o sotto le intemperie, la pioggia battente e il vento in inverno.

Quello che le associazioni di volontariato possono fare, in generale, è sopperire a ciò che l’amministrazione del campo non riesce a fornire. Si tratta non solo di beni materiali, ma anche di attività.

Le distribuzioni al campo possono essere di vestiti in base alla stagione, di scarpe (non saprei contare quante persone, anche bambini, ho visto in ciabatte in pieno inverno), di cibo secco, di frutta e verdura, di pannolini, di mascherine e igienizzante appena è subentrata l’emergenza Covid.

Le attività possono essere corsi di inglese per adulti o bambini, di cucito, di cucina, di arte e informatica.

Non credo che avrò mai le parole adeguate per descrivere questa esperienza in tutta la sua essenza; certamente non posso non menzionare la bellezza del contatto culturale, ad esempio.

Ma la verità è che il contatto prolungato con tutta questa sofferenza ti mangia, ti ingloba, ti consuma. Pensi sempre “E’ l’inizio, ti ci abituerai”, ma in realtà è proprio quello che temi: “E se mi ci abituo? Se tutto ciò mi diventasse indifferente?” e così via, un ciclo di incertezza che si ripete all’infinito. Da una parte ti ci vorresti abituare; per esempio, mi è sempre piaciuta la pioggia, mi tranquillizza, mi dà quella sensazione di pace, come se il mondo si fermasse per un attimo, bagnato e intirizzito. Se si ferma il mondo, posso fermarmi anch’io. Ma da quando sono arrivata a Chios, questo pensiero non può durare che pochi secondi e genera senso di colpa: mentre io sono al caldo, seduta sul divano, con una coperta e un tè caldo, c’è qualcuno, in un campo profughi, che non ha idea di come ripararsi dal freddo e dall’acqua che scroscia sopra la sua tenda. C’è qualcuno che perde il suo alloggio perché il vento piega e strappa. C’è qualcuno che, inevitabilmente, si ammala non potendosi riparare.

Ricordo in particolare un episodio di fine novembre del 2019; aveva piovuto per due giorni interi, aveva letteralmente diluviato, tanto che le strade della città sembravano essere diventati dei piccoli fiumiciattoli. Dall’interno del campo arrivavano foto terribili, di stradine fangose e allagate.

Dopo questi due giorni, ho deciso di recarmi al campo, per capire cosa si potesse fare; non si poteva entrare nell’area dei container, questo anche prima della pandemia (per ragioni poco chiare, ma intuibili), ma nessuno vietava di inoltrarsi nella jungle, che è di fatto una vera e propria giungla di alberi e tende.

Quando questa area ha iniziato a formarsi nell’estate del 2019, ci sono stati non pochi problemi con i proprietari dei terreni su cui venivano piantate le tende, che non sapevano se prendersela con l’amministrazione di Vial o con i migranti, a cui in fondo nessuno aveva spiegato che quegli appezzamenti di terra non facevano parte dell’area predestinata al campo. E l’amministrazione, non potendo offrire loro altre soluzioni, fingeva che il problema non esistesse.

Questo ha portato a manifestazioni e minacce da parte dei proprietari terrieri e dei loro (molti) sostenitori locali, minacce che poi si sono fatte gesti concreti, quando questi si sono recati direttamente in loco e hanno tolto i picchetti delle tende perché non vedevano le tende sparire.

Questo, in fondo, era il clima generale dell’isola: non appena qualcuno si lamentava di una situazione particolare legata ai rifugati, si trovava in fretta e furia una soluzione che, naturalmente, non teneva mai conto delle esigenze di questi ultimi, che venivano spostati come fossero un gregge e non degli esseri umani.

Così è successo quando, in seguito a lamentele “anonime”, il proprietario di un edificio enorme che dava sul porto di Chios, non ha esistato a sfrattarne gli inquilini che non fossero greci, incurante del fatto che vi potessero essere famiglie con bambini.

In quell’edificio abitavano anche tre ragazzi iracheni che facevano i volontari per un’associazione con cui ho collaborato; erano dei ragazzi di nemmeno vent’anni, arrivati più di un anno prima sull’isola. Abbiamo fatto con loro e per loro numerose telefonate ad agenzie immobiliari, per appartamenti che sui loro siti erano disponibili, ma che all’improvviso non lo erano più appena si chiedeva se accettassero di affittare a rifugiati. Qualcuno (è successo persino a me), chiudeva la chiamata appena sentiva che, dall’altro capo, chi chiamava non parlava in greco.

Tutto quello che abbiamo potuto fare per loro, è stato dar loro una tenda, in cui hanno vissuto in una spiaggia per due settimane, fino a che non sono finalmente riusciti a trovare un appartamento.

Tornando alla mia visita a Vial, dopo la pioggia torrenziale, la prima cosa che ho notato è stato che c’erano vestiti appesi ovunque: sulle reti che circoscrivono il campo profughi, sui fili di recinzione dei campi di ulivi, persino sui rami degli alberi; sembrava di essere in una gigantesca lavanderia a cielo aperto.

Era terribile il contrasto; tutti quei colori di coperte, asciugamani e vestiti, raccontavano invece di freddo patito in una tenda fragile, raccontavano di persone che probabilmente stavano stendendo al sole tutto il loro misero guardaroba.

La jungle era più silenziosa del solito, niente musica dagli speaker portatili, niente urla di bambini che giocavano con qualsiasi cosa trovassero per terra.

C’era uno strano silenzio, interrotto solo dal rumore di chiacchiere sommesse provenienti dalle tende e dai passi di piedi nudi nel fango. Qualcuno aveva pensato, per non far andare in giro i bimbi scalzi nel fango e nelle pozzanghere, di avvolgere i loro piedi in buste di plastica.

Mentre ci allontanavamo dal campo, tornando verso la macchina, abbiamo visto una ragazza seduta sul ciglio della strada, evidentemente incinta, che si lamentava per il dolore. Preoccupate, ci siamo avvicinate per chiedere se avesse bisogno di essere accompagnata in ospedale, ma ci risponde che no, il suo dolore è dovuto dal fatto che, pur essendo incinta, non ha un materasso su cui dormire, dorme per terra, su una coperta.

immagine di: Rivistailmultino

I momenti peggiori di un’esperienza simile, sono quelli in cui sai di non poter offrire un aiuto immediato e sai che le parole non serviranno a compensare o ad alleviare la sofferenza.

I momenti peggiori sono quando ti allontani dal campo per tornare a casa, al caldo, scappando dall’odore di latrina a cielo aperto, soprattutto dopo giorni di pioggia in cui fango e liquame si mescolano e vengono a galla. E pensi a quanto degradante, quanto disumano sia vivere in quelle condizioni.

Penso spesso a queste parole: migrante, rifugiato, profugo.

Parole intrise di sofferenza e dolore, perché alla fine dei conti, nell’immaginario collettivo, indicando esseri umani a metà, incompleti. Incompleti di troppo.

Persone che hanno perso la loro casa, o vi hanno rinunciato perché il mare, con le sue tragedie, sembra più sicuro di quel luogo che chiamano casa. Perdono tutto, arrivano in Europa, sognando una vita migliore. Certo, in Europa non c’è la guerra.

Ma ci sono luoghi dell’Europa, come gli hotspot delle isole greche, dove non c’è nemmeno umanità. In un campo profughi si diventa un numero, un caso su cui prendere una decisione senza troppa fretta, un caso da tenere in sospeso per anni a volte, come non fosse una vita. Una vita che, nel frattempo, viene deumanizzata in un container o in una tenda, con 14 latrine per più di mille persone (ora, cinquemila in passato). Una vita che non ha nemmeno più la dignità di poter scegliere i vestiti che può indossare o il cibo che vuol mangiare. Una vita che si trasforma in un incubo. Un incubo in cui vivi per strada, o in una tenda, in cui ti lavi quando hai fortuna, e quando vuoi stare al caldo può succederti di stare per giorni sotto la pioggia scrosciante. Un incubo in cui a qualcuno viene voglia di impiccarsi sul tetto di un ex-fabbrica, o di darsi fuoco con l’intera tenda. Oppure a qualcun altro viene voglia di annullarsi tra alcool e marijuana per non pensare che se prima eri un essere umano, ora sei un essere umano di minor importanza degli altri.

Dopo un anno e otto mesi, mi sforzo di vedere l’altra faccia della medaglia, di quell’umanità che resiste, che tende una mano, che si oppone a questa ennesima forma di oppressione, che si spende per portare per quanto possibile sollievo a questa condizione di intollerabile miseria.

Ma quello che si imprime sotto pelle e che rimane inciso sotto le palpebre è, purtroppo, il dolore.

Fonti:

Per gli sbarchi in Grecia: https://aegeanboatreport.com/

Per info su Chios: https://www.infomigrants.net/en/tag/chios/ https://www.facebook.com/vialcamp/

Elena De Piccoli

18/6/2021 https://www.intersezionale.com

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