La pace che sigilla l’occupazione
L’accordo tra Netanyahu e Hamas appare vuoto: non limita l’uso della forza israeliana né prevede garanti credibili. I palestinesi rischiano un protettorato coloniale. È propaganda credere che possano “festeggiare” — tutto serve a giustificare la prossima violenza.
L’accordo che chiude il cerchio della finzione
L’intesa raggiunta tra il governo israeliano e Hamas è stata salutata come un passo verso la pace. In realtà, assomiglia più a una tregua teatrale, una pausa studiata che consente a Israele di rifiatare, riorganizzarsi e poi riprendere l’offensiva con l’ennesimo pretesto.
Dietro la facciata diplomatica, infatti, non c’è alcuna svolta concreta. Il testo dell’accordo parla vagamente di un ritiro delle truppe israeliane da Gaza, ma non prevede né controlli effettivi né limiti all’uso della forza. In pratica, Israele resta libero di tornare a colpire quando e come vorrà, come se nulla fosse.
La mancanza di garanzie è disarmante. Nessun meccanismo di vigilanza, nessuna forza di interposizione, nessuna autorità internazionale che possa intervenire in caso di violazione.
E allora la domanda è inevitabile: chi fermerà Tel Aviv se deciderà di riscrivere unilateralmente i termini dell’accordo? Gli Stati Uniti, eterni complici? L’Unione Europea, assente per imbarazzo? O forse i mediatori regionali — Turchia, Qatar, Egitto — che non hanno né la forza né l’interesse per opporsi davvero all’occupante?
Il risultato è un documento che serve più a guadagnare tempo che a costruire una pace reale.
Il diritto internazionale ridotto in macerie
La vera vittima di questa intesa non è solo la Palestina, ma il diritto internazionale stesso. L’accordo è stato concluso senza il coinvolgimento dell’ONU o di altri organismi terzi, come se la comunità globale non avesse più titolo per intervenire. Il genocidio di Gaza — con decine di migliaia di morti, intere città rase al suolo e una popolazione condannata alla fame — ha demolito anche quel residuo di credibilità che la legge internazionale conservava.
Ora la “pace” sancita dal patto non è altro che una formalizzazione della sconfitta diplomatica del mondo civile.
Secondo quanto trapelato, i territori palestinesi finiranno sotto un protettorato de facto: un’amministrazione coloniale mascherata da mediazione, incaricata di contenere la rabbia e il desiderio di libertà di un popolo umiliato. Non una soluzione, ma una prigione più grande, costruita con il consenso dei potenti.
Nel frattempo, in Italia, alcuni giornali hanno raccontato di “festeggiamenti” tra i palestinesi per la liberazione dei prigionieri. È una narrazione offensiva, priva di riscontri nelle principali testate internazionali, che riduce una tragedia umanitaria a un siparietto folkloristico.
Dopo settantamila morti, duecentomila feriti e la distruzione quasi totale delle abitazioni, nessuno ha davvero motivo di festeggiare. Ma la propaganda ha bisogno di immagini rassicuranti: serve a convincere il pubblico che “una soluzione” esiste e che, se la pace verrà nuovamente infranta, la colpa sarà dei palestinesi stessi, “ingrati” di fronte alla magnanimità dei loro oppressori.
È così che si prepara la prossima guerra: con il racconto di una pace mai nata, di una felicità inventata, di una libertà che resta proibita.
Zela Santi
10/10/2025 https://www.kulturjam.it/










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