I bambini di Gaza

Pensare le bambine e i bambini come soggetti, persone nella concretezza del loro vissuto quotidiano significa affrontare la struttura dell’immensa violenza coloniale che si è abbattuta su di loro. Il colonialismo israeliano ha reso i bambini sterminabili, dopo averli fatti vivere in prigioni all’aperto negando loro l’accesso all’educazione, al gioco, alla salute, al movimento. La vita dei bambini palestinesi è minacciata in realtà ancor prima di venire al mondo, una politica che Shalhoub-Kevorkian ha definito “unchildling” (privazione dell’infanzia), rivelatrice di una logica genocidaria che si esprime nella demonizzazione e nella disumanizzazione del bambino come implicitamente terrorista. Unchildling è un processo di esclusione e di eliminazione “che invade gli uteri, le famiglie, le amicizie, le case, le scuole, gli ospedali; è flessibile, adattabile e imprevedibile. Opera con le politiche del governo e i quadri giuridici, una forma di guerra che mira ad annientare la futura generazione delle popolazioni autoctone”. Il neonato privato dell’infanzia e la terra espropriata sono la stessa cosa. E le donne? Se per alcune donne palestinesi l’idea di opporre resistenza attraverso la maternità ha offerto loro un ruolo nella lotta, altre l’hanno considerata un’espressione estrema del dominio patriarcale: “Non metterò al mondo dei bambini solo per vederli uccidere e morire. Il mio corpo non è una fabbrica di armi. È il mio corpo…”. Ma il mondo ha chiuso da tempo gli occhi sulla tragedia di chi vive a Gaza

Su Gaza in due mesi Israele ha sganciato 25.000 tonnellate di esplosivo, usato bombe al fosforo, ucciso 19.000 persone (molte sono ancora sotto le macerie), distrutto il 60 per cento delle abitazioni, bombardato grattacieli senza preavviso, colpito ospedali, infrastrutture, luoghi di culto, scuole, mercati, dichiarato l’assedio totale, privando di acqua, cibo ed elettricità la popolazione. Per la prima volta l’esercito israeliano ha utilizzato nuovi sistemi di intelligenza artificiale, come il sistema Habsora (Vangelo), in grado di elaborare una enorme quantità di dati e generare automaticamente cento bersagli al giorno, una vera e propria “fabbrica di assassinio di massa” come l’ha definita un ex ufficiale dell’intelligence israeliano, che ha cancellato interi quartieri.

Il 16 novembre alcuni esperti Onu hanno lanciato un appello alla comunità internazionale affinché prevenga il genocidio della popolazione palestinese e il 9 dicembre un gruppo di studiosi dell’Olocausto e del genocidio ha reiterato l’urgenza di un intervento per scongiurarne il pericolo. A parere di Raz Segal, studioso israeliano dell’Olocausto e del genocidio presso la Stockton University (New Jersey), ciò che sta accadendo a Gaza è un caso da manuale di genocidio. Lo provano le numerose dichiarazioni di voler annientare tutta la popolazione civile senza distinzione, tra cui quelle del ministro della Difesa Yoav Gallant il 9 ottobre: “Stiamo imponendo un assedio totale a Gaza. Niente elettricità, niente cibo, niente acqua, niente carburanti. Stiamo combattendo animali umani e agiremo di conseguenza”. A Gallant ha fatto eco il generale Ghassan Alian: “Non ci sarà elettricità né acqua a Gaza, avrete solo distruzione. Avete voluto l’inferno, avrete l’inferno”.

Il linguaggio dell’annientamento è pervasivo in ogni ambito, politico, militare e delle comunicazioni. I termini “cancellare”, “radere al suolo” sono onnipresenti nei media israeliani e sono apparsi sugli striscioni appesi al ponte di Tel Aviv: “L’immagine della vittoria: zero residenti a Gaza”, o ancora: “Olocausto di Gaza”. Le prime vittime di questa logica dell’annientamento sono stati i bambini; almeno 9.000 hanno perso la vita sotto i bombardamenti, altri sono morti e moriranno di fame e malattie, altri ancora non vedranno la luce (sono migliaia le donne che dovrebbero partorire nelle prossime settimane). Come è stato tante volte riportato dai media, ogni dieci minuti una vita infantile viene stroncata. La sorte di neonati e bambini ha suscitato orrore e sgomento, ma di loro rischiano di restare solo i numeri.

Al di fuori dell’umanità

Ha scritto Judith Butler:

I media mainstream descrivono dettagliatamente le uccisioni degli israeliani del 7 ottobre, e siamo giustamente indignati-e e inorriditi-e. Ma sembra che il gran numero di bambini uccisi a Gaza non riceverà mai il tipo di attenzione ed empatia globale che avrà il bambino israeliano. Conosceremo il nome e la famiglia dell’israeliano, ma otterremo solo il numero del bambino palestinese, o di migliaia di bambini.

Sono stati i genitori o i parenti dei bambini palestinesi a scrivere con inchiostro nero il nome sui corpi dei loro figli perché potesse rimanere traccia della loro esistenza e riconoscerli nel caso dovessero essere ritrovati sotto le macerie. Nominare quelle vite che non avrebbero mai dovuto andare perdute, significa riconoscerle come persone degne di lutto, ma, come rivela il campo di battaglia, non tutte le vite sono considerate vivibili.

L’11 novembre in un appello apparso su The Lancet le pediatre Ayesha Kadir eVinay Kampalath, Children Pay the Price of Our Silence, again, scrivevano:

Siamo indignate che un numero crescente di operatori sanitari e di difensori dei diritti dell’infanzia in questo momento non stanno facendo sentire la loro voce […] ancora una volta ci dobbiamo chiedere: quali vite contano? Ci poniamo la domanda perché vediamo che operatori sanitari e difensori dei diritti dell’infanzia stanno discutendo se intervenire o meno. Assumere il punto di vista dei diritti dell’infanzia richiede di dare lo stesso valore alla vita di ogni bambino e di astenersi da una retorica disumanizzante […]. Il silenzio uccide. La storia ci giudicherà per come stiamo rispondendo oggi – e i bambini del mondo ci guardano.

Non è solo il silenzio sulla sorte infantile ad essere inquietante, quanto piuttosto il modo con cui se ne parla che nega ai bambini palestinesi la loro stessa esistenza. Gli appelli per una risposta umanitaria che impone di “salvare vite innocenti”, l’uso del termine umanità come se fosse un significante vuoto, ha scritto Júlia Fernandez, ricercatrice di antropologia sociale all’Università di Edinburgo, rischiano di trasmettere una sorta di moralismo antipolitico che omette la drammatica realtà della dominazione coloniale, la sua pervasività e la sua lunga durata.

I bambini sono spesso considerati i rappresentanti di una pura, nuda umanità che trascende la politica. È facile spogliare i bambini della loro storia e della loro cultura ponendoli al di là dei razzismi, dei nazionalismi, dei progetti genocidari; è facile cancellare il contesto preciso in cui avviene la violenza: da quali bombe vengono uccisi? Cosa è accaduto prima? Come sono considerate le loro vite dal loro stesso governo e dal potere coloniale? Nell’immagine di vittime innocenti i bambini e le bambine reali spariscono e i loro corpi sofferenti necessitano di aiuto solo per obbligo morale.

Pensare i bambini come soggetti, persone nella concretezza del loro vissuto significa affrontare la struttura della violenza coloniale che si è abbattuta su di loro fondata sulla logica della eliminazione.

Nella razionalità dell’occupazione un bambino palestinese non è un bambino, ma un terrorista, uno scudo umano di Hamas, una perenne minaccia. L’ideologia coloniale non lo riconosce come entità da proteggere o come un soggetto detentore di diritti. Lo stato di Israele ha ratificato la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, ma è stato denunciato dall’Unicef per non averne sostenuto i principi e per non aver adottato una strategia nazionale e un programma per la sua implementazione; al contrario, i suoi rappresentanti hanno sostenuto tenacemente che la Convenzione non si applica ai territori occupati. I tentativi da parte delle organizzazioni dei diritti umani di estendere la protezione dei bambini attraverso l’applicazione dei meccanismi legali internazionali fino ad oggi è stata di scarso aiuto ai bambini palestinesi perché le loro vite e i loro corpi sono stati intesi in modo da escluderli da ogni considerazione etica.

Terroristi, “figli dell’oscurità”, piccoli serpenti

Sostenendo pubblicamente la punizione collettiva della popolazione di Gaza, il 16 ottobre la deputata israeliana Meirav Ben-Ari ha detto: “I bambini di Gaza se la sono cercata”. Il giorno successivo, il primo ministro israeliano scriveva su twitter: “Questa è una lotta tra i figli (children) della luce e i figli delle tenebre, tra l’umanità e la legge della giungla”. Luce e oscurità, umanità e ferocia, sono opposizioni irrisolvibili se non con l’annientamento di vite che sono considerate già perdute, poste “fuori dall’umanità”, in un luogo oscuro.

Neppure per Hamas le vite infantili hanno valore se non come linfa rivoluzionaria. Dodici giorni dopo il messaggio del primo ministro israeliano, il leader di Hamas Ismail Haniyeh, ha dichiarato: “L’ho detto e ripetuto molte volte: siamo noi ad avere bisogno del sangue dei bambini, delle donne e degli anziani per rinvigorire lo spirito rivoluzionario”. Nella retorica di Hamas i bambini sono stati generati per versare il proprio sangue; nella retorica del colonizzatore, essi sono carnefici. I bambini di Gaza non sono realmente vivi, ma spettri della minaccia pervasiva del terrorismo e della sua potenzialità di sviluppo. Essi sono “piccoli serpenti” secondo quanto detto dal ministro della Giustizia Ayelet Shaked nel 2015. Nella logica della sicurezza nazionale ogni bambino è disumanizzato; egli può essere violato, ucciso o lasciato morire impunemente. Della volontà del suo annientamento si è fatto emblema; lo rivelano i disegni che i soldati israeliani hanno scelto per le loro magliette indossate nel 2008-2009 nel corso della operazione Cast Lead e pubblicate dal giornale israeliano “Haaretz”. Una delle vignette ritrae una donna in stato avanzato di gravidanza, il suo ventre è al centro del mirino. “Uno sparo, due uccisioni” era scritto sotto l’immagine. In un’altra vignetta un bambino con un fucile tra le mani è anch’esso al centro di un mirino; la didascalia spiega: “Più piccoli sono e più sono accaniti”. Un’altra ancora ritrae l’immagine della morte che con la falce in mano sovrasta una figura femminile: “Ogni donna araba deve sapere che la vita di suo figlio è nelle mie mani”. Infine, campeggia su un’altra maglietta una madre palestinese che piange il suo bambino morto con accanto il suo orsacchiotto. Il messaggio è semplice: “Sarebbe stato meglio usare il preservativo”.

Gli incitamenti a bombardare, distruggere e annientare la popolazione di Gaza hanno spesso posto al centro la vita del bambino, come nella canzone intonata da un gruppo di manifestanti a Tel Aviv il 26 luglio 2014, il diciannovesimo giorno dell’aggressione a Gaza volta a incoraggiare lo stato a proseguire i bombardamenti.

A Gaza non si può più studiare
Là non ci sono più bambini
Non ci saranno scuole domani
Non ci sono più bambini a Gaza! Oleh!
Gaza è un cimitero.o
(Nadera Shalhoub-Kevorkian, Incarcerated Children and the Politics of Unchildling, 2019, p. 101).

Non è solo il linguaggio dei gruppi di estrema destra a inneggiare alla morte dei bambini, ma anche quello dei semplici soldati, dei comandanti militari, degli esponenti politici e del capo del governo. Anche i media usano lo stesso linguaggio e con orgoglio parlano di supremazia ebraica e di nazionalismo esclusivo, una supremazia che si è voluta affermare per decenni attraverso la politica demografica. I bambini, infatti, rappresentano la nazione, la sua vitalità e le sue speranze; essi stabiliscono la sovranità sulla terra, incarnano la politica razziale di riproduzione che è alla base del progetto di insediamento coloniale di Israele il cui successo è messo in pericolo dalla fertilità palestinese.

L’utero palestinese è un’arma biologica”

Così scriveva negli anni Ottanta il demografo israeliano Arnon Soffer. Fin dagli anni Cinquanta Ben-Gurion indicò nella fertilità una priorità nazionale, uno strumento di supremazia e a tutt’oggi Israele è tra le nazioni che più investe nella “cura” dell’infertilità, il primo paese al mondo per numero di fertilizzazioni in vitro (Rebecca Otis 2011, pp. 101-104).

Nel discorso nazionalista palestinese la fertilità è stata considerata una forma di resistenza, una risposta al progetto israeliano di appropriarsi della terra eliminando la sua popolazione. Alle donne palestinesi è stato chiesto di mettere al mondo bambini la cui vita sarebbe stata ad alto rischio, per malattie, guerre, aggressioni. Se per alcune donne palestinesi l’idea di opporre resistenza attraverso la maternità ha offerto loro un ruolo nella lotta nazionale – “Noi donne abbiamo un utero militare, diamo la vita ai combattenti” (Shahad Wadi, 2012, p. 121) –, altre l’hanno considerata un’espressione estrema del dominio patriarcale: “Non metterò al mondo dei bambini solo per vederli uccidere e morire. Il mio corpo non è una fabbrica di armi. È il mio corpo” (Robin Morgan, The Demon Lover: The Roots of Terrorism, 2001, p. 274).

Le implicazioni di queste visioni patriarcali della maternità sono state analizzate da un punto di vista femminista, mentre quelle che hanno pesato sui bambini restano molto meno indagate. Fanno eccezione le ricerche di Nadera Shalhoub-Kevorkian, criminologa e giurista, discendente di sopravvissuti al genocidio armeno e all’invasione israeliana del 1948.

Raccontare i palestinesi come una minaccia demografica, ha scritto Shalhoub-Kevorkian, e tendere all’incremento demografico conduce a una catena di violenze, tutte rivolte a ridurre la popolazione palestinese: dalle leggi che limitano la vita, privano dei servizi sanitari i neonati, i bambini, le donne gravide, alla confisca delle terre, alla demolizione delle abitazioni.

La vita dei bambini palestinesi è minacciata ancor prima di venire al mondo, una politica che Shalhoub-Kevorkian ha definito “unchildling” (privazione dell’infanzia), rivelatrice di una logica genocidaria che si esprime nella demonizzazione e nella disumanizzazione del bambino come implicitamente terrorista. Unchildling è un processo di esclusione e di eliminazione “che invade gli uteri, le famiglie, le amicizie, le case, le scuole, gli ospedali; è flessibile, adattabile e imprevedibile. Opera con le politiche del governo e i quadri giuridici, una forma di guerra che mira ad annientare la futura generazione delle popolazioni autoctone”. Il neonato privato dell’infanzia e la terra espropriata sono la stessa cosa (Nadera Shalhoub-Kevorkian,2019, p. 17).

Violenza materna e neonatale

Negli ultimi decenni con il moltiplicarsi di barriere e ostacoli al movimento, tra check-point, blocchi e cancelli, raggiungere ospedali e strutture sanitarie è stato sempre più difficile per le gestanti e ha contribuito all’aumento della mortalità neonatale: in Palestina nel 2021 sono morti 9,3 bambini ogni 1.000 nati vivi (un valore quasi cinque volte più elevato, ad esempio, di quello riscontrato in Israele e in Italia). Le donne morte per parto, che già erano in aumento dal 2017, nel 2020 hanno raggiunto il 28,5 per 100.000 nascite con un incremento del 43,8 per cento rispetto all’anno precedente, morti causate prevalentemente da emorragia e infezioni e che un tempestivo e adeguato intervento medico avrebbero potuto evitare.

La violenza materna e neonatale è stata la centro di numerosi studi e rapporti di organizzazioni internazionali. Il rapporto di Amnesty International del 2005, dopo aver ricostruito casi di partorienti a cui era stato negato il passaggio ai posti di blocco e ai check-point, costrette a partorire per la strada e in molti casi a perdere il proprio bambino, concludeva:

Amnesty International considera che la pratica di soldati israeliani di negare o ritardare il passaggio delle donne palestinesi in travaglio negando di fatto il trattamento medico quando è chiaramente necessario e urgente costituisce trattamento crudele, disumano e degradante.

Lo studio più recente di Nadera Shalhoub-Kevorkian, basato sulle testimonianze di numerose donne di Gerusalemme est (Nadera Shalhoub-Kevorkian 2015) ha rivelato che l’80 per cento delle intervistate aveva subito una qualche forma di violenza durante la gravidanza. Raggiungere un ospedale, attraversare spazi militarizzati, subire umiliazioni, attendere ore è un’agonia che le donne hanno inteso come una vera e propria tortura. È il caso di Gahida, 21 anni.

Mi hanno trattata come una criminale; mi hanno impedito di raggiungere l’ospedale quando avevo un bisogno assoluto di vedere un medico per non perdere il mio bambino […]. Ma perché questa tortura, perché non posso essere trattata come un essere umano, perché non posso far nascere il mio bambino in condizioni normali, e non in questo orrore, perché sono percepita come una criminale, una terrorista? (p.14).

Il corpo delle donne gravide sono strumenti nelle mani dei soldati che possono iscrivervi il loro potere frapponendo ostacoli al loro movimento, impedendo che abbiano i loro figli in condizioni normali e sicure, negando l’accesso agli ospedali. Sradicate dalla loro nazione e comunità, le donne sono sradicate dal loro stesso corpo, quando questo corpo sta per dare alla luce un bambino, costrette a vivere il momento che si avvicina al parto con un senso di terrore. Lama, 24 anni, che quattro settimane prima del tempo previsto per il parto entrò in travaglio, così ricorda la sua esperienza:

Al check-point hanno messo in dubbio i miei dolori…pensi che ci considerino umane? Mettere in dubbio i miei dolori quando sono bagnata… tutta bagnata… e loro lo vedono, le mie acque si sono rotte e il mio bambino è senza liquido… e loro semplicemente ti guardano… hanno smesso di pensare a noi come esseri umani… siamo tutte prigioniere, siamo state trattenute al check-point senza che nessuno ci abbia guardato in faccia, ci abbia rivolto la parola, loro non ci parlano, non ci toccano, non ci guardano (p. 15).

Una crudeltà quotidiana che penetra profondamente nella psiche femminile che è perpetrata nel modo più brutale dai coloni, come ha ricordato Hiam, 24 anni:

Stavo andando all’ospedale, da sola, perché mio marito era al lavoro […] un colono mi vide e iniziò a gridare: “muori, muori”, e io ho iniziato a camminare più veloce per la paura, sperando di incontrare mio marito, ma lui mi spinse e caddi a terra, con i miei dolori in mezzo alla strada. Alcuni vennero in mio aiuto, ma mi si sono rotte le acque e mi sentivo imbarazzata ad alzarmi (Nadera Shalhoub-Kevorkian, Stolen Childhood: Palestinian Children and the Structure of Genocidal Dispossession, 2015, p. 6).

Vite precarie

Mentre lo stato di Israele cerca di rendere difficili le nascite, appena il bambino palestinese viene al mondo, è privato della sua infanzia e della terra. […]. Egli viene alla luce in un mondo in cui il suo legame con la terra è già stato rubato. La terra su cui un bambino muove i primi passi e impara a camminare è letteralmente un terreno instabile, aperto al sequestro quotidiano e illegale; è un terreno scivoloso anche quando ci si ferma sopra; è già stato preso o rischia di esserlo (Nadera Shalhoub-Kevorkian, 2019, pp. 18-19).

Dal momento in cui il bambino palestinese viene al mondo, raramente sentirà di avere una infanzia, sospinto in una in una condizione di guerra continua, dolorosa, cronica, fonte di traumi emotivi e psicologici inauditi. Molti di loro hanno temuto, previsto e anche desiderato la morte.

Un ragazzino, una ragazzina dell’età di 17 anni oggi ha già fatto l’esperienza di quattro guerre prima della attuale: le operazioni Cast Lead (2008), Pillar of Defense (2012), Protective Edge (2014), Guardian of the Walls (2021). A migliaia sono stati uccisi, feriti, usati come scudi umani, hanno perso genitori, fratelli, parenti, amici; in centinaia di migliaia hanno subito traumi e hanno vissuto nella paura che la loro vita potesse essere ancora sconvolta da un momento all’altro.

Ma i bambini non hanno solo vissuto in un contesto di violenza, è la loro stessa esistenza ad essere stata criminalizzata. Il mantenimento della sovranità coloniale attraverso mezzi legali, politici e spaziali è stato giustificato da uno stato continuo di emergenza, un controllo pervasivo sulle vite palestinesi. Le forze armate israeliane negli ultimi anni hanno arrestato, interrogato e incarcerano 700 bambini (Timea Spitka, 2023, p. 116) in media ogni anno, i loro corpi sono stati oggetto di sperimentazione per l’esercito israeliano, per i contractor della difesa e le imprese della sicurezza e della sorveglianza che vendono le loro tecnologie in tutto il mondo con la garanzia di essere state sperimentate “sul campo”.

Per anni è stato lecito irrompere nelle case e arrestare i bambini (anche di 4 anni) nel cuore della notte, caricarli su camionette e autobus e trasferirli nelle carceri israeliane, picchiarli e terrorizzarli impunemente.

Attualmente l’età della responsabilità penale per i bambini nelle zone occupate è di 12 anni, ma anche a una età inferiore sono stati tenuti in stato di detenzione all’insaputa dei genitori e torturati senza accuse precise, senza un processo e senza una rappresentanza o sono stati giudicati da tribunali militari, cosa che non accade in nessun altro paese del mondo. Il recente rapporto di Save the Children, Injustice, rivela le torture inflitte ai bambini nelle carceri israeliane e durante gli interrogatori: bendati, minacciati, chiusi in gabbie metalliche all’esterno delle carceri, lontani dai genitori. Con la frase rivolta a un bambino che invoca i genitori durante un interrogatorio: “Non ci sono mamma e papà qui”, il senso di sicurezza infantile è distrutto. Prima della guerra attuale i bambini della striscia di Gaza con gravi problemi psichici sono stati valutati in 250.000 ciascuno di loro esposto ad almeno tre diversi traumi. Violenze, soprusi, attacchi dei coloni, passaggi quotidiani negati ai check-point, perquisizioni, carcerazioni, sfratti, demolizioni delle abitazioni, uccisioni, mutilazioni hanno avuto un effetto distruttivo sulle loro vite spingendoli in molti casi al suicidio; essi sanno bene che non fermarsi a un check-point, esibire un coltello o un paio di forbici a un soldato israeliano, significa essere uccisi sul posto, uccisioni ripetutamente lodate da esponenti del governo come “parte della deterrenza di Israele”, così come quelle avvenute durante le manifestazioni.

Niente scuse, nessun accertamento, nessuna punizione, nessuna espressione di rammarico per aver ucciso un bambino palestinese “per necessità militare”. Le uccisioni di bambini ai chck-point, per le vie, nel corso delle manifestazioni non sono stati episodi meritevoli di indagine e sono stati condonati. Tra il 2008 e il 2021 333 ragazzi e 20 ragazze sono stati uccisi e 27.471 ragazzi e 2.527 ragazze sono state ferite da colpi di arma da fuoco; molte di queste ferite hanno causato infermità permanenti (Timea Spitka, 2023, p. 111).

Ma è stato soprattutto attraverso la negazione delle condizioni sociali che consentono la persistenza, il sostentamento e il prosperare della vita che Israele per lungo tempo ha privato i bambini palestinesi della vita ancor prima che venissero uccisi in massa, una forma di eliminazione che da alcuni studiosi e alcune studiose è stata definita un “genocidio al rallentatore”, un “genocidio come pratica sociale”, ovvero una politica che deliberatamente ha inflitto condizioni di vita che hanno condotto al deterioramento fisico per mancanza di cibo, acqua, elettricità o attraverso la distruzione dell’ambiente.

Per mantenere la sua esistenza come uno stato etnicamente esclusivo, il colonialismo israeliano ha reso i bambini sterminabili, in una condizione di terrore in prigioni all’aperto dove ad essi è stato negato l’accesso alla vita, all’educazione, al gioco, alla salute, al movimento. Controllo e sorveglianza sono entrati negli aspetti più intimi dell’esistenza di bambini e ragazzi, una invasione di cui essi sono pienamente consapevoli. Una ragazzina di 14 anni ha scritto:

Il 27 ottobre, andando a scuola, ho visto un ragazzo palestinese che camminava per la strada. I soldati lo hanno fermato, lo hanno perquisito e lo hanno picchiato, poi lo hanno arrestato perché si era rifiutato di togliersi le mutande per la perquisizione. Io li sfido quando mi toccano, ma il modo in cui portano i loro fucili è per farmi sentire come se stessero per uccidere me o i miei compagni, e sparano a sinistra e a destra e poi ci accusano. Ogni giorno dobbiamo affrontare le perquisizioni, arriviamo tardi a scuola, attraversiamo i check-point militari. Loro ci inseguono, nelle strade, a casa, nel letto, a scuola e anche nella tomba (Nadera Shalohub-Kevorkian 2019, p.128).

Così come sono consapevoli della volontà di annientare le loro vite. Lo rivela Mahmoud, una delle tante testimonianze raccolte da Nadera Shalohub-Kevorkian:

Mi ha raccontato che ogni giorno le forze di sicurezza israeliane bloccano la zona di casa sua e gli impediscono di comprare caramelle al vicino negozio, di giocare con i suoi amici e sedere sulle scale davanti a casa sua […] Mi ha spiegato come lui e sua sorella sono vessati quando vanno a scuola; ma dopo aver detto: “Non ho paura di loro” si è fermato per un minuto e poi ha detto: “Cosa possono farmi? Uccidermi perché voglio giocare, voglio vivere? Che mi uccidano, è tutto quello che possono farmi, che mi uccidano, è tutto quello che possono farmi. E il notiziario dirà: “Mahmoud scese per giocare con il suo skateboard; li ha spaventati e lo hanno ucciso” (ivi, p.136).

Eppure, molti di loro prima dell’ultimo attacco israeliano avevano preso le distanze da Hamas che giudicavano corrotto, in molti avevano organizzato proteste nonviolente (Timea Spitka, 2023, p. 130) e non avevano perduto la speranza che il mondo avrebbe riconosciuto l’ingiustizia che aveva colpito la loro vita, come Lila, 12 anni e mezzo, che in un attacco israeliano aveva riportato gravi ustioni alle gambe.

Vedi, vivo in una condizione di soffocamento, ma dico a me stessa: “No, Lila, tu non soffochi, tu stai respirando”. Devo vivere con le gambe ustionate e con il cuore spezzato […] ma sono una sorella maggiore di 12 anni e mezzo e devo dimostrare alle più piccole quanto sono forte. Devo comportarmi come se tutto andasse bene, come se tutto dovesse andare bene. Ma quando vado a dormire ricordo il mio dolore, la mia perdita. Mi ricordo delle bugie che ho detto alle mie sorelle, che il mondo è consapevole dei crimini di Israele, che il mondo li vede e che troverà il modo di salvarci perché siamo bambine e abbiamo dei diritti (ivi, pp. 107-108).

Il mondo, che ha chiuso gli occhi sulla tragedia dei bambini di Gaza, potrà ora prestare ascolto al recente appello degli studiosi del genocidio di tutto il mondo: fare pressione sui governi affinché attuino un embargo delle armi contro Israele, ottengano la fine dell’azione militare, chiamino in causa la Corte penale internazionale per il perseguimento dei perpetratori della violenza di massa dal 7 ottobre in poi, diano avvio a un processo politico che conduca al riconoscimento della violenza di massa israeliana a partire dal 1948, primo passo per la decolonizzazione. L’appello inoltre invita a seguire l’esempio dei sindacati dei lavoratori del trasporto belgi che si sono rifiutati di caricare e scaricare armi dirette a Israele e hanno chiesto al proprio governo di non tollerare passaggi di armi sul suolo belga. “Come sindacati – hanno dichiarato numerose sigle – stiamo dalla parte di coloro che si impegnano per la pace”. Al movimento “Block the Boat” hanno aderito attivisti e lavoratori di molti porti: dal porto di Oakland a quelli di Genova, Napoli e Livorno, Sidney, Barcellona, Tacoma.

Ma sono molte le azioni di disobbedienza, protesta e disconoscimento che si possono mettere in atto affinché le speranze di bambini e bambine come quelle delle sorelline di Lila non vengano anch’esse sepolte sotto le macerie.


Bruna Bianchi

18/12/2023 https://comune-info.net

[Questa pagina fa parte di Voci di pace, spazio web di studi, documenti e testimonianze a cura di Bruna Bianchi]

Immagine: Foto di Hosny Salah per Pixabay


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