La città, la democrazia, la rendita

Partiamo da Milano, città alla ribalta dell’ormai declinante estate 2025 per via delle inchieste urbanistiche ed edilizie. Gran parte delle riflessioni pubbliche (su queste pagine lo ha sottolineato Enzo Scandurra: https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2025/07/22/la-milano-da-bere-si-e-ubriacata-di-liberismo/si sono concentrate sulle indagini e sulle possibilità, in base agli esiti giudiziari, di mantenere in piedi la giunta di centrosinistra. Il dibattito è stato dominato dall’assillo – già colto da Massimo Pavarini ai tempi di Mani Pulite – di incanalare il disagio sociale e il conseguente conflitto nei binari del processo penale. Ancora una volta, nella sinistra istituzionale (le voci illuminate e dissonanti sono tenute fuori dai recinti) l’atteggiamento passivo di delega al giudiziario ha finito per eclissare l’indifferibile necessità di ragionare in senso autenticamente politico (che significa anche dal basso e collettivamente) sul destino delle città e delle persone che le abitano o ne vengono respinte.

Sappiamo da dove deriva l’urgenza di affrontare il tema: nonostante la crisi del 2008, il capitalismo si è riorganizzato e continua a ristrutturarsi proprio nelle grandi aree metropolitane, soprattutto attraverso la rendita immobiliare e l’intreccio tra economia della carta ed economia del mattone. Mai come oggi, dunque, re-immaginare lo sviluppo urbano, in contrasto con queste dinamiche di “crescita senza sviluppo”, significa tout court delineare i tratti di una società inclusiva, a partire dalla configurazione spaziale. Il cuore del problema è quello messo a fuoco da David Harvey: «Viviamo in città sempre più divise, frammentate e conflittuali. La nostra visione del mondo e delle possibilità che ci offre dipende interamente dal “lato della strada” in cui viviamo e dal tipo di consumi a cui abbiamo accesso» (D. Harvey, Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, tr. it. 2013, Milano, p. 34).

Il conflitto tra “lati della strada” non è una situazione locale contingente, ma un dato strutturale delle grandi città del capitalismo avanzato, trasformate in laboratori estremi della rendita: da una parte chi investe, dall’altra chi lavora e abita (o, meglio, prova ad abitare); da un lato la finanza, i grandi fondi e le piattaforme digitali che divorano spazi, case e botteghe, dall’altro la vita quotidiana di chi è spazzato via. Sotto le insegne di ‘riqualificazione’, ‘rigenerazione’, ‘valorizzazione urbana’ – inseguite dai progressisti mainstream e firmate dall’archistar di turno– continua ad andare in scena la trasformazione degli immobili in prodotti finanziari, il disallineamento totale tra valore primario e d’uso del bene casa e il suo valore quale titolo sul mercato. Se quartieri un tempo popolari diventano le quinte di grandi eventi – è indifferente che si tratti di Olimpiadi o di Expo: in Italia, tutto si è messo definitivamente in marcia con i Mondiali di calcio del 1990 e con le Colombiadi – e di opere di rinnovamento urbano destinate al consumo di lusso, i suoli e il patrimonio edificato aumentano di valore. A catturare questo incremento, però, non sono le casse dei comuni e i servizi per i cittadini – già defraudati dal basso costo degli oneri concessori –, ma i fondi di investimento immobiliare, i proprietari grandi e piccoli, le piattaforme digitaliFacile individuare le vittime: a quanti pensionati, lavoratori e lavoratrici impoveriti, riders, precari o migranti può essere rinnovato il contratto di affitto, se Airbnb offre locazioni turistiche brevi da cui guadagnare quattro volte tanto? Quanti potranno permettersi di acquistare o affittare una casa nelle città in cui devono lavorare, se quelle città sono diventate piattaforme di investimento e le case asset da valorizzare?

I ceti popolari e medi sono costretti a lasciare le proprie abitazioni che, per quanto fatiscenti o bisognose di interventi, costituivano la sicurezza sociale ed esistenziale in cui veniva investito il frutto di una vita di lavoro e sacrifici. Accade negli scali milanesi, così come nei Quartieri Spagnoli di Napoli o nel quartiere Ostiense di Roma. Quando la città e la casa si trasformano in merci, i più poveri diventano scarti di produzione, rifiuti da espellereL’unica via che possono imboccare è quella delle estreme periferie, dei centri suburbani, dell’hinterlandPer andare a lavorare nelle aree metropolitane, però, si comprino la macchina elettrica, ché il loro vecchio diesel inquina e non può accedere nelle città green; o rinuncino al tempo libero e rischino la vita a fare i pendolari su mezzi di trasporto obsoleti, lenti e inadeguati, ché i fondi devono essere assorbiti da TAV e Ponte sullo Stretto. Il capitalismo è pragmatico e non esita a sprigionare la sua voracità sotto vessilli – green deal è il primo – che, inseguiti senza pensiero critico, conducono a destini opposti da quelli che promettono.

Accanto a questo spostamento delle risorse dai piani bassi ai piani alti della società, si colloca il pugno di ferro che cala sul dissenso e sulle lotte dei poveri, delle classi subalterne: daspo urbani, zone rosse, pattugliamenti, sgomberi, repressione penale (https://volerelaluna.it/controcanto/2025/05/26/il-decreto-sicurezza-una-visione-autoritaria-che-mira-a-farsi-sistema/ ). Rendita e repressione sono una coppia che ben rappresenta il matrimonio tra neoliberismo e autoritarismo. Su questo gli Stati Uniti hanno aperto sentieri nuovi e continuano ad aprirli, su scala interna e globale: nelle intenzioni di Trump, non a caso nato come immobiliarista, il genocidio israeliano potrebbe culminare in un piano postbellico che, stando alle rivelazioni del Washington Post, prevede di trasformare Gaza in un insieme di città scintillanti e di offrire ai palestinesi sopravvissuti e cacciati monete digitali in cambio delle loro case. Ancora una volta, denaro (da supporre deprezzato) in cambio di vita, naturalmente sotto il controllo dello scarpone militare. Una colossale espropriazione di territori e abitazioni che richiama, prima di tutto, un crimine ‘genetico’ della civiltà occidentale: lo sterminio e il confinamento dei nativi americani. Rendita e repressione, dunque, diventano nemici sempre più insidiosi della città e della democrazia, a dispetto dei vuoti proclami a difesa del liberalismo occidentale.

In quest’ottica di ragionamenti, deve segnalarsi l’importanza dell’appello, lanciato da Walter Tocci nell’immediatezza delle vicende milanesi, alla mobilitazione per una nuova cultura urbana sulla base di un manifesto “Per non morire di rendita”. Anche da queste pagine, pertanto, deve pervenire l’adesione alla creazione di un’alleanza «tra cultura d’avanguardia e impegno collettivo» da cui far sgorgare «un’inedita energia politica che surroga l’assenza dei partiti nel territorio (W. Tocci, Dopo il caso Milano, un Manifesto per non morire di rendita, in carteinregola.it, 28 luglio 2025). Un’alleanza tra attivismi e saperi diversi, dalla sociologia all’urbanistica, dall’architettura al diritto. Da giurista e magistrato mi chiedo, ad esempio, da quanto tempo manchi un’indagine sul campo e una riflessione teorica sulle locazioni e sulle loro vicende contrattuali, nonché sull’edilizia residenziale, al fine di pensare soluzioni normative che consentano a persone e famiglie di avere un tetto sulla testa.

Affrontare questi temi – decidere, ad esempio, se la rendita possa essere combattuta ‘a valle’ o se debba essere incanalata ‘a monte’ verso i beni comuni (la radicalità dell’alternativa “a valle”, costitutiva di un modello di “sviluppo senza crescita”, è ben tracciata dal fondamentale B. Pizzo, Vivere o morire di rendita. La rendita urbana nel XXI secolo, Roma, 2023) – e allargare al massimo la partecipazione significa ragionare a tutto tondo della sostanza e della forma che intendiamo dare alla democrazia. È il passato, ancora una volta, a ricordarci questa lezione. Quando Fiorentino Sullo, da ministro dei Lavori Pubblici – siamo nel 1962 – mise a punto un disegno di legge per separare la proprietà dei terreni dal diritto di edificare, al fine di non far incamerare la rendita ai proprietari, si creò l’humus non soltanto per un clamoroso rifiuto istituzionale – il progetto fu rinnegato dallo stesso partito del ministro, la Democrazia Cristiana –, ma anche per quel clima di reazione che, due anni dopo, sfociò nel progetto golpista di De Lorenzo.

Ora che il “blocco edilizio” è diventato ancora più esteso, esplicito e pericoloso di quando fu profetizzato (V. Parlato il manifesto Rivista, n. 3-4, marzo-aprile 1970), la risposta politica deve essere netta.

Riccardo De Vita

12/9/2025 https://volerelaluna.it/

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