La visione d’insieme sulle stragi italiane

Formule come «strategia della tensione» e «strage di Stato» hanno resistito alla prova del tempo perché colgono una verità, seppure nella maniera parziale e imperfetta con cui la coglie ogni modo di dire. E perché negli anni una comunità di parlanti e scriventi ha continuato ad adoperarle  

Ci sono un paio di luoghi comuni ben noti alla gente del mestiere, veri nella misura in cui sono veri i luoghi comuni. Uno dice che la Storia è sempre contemporanea, e si sa che è farina del sacco di Benedetto Croce.

Quando lo svolgimento della cultura del mio momento storico […] apre innanzi a me il problema della civiltà ellenica, della filosofia platonica, o di un particolare atteggiamento del costume attico, quel problema è così legato al mio essere come la storia di un negozio che sto trattando, o di un amore che sto coltivando, o di un pericolo che m’incombe; ed io lo indago con la medesima ansia, sono travagliato dalla medesima coscienza d’infelicità, finché non riesco a risolverlo.

Così Croce, in Teoria e storia della storiografia (1917).

L’altro luogo comune dice che la scrittura d’invenzione, non cosciente chi la scrive, talvolta anticipa la realtà. 

ricordo di aver scritto, mi pare nel 1978, un romanzo nel quale Sarti Antonio correva alla stazione di Bologna dov’era stata piazzata una bomba. […] Fantasie, ovviamente, ma forse nell’aria ci sono i sintomi di ciò che sta per (o potrebbe) accadere e chi ha antenne sensibili coglie quei sintomi. 

Questa la risposta sarcastica rifilata dal giallista Loriano Macchiavelli a un intervistatore che lo voleva iscrivere a forza tra i dietrologi della Strage alla stazione di Bologna, per via di un vecchio suo romanzo: opera, appunto, di fantasia. L’intervista è riportata e commentata nel saggio esemplare che Paolo Morando ha dedicato alla ricostruzione delle responsabilità nella carneficina del 2 agosto 1980, La strage di Bologna. Bellini, i Nar, i mandanti e un perdono tradito (Feltrinelli, 2023).

L’implicazione politica di questi due luoghi comuni è piuttosto ovvia. Le questioni che agitano la coscienza collettiva di una società in una certa fase della sua storia sono riflesse anche in quanto, cosa, come e per chi si scrive, e attorno a quali fatti, veri o finti (il finto include il verosimile). 

Non è per coincidenza, o non solo, che negli ultimi due anni sono usciti molti libri sullo stragismo politico del secondo Novecento in Italia. Possiamo ragionare dei motivi, nell’anniversario, il cinquantacinquesimo, del giorno dell’innocenza perduta: facciamolo nella memoria di Licia Rognini Pinelli (1928-2024). Non che il filone dei libri sulle stragi si sia mai davvero inaridito, alimentato com’è dalla falda dei «misteri italiani». A dire che la falda è però esausta, o quantomeno pericolosa da sfruttare ancora, è qualcuno che se ne intende. Nella prefazione al libro di Cinzia Venturoli, Storia di una bomba. Bologna, 2 agosto 1980: la strage, i processi, la memoria (Castelvecchi, 2020), Carlo Lucarelli racconta di una volta che si era trovato a presentare un libro insieme a Paolo Bolognesi, il presidente dell’Associazione tra le vittime del 2 agosto:

Io continuavo a parlare di misteri, Misteri Italiani, e lui, giustamente, mi sgrida. «I misteri sono quelli della fede, dice, questi sono fatti concreti, azioni umane, sono, più laicamente e concretamente, segreti. […] Nascosti da qualche parte, in un archivio, dentro un cassetto, magari in triplice copia, o nella testa di qualcuno, ma segreti. E come tali, prima o poi, si possono trovare, si possono ricostruire, si possono svelare».

Benedetta Tobagi, recuperando le parole di Lucarelli nel suo contributo per la collana «Fact Checking» di Laterza, Le stragi sono tutte un mistero(2024), altrettanto giustamente chiosa:

La retorica dei misteri ha preso piede proprio perché le zone d’ombra e di vera e propria impunità, riguardo alle stragi, restano tante.

Chi voglia occuparsi oggi della strategia stragista che ha segnato la storia dell’eversione reazionaria nell’Italia repubblicana ha motivi per farlo molto più solidi di un mistero. Alcuni sono quasi banali, attengono alla cronaca dell’attualità, e non significa che siano meno importanti, anzi. A Brescia è in corso il processo contro due militanti veneti di Ordine nuovo, Marco Toffaloni e Roberto Zorzi, accusati di essere tra gli autori della strage di Piazza della Loggia. Tra il 2020 e quest’anno, a  Bologna si sono invece conclusi il primo grado e l’appello dei due distinti processi contro Paolo Bellini e Gilberto Cavallini: l’uno militante di Avanguardia nazionale, collaboratore dei servizi segreti militari, l’altro esponente dei Nar e in contatto con vari altri gruppi del terrorismo neofascista, entrambi accusati di essere tra gli autori della strage del 2 agosto: le condanne emesse in primo grado, all’ergastolo per tutti e due, sono state confermate in appello.

Oltre a svolgere la loro funzione specifica, che è di accertare le responsabilità penali individuali degli imputati, i processi recenti stanno tentando di ricostruire anche il contesto storico in cui lo stragismo ha avuto luogo. Non potrebbe essere diversamente: gli imputati in questi processi agivano all’interno di organizzazioni, ora palesi ora segrete, e lo stragismo è stato appunto un fenomeno animato da organizzazioni, dal convergere o dal divaricarsi dei loro obiettivi e interessi. Dunque non si capiscono le responsabilità individuali se si tralascia il contesto, fermo restando che la storiografia procede dal particolare al generale, mentre la giurisprudenza dal generale delle norme al particolare del caso concreto. Cioè non spetta al giudice di fare lo storico; ma di saperne di metodo storico sì, gli spetta, quando deve misurarsi con la lunga durata di fenomeni a un tempo eversivi (reazionari, nella specie) e criminali (ossia rilevanti per il diritto penale): ne parla Benedetta Tobagi nel libro di cui sopra.

Sta di fatto che dai processi degli ultimi anni, come dal lavoro della storiografia, emerge sempre più chiaramente quella «verità d’assieme» sul terrorismo di destra che il sostituto procuratore Mario Amato riteneva di aver intravisto indagando il neofascismo romano alla fine degli anni Settanta, prima di essere assassinato nel giugno 1980 dai Nar (esecutori Gilberto Cavallini e Luigi Ciavardini, futuri condannati rispettivamente in appello e in via definitiva per la strage di Bologna). Proprio al magistrato palermitano è dedicato il libro di Paolo Morando sulla strage alla stazione. Un omaggio alle sue intuizioni viene anche da un altro libro, che proprio alla «verità d’insieme» è intitolato: quello di Gianfranco  Bettin e Maurizio Dianese, La tigre e i gelidi mostri. Una verità d’insieme sulle stragi politiche in Italia(Feltrinelli, 2023), un lavoro dal quale risulta una volta di più quanto il nordest italiano sia stato un luogo privilegiato dell’intreccio tra gli obiettivi dei gruppi neonazisti, Ordine nuovo in primis, e la fedeltà atlantica molto più che costituzionale dei pezzi dello Stato coinvolti nella strategia delle stragi: «anticomunismo» è il nome che sintetizza i moventi di quell’intreccio, ma non li esaurisce.

L’emergente verità d’insieme impone anche di riconsiderare qualche formula consueta, come «strategia della tensione» o «strage di Stato»: ne scrivono sia Tobagi sia Bettin e Dianese. Spiegano questi ultimi, anche sulla scorta delle riflessioni dello storico Francesco Biscione, che sarebbe meglio riferire la definizione «strategia della tensione» al quinquennio che dalla strage di Piazza Fontana e dagli altri attentati del 1969 si allunga fino a prima della strage di Brescia: con Piazza Loggia cambiano gli equilibri tra i gruppi neonazisti e la loro controparte nell’apparato statale: quella di Brescia è la più esplicitamente anti-antifascista delle stragi, dato che colpisce un comizio sindacale indetto proprio in reazione agli attentati fascisti che si stavano susseguendo in città. Allo stesso tempo, con la strage di Bologna tornano in primo piano le mire autoritarie (quando non golpiste) di quei pezzi di Stato che già avevano tessuto e retto la trama della tensione tra il ’69 e il ’74. Pezzi dello Stato, quindi istituzioni, che poi hanno anche nomi e cognomi di uomini in carne e ossa, con i loro fiancheggiatori; due nomi honoris causa, si fa per dire: Federico Umberto D’Amato e Licio Gelli. Sicché periodizzare lo stragismo eversivo non è una divisione senza resti: è invece faccenda ancor più complicata di altre periodizzazioni.

Alcune di queste espressioni, «strage di Stato» su tutte, avevano un’origine e una motivazione ideologica ben precise. C’era tutta una geografia politica dietro alla scelta dell’uno o dell’altro slogan, fa notare Tobagi. Se dicevi «strage di Stato», con il sottinteso di complessiva sfiducia verso l’arco parlamentare che quello slogan portava con sé, probabilmente giravi dalle parti della sinistra extraparlamentare; se eri del Pci preferivi «trame nere». La studiosa e scrittrice dubita però che quest’apparato lessicale possa ancora essere d’aiuto a capire davvero il fenomeno a cui si riferisce: «Strage di Stato», dice, è un motto che non rende giustizia a quel pezzo di Stato impegnato a combattere lo stragismo, invece di parteciparvi; e poi lo hanno contaminato i fascisti, quando lo hanno usato per chiamarsi fuori: essendo le stragi appunto di Stato, loro non c’entrano. Certo si può obiettare che sarebbe abbastanza semplice rompere il gioco dell’appropriazione, se si ha l’accortezza di aggiungere un aggettivo alla formula tipo: «strage fascista e di Stato». Rischi di contaminazione ce ne sarebbero ben pochi, e nemmeno si farebbe troppo torto alla verità d’insieme. Ma in fondo il problema non è questo. Sarebbe senz’altro sbagliato battersi per la conservazione di una formula, se il motivo fosse solo che quel modo di dire fa parte della nostra storia, della lingua parlata dalla nostra parte. Bisogna senz’altro partecipare, e convintamente, a ogni sforzo di affinamento del lessico, perché dal modo di nominare le cose transita la comprensione che ne abbiamo. Con una consapevolezza, però: che formule come «strategia della tensione» e «strage di Stato» hanno resistito alla prova del tempo sia perché sono icastiche, cioè colgono una verità, seppure nella maniera parziale e imperfetta con cui la coglie ogni modo di dire; sia perché negli anni una comunità di parlanti e scriventi ha continuato ad adoperarle, non abbandonandole al disuso. E ovviamente le due cose si implicano a vicenda: senza sfondo di verità, vale a dire senza il sentire collettivo attorno a questa verità, non ci sarebbe uso linguistico, o sarebbe molto meno pervicace.

Il vocabolario, la storia lo riceve dunque, per la maggior parte, dalla materia stessa del suo studio. Essa lo accetta, già modellato e deformato da un uso prolungato; ambiguo, peraltro, spesso fin dalla nascita, come ogni sistema di espressione che non sia emerso dallo sforzo severamente concertato dei tecnici.

Questo è Marc Bloch.

Accanto alla progressiva emersione della «verità d’assieme» ci sono altre ragioni che rendono contemporanea la storia dello stragismo. A dirla nei termini della cronaca spiccia, sono le frequenti prese di posizione, o all’opposto gli ostinati silenzi, dell’attuale destra di governo sui protagonisti di quella stagione. Per un Marcello De Angelis che  da portavoce del governatore della regione Lazio protestava l’innocenza dei Nar nella strage di Bologna, e lo faceva «per attaccamento ai colori sociali» (© Paolo Morando) non certo perché in grado di esibire prove a discarico, Fratelli d’Italia tace sui meriti che illustrano Pino Rauti, il fondatore di Ordine nuovo e per breve tempo segretario del Msi. Anzi, non s’imbarazza d’intitolargli qualche sua sede, e si duole di chi osi ricordare i meriti suddetti, mostrandosi anche in questo un partito neomissino. Non possono allora che essere contemporanei i libri di Davide Conti, Fascisti contro la democrazia. Almirante e Rauti alle radici della destra italiana. 1946-1976(Einaudi, 2023) e di Giuseppe Filippetta, La repubblica senza Stato. L’esilio della Costituzione e le origini della strategia della tensione(Feltrinelli, 2024). 

Ma c’è, sotto alla cronaca politica quotidiana, un tema più profondo e anche urgente, che affrontano tutti i libri citati sin qui, ciascuno a suo modo. Il problema per antonomasia della democrazia contemporanea, cioè l’integrazione delle masse nello Stato, per come la storia dell’Italia repubblicana ha fatto sì che avvenisse o fosse ostacolata. Che è poi il problema della differenza tra la Costituzione formale e quella materiale di uno Stato. Ed è il problema che in ultima analisi rende le stragi un crocevia, come scrive Tobagi (a usare l’immagine del crocevia per descrivere le stragi era stato un terrorista di destra, Fabrizio Zani). Perché lo stragismo eversivo e reazionario degli anni Sessanta e Settanta avviene all’interno di una vicenda più lunga, quella indagata da Conti e Filippetta, che rimonta alla fine della Guerra Partigiana. Nel momento in cui la lotta di Liberazione sancisce il suo esito politico e giuridico in una Costituzione che imporrebbe un modo radicale d’integrare i lavoratori nella cosa pubblica, sotto l’egida dell’uguaglianza  sostanziale e della solidarietà, e nell’immediato dopoguerra la maggioranza della classe lavoratrice organizzata esige l’attuazione del progetto costituzionale contro il potere padronale, lì si colloca la resistenza del blocco avverso alla direttiva fondamentale della nuova democrazia. La dicotomia proposta da Filippetta è efficace: a chi riconosceva la Costituzione come legge fondamentale dello Stato si opponeva chi, il blocco d’ordine, il blocco confindustriale, latifondista, notabilare, fascista, continuava a tenere per costituzione effettiva il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, anno 1931. E in nome dell’ordine disponeva gli strumenti legali e illegali, stragi incluse, per prevenire la trasformazione della società in senso progressivo.

Spesso viene fatta una domanda; l’hanno fatta tante volte anche a me: «Ma non è che, con la retorica del difendere la Costituzione, l’antifascismo si è un po’ perso, rifugiato fuori dal tempo»? La risposta che do io di sicuro sconta la deformazione professionale: sono pur sempre un giurista. E quindi dico che avere una costituzione formale costruita attorno all’uguaglianza di tutti con tutti è meglio di non averla. Siamo in vantaggio sull’avversario, almeno in astratto. L’errore è di credere che basti quella, e cioè precludersi l’orizzonte, che è un orizzonte di lotta attuale, odierna, di contrapposizione allo stato delle cose, nel quale soltanto la Costituzione può farsi materiale. È questa la contemporaneità della nostra storia.

Luca Casarotti è un giurista. Fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki insieme a cui ha scritto La morte, la fanciulla e l’orco rosso (Alegre, 2022). È autore di L’antifascismo e il suo contrario (Alegre, 2023).

12/12/2024 https://jacobinitalia.it

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