Farmaci a colori
In uno di quei monologhi che solo William Shakespeare sa scrivere, Jago ci illustra come il proprio piano malevolo prenda la forma di consigli onesti e frutto della ragione. Ci dice: “Teologia infernale: quando il diavolo vuole indurre ai più neri peccati egli avvolge la sua tentazione nei colori del Paradiso”. Le medicine che le aziende farmaceutiche offrono sul mercato dei sistemi sanitari nazionali si presentano sempre come sfavillanti mezzi di cura e guarigione, ma spesso si rivelano solo merci volte al profitto, che non mantengono le loro promesse o, peggio, danneggiano gravemente la loro salute.
Come si dovrebbe delineare una politica sanitaria volta al bene comune? Non è una domanda cui è facile rispondere, soprattutto quando si voglia andare al di là di una pura e semplice difesa del sistema sanitario pubblico. Cosa necessaria, naturalmente, ma non sufficiente. Anche per quel che riguarda il problema sociale della prevenzione e della cura delle malattie, occorre essere radicali nella critica dello stato di cose presente: è l’unico modo in cui la nostra prassi può essere realmente incisiva, rivoluzionaria fin da ora. Non posso in un articolo affrontare tutta la complessità dell’argomento e quindi mi limiterò a condividere, da compagno e da medico, alcune riflessioni che riguardano un punto cruciale della questione: l’affidabilità dei farmaci messi in commercio dalle aziende farmaceutiche.
Le aziende farmaceutiche accettano a parole le norme metodologiche che governano gli studi clinici controllati. In questi studi i soggetti coinvolti vengono assegnati in modo casuale a due gruppi: quello sperimentale e quello di controllo. Il gruppo sperimentale riceve il nuovo farmaco di cui si vogliono valutare l’efficacia terapeutica e gli effetti collaterali; il gruppo di controllo riceve invece un farmaco già in uso nel mercato oppure un placebo, cioè una preparazione che non contiene nessun principio attivo. Lo studio clinico controllato dovrebbe inoltre essere “in doppio cieco”, cioè tale che né i soggetti coinvolti né i medici sappiano chi dei soggetti stessi appartiene al gruppo sperimentale e chi a quello di controllo. Tale misura è volta a evitare da una parte che pazienti consapevoli di essere trattati con il farmaco nuovo possano manifestare il cosiddetto “effetto placebo”, ovvero un miglioramento dovuto all’aspettativa positiva riposta nel farmaco assunto, dall’altra che i medici possano involontariamente valutare più positivamente coloro che assumono il farmaco sperimentale o che, sempre senza l’intenzione di farlo, trasmettano l’informazione sul gruppo di appartenenza a pazienti che a differenza dei medici ne sono ignari. La conoscenza di quali soggetti appartengano al gruppo sperimentale e quali al gruppo di controllo è appannaggio solo di persone diverse dai medici che seguono i pazienti arruolati nello studio. Questo genere di ricerca rappresenta il vertice della gerarchia delle prove di efficacia.
Tutto sembra molto bello e rassicurante, no? Le cose però non sono nella realtà come appaiono nella teoria. Infatti i ricercatori degli ospedali dove si svolgono gli studi clinici non hanno nessun accesso ai dati grezzi che vengono raccolti. Tutti i dati raccolti vengono inviati all’azienda, che pone su essi un vincolo di segretezza. Ebbene, nel caso della ricerca farmaceutica fra un’analisi onesta dei dati ottenuti e una che non lo è si può interporre una differenza di profitto che ammonta a milioni di euro. E’ evidente l’assurdità di un sistema in cui la stessa azienda produttrice di un farmaco nasconde i dati grezzi dello studio condotto su esso e procede per proprio conto alla loro analisi statistica. E’ come se a un imputato si concedesse di fare le indagini giudiziarie, di attuare fra sé e sé il dibattimento e infine di emanare il verdetto sulla propria innocenza o colpevolezza. Chi si fiderebbe dei risultati così raggiunti?
Quello che spesso accade è che i dati grezzi provenienti dagli studi clinici controllati (dal capitale farmaceutico) vengono torturati dall’analisi statistica fino a quando non confessano qualche risultato che giustifichi la messa in vendita del nuovo farmaco cui si riferiscono. A ciò si aggiunga che l’intera progettazione dello studio mira tendenzialmente a ottenere un risultato favorevole al prodotto aziendale. Si consideri a tal riguardo quanto segue. Se il confronto si fa con un placebo, si preferisce in genere ricorrere a un placebo inerte e non a uno attivo. Un placebo attivo si caratterizza per dare blandi effetti collaterali simili a quelli del farmaco esaminato. Il placebo attivo è molto importante per garantire la cecità dello studio. Infatti i pazienti che appartengono al gruppo di controllo, constatando che non vanno incontro a effetti collaterali, possono scoprire di non assumere farmaci di sorta e pertanto non vanno più incontro all’effetto placebo. Va ricordato che questo può essere molto potente e che non a caso ogni nuovo farmaco deve dimostrare di essere più efficace del placebo e non semplicemente efficace. Quindi occorre che il placebo sia del genere “attivo”, ma le aziende farmaceutiche raramente lo scelgono di questo tipo. Se il farmaco nuovo viene invece confrontato con uno già esistente, quest’ultimo viene spesso somministrato a dosi troppo alte al fine di dimostrare il miglior profilo di tollerabilità del nuovo oppure a dosi troppo basse quando si vuole dimostrare la sua migliore efficacia. Così accade di frequente che farmaci di cui è scaduto il brevetto vengano “superati” da farmaci nuovi e brevettati.
Si tenga poi presente che spesso i pazienti coinvolti in uno studio clinico sono poco numerosi e vengono trattati per un tempo troppo limitato per essere proporzionale alla durata del trattamento che si prevede per il farmaco esaminato. Questi due dati portano ovviamente a sottovalutare la sua potenziale dannosità.
Si aggiunga che i pazienti di età superiore ai 65 anni vengono generalmente esclusi dagli studirealizzati dalle aziende farmaceutiche, anche se possono essere quelli candidabili a farne uso. Per esempio: solo il 2% dei pazienti arruolati negli studi clinici sui FANS avevano più di 65 anni, pur trattandosi di persone che più probabilmente faranno uso di questi antinfiammatori rispetto a quanti hanno un’età inferiore. Inoltre nella grande maggioranza degli studi sono stati esclusi pazienti che soffrivano di patologie molto frequenti, mentre in più della metà non sono stati ammessi pazienti che assumono farmaci molto utilizzati. Tutto ciò significa che i farmaci vengono valutati in contesti non realistici per un fine ben preciso: evitare che emergano eventi avversi che potrebbero pregiudicare l’approvazione del prodotto da parte delle agenzie del farmaco.
Che questo sistema sia intrinsecamente abnorme è comprovato dai tanti farmaci fotocopia di quelli già in commercio, il cui brevetto è ormai scaduto. I farmaci fotocopia servono a realizzare il profitto straordinario garantito dal brevetto, cioè da monopolio del commercio del farmaco in questione. Per assolvere alla loro funzione nei confronti del capitale essi devono essere “confezionati” all’interno di uno studio che ne “dimostri” i loro vari vantaggi. Vengono quindi pubblicizzati ai medici come qualcosa che promette una clinica migliore, immessi sul mercato a prezzi superiori a quelli dei farmaci generici, ma … senza che da essi se ne tragga nessun reale vantaggio in termini di efficacia. Questi sono i farmaci fotocopia.
Un problema più grave di quello rappresentato dai farmaci fotocopia è costituito dai farmaci che causano effetti ben più tossici di quelli che risultano negli studi condotti su di essi. Tale problema si è così aggravato nel corso degli anni che attualmente negli USA e in Europa i farmaci sono diventati la terza più importante causa di morte dopo le malattie cardiovascolari e il cancro. Avete capito bene: la terza causa di morte. Quanti Vioxx [1] siano ancora in commercio è facilmente intuibile.
Che fare? Prima della socializzazione delle aziende farmaceutiche e della messa al bando dei brevetti farmaceutici possiamo puntare su obiettivi intermedi ma di ampia portata:
- le aziende farmaceutiche devono rendere disponibili tutti i dati degli studi clinici controllati, pena il rifiuto di concedere l’autorizzazione alla commercializzazione di un farmaco;
- gli studi clinici controllati messi in opera per valutare efficacia e tossicità di farmaci prodotti dalle aziende farmaceutiche devono essere affidati per intero (non solo raccolta ma anche progettazione dello studio nonché conservazione e analisi dei dati) a centri clinici e di ricerca indipendenti dalle aziende stesse, cioè appartenenti alla sanità pubblica e all’università;
- gli studi, avendo per oggetto farmaci prodotti dalle aziende farmaceutiche, saranno finanziati dalle stesse;
- va promossa la seria ricerca di nuovi farmaci da parte delle strutture sanitarie e scientifiche appartenenti alla rete pubblica;
- al fine di sostenere economicamente la ricerca indipendente va imposta alle aziende farmaceutiche un tassa che faccia rientrare nelle casse dello stato una parte degli enormi profitti da esse realizzati grazie alla spesa farmaceutica sostenuta dal sistema sanitario nazionale.
Per coloro che desiderassero approfondire l’argomento non posso che consigliare il testo del compagno Peter Gotzsche Medicine letali e crimine organizzato, edito in Italia da Fioriti Editore. Peter è professore al Clinical Research Design and Analysis presso l’Università di Copenhagen e uno dei responsabili del famoso Cochrane Methodology Review Group. Nella stesura di questo articolo gli sono completamente debitore.
Note
[1] Farmaco della multinazionale Merck tolto dal mercato nel 2004 perché favorendo la comparsa di trombosi causava un notevole incremento dell’incidenza di infarti, morti improvvise e ictus.
Claudio Lalla
28/1/2017 www.lacittafutura.it
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