Le insidie della hi-tech e dei social network. Eremitaggio, furto d’identità e disinformazione.

Un tempo, prima dell’era informatica, se si voleva sfuggire alla solitudine ci si predisponeva alla ricerca di qualche “anima pia”. Ce n’erano tante disponibili, con cui comunicare. Bisognava semplicemente lasciarsi attraversare dalle parole dell’interlocutore che generalmente avevamo di fronte o via cavo telefonico. Un tempo remoto non bastava la tv e c’era la carta stampata, come priorità, per soddisfare la curiosità di informazione sui fatti del pianeta. Allora si usciva di casa e si andava alla più vicina edicola o libreria. C’era la folla alle edicole. E la frequentazione delle librerie era gratificante come un trattamento di benessere in una Spa. Si leggevano i quotidiani nei bar, come nelle panchine dei parchi. Ci si dedicava alla lettura di un buon saggio sprofondati sul divano di casa. Un tempo gli adolescenti stanziavano sui muretti di periferia a parlare e “sganasciarsi” dal ridere e si scambiavano i fumetti di “Diabolik”. Un tempo si leggeva e si raccontava la vita. Si leggeva. Si pensava. Si argomentava. La realtà attuale, invece, è fatta di silenzi, di rare riflessioni e di pochissimi racconti. Poco si pensa. Poco si comunica “vis a vis”, tantomeno in gruppo. L’avvento delle tecnologie informatiche ci ha rubato i pensieri e la voglia di raccontarci. Chi è attento a questa nuova realtà storica ne è cosciente. È sufficiente guardarsi intorno per capirlo. Strade, autobus, macchine e metro invasi di strana gente che parla da sola.

Un tempo, spalle curve, testa bassa e frenetica gestualità di un passante che parlava con se stesso, denotava follia o esasperazione. Ora è la gestualità che accompagna una semplice telefonata ad un amico, fatta con auricolare wifi. Un tempo erano “i matti,” ora sono i nuovi imbecilli dell’era informatica. Un’umanità addormentata nella coscienza di essere persone e nell’incoscienza di essere schiavi della tecnologia. Un’umanità con cui non ci si relaziona, se non urlando negli smartphone e iphone, se non digitando da ipad, tablet. Un’insidia inquietante è piombata sulla comunicazione, quella dell’affido totale delle sinapsi ai sistemi Android (Google) o a quelli della Silicon Valley, a cui appartengono le maggiori aziende high tech, fra cui l’affascinante e mistificante “Facebook”. Affascinante, perché difficile resistere ad un sistema che offre nel contempo massima visibilità e privacy. Mistificante, perché tutto questo è maledettamente falso. Dalla login, per accedere al network, all’eremitaggio il passo è breve. E si entra in un mondo virtuale da cui è davvero difficile uscire.

Un mondo, quello dei social network in cui si depositano le directory della nostra vita e il sistema creato nella valle del silicio cattura la nostra identità e se ne fa padrona. Lì si svolge la nostra vita parallela alla reale.Una vita leggera ed effimera in cui ci si sente centrali e visibili. L’illusione della privacy è l’avallo per snocciolare confidenze, opinioni, l’immagine del primo dentino di un figlio e del matrimonio di una sorella. Pensieri, foto di parenti e gite fuori porta, hobby, amori e tradimenti. Tutto in bella mostra sul nostro diario online e sotto gli occhi di tutti. Le abitudini quotidiane sono date in pasto alla voracità dei curiosi e agli sponsor delle aziende di settore a cui vengono veicolate per farci tartassare dallo spam. Finiamo in un grande “occhio” mediatico. Orwell ci aveva avvertito con il suo “Big Brother” (1984). “Il grande fratello vi guarda”, uno slogan metafora della perdita della privacy. Chi entra a far parte di “Oceania”, immaginario stato totalitario, è tenuto costantemente sotto controllo dalle autorità.

Così Umberto Eco: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività.Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli». (“La Stampa”). Ancor peggio di ciò che s’immagina quindi. E se a dirlo è un illustre scrittore come Eco, con una laurea honoris causa per la comunicazione e cultura dei media, difficile è da contraddire affermando che i social sono la panacea per la solitudine. Sarebbe più onesto affermare che i network, nelle più disparate situazioni, offrono illusioni di socialità agli stolti.

Sui social viaggiano a velocità supersonica un mare di imbecilli (per dirla alla Eco, quindi) che invadono le pagine di chi li accoglie fra i propri contatti. Commenti isterici. Opinioni prive di logica. Informazioni fuorvianti. Sede e crocicchio per depravati. E per minori che si prostituiscono per una ricarica telefonica o per una borsa firmata. Minorenni senza famiglia, immersi nel mare della solitudine più angosciante. Giovanissimi in mano all’iniquo adescatore che getta continuamente l’amo nella rete. Così il caso delle baby squillo romane, descritto nel romanzo di Daniele Autieri, “Professione squillo”.

E prosegue Eco nelle dichiarazioni apparse sul giornale “la Stampa”: «La tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità», e invita anche i giornalisti «a filtrare con un’equipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno”.

Infatti chi controlla la veridicità delle informazioni in rete? Chi può avallarle come attendibili? Chi ci assicura che le notizie che appaiono a valanga in rete alla velocità della luce siano realmente accadute? La mistificazione fa parte del gioco dell’informazione che deve essere veloce. Non fa nulla se sia vera o meno. Ha ragione il letterato. Ormai tutti scrivono e la maggioranza scrive imbecillità scopiazzate qua e là da fonti pressappochiste e inattendibili, appunto.

Dello stesso avviso non è Gianluca Nicoletti, giornalista della “Stampa” che in un articolo pubblicato sulla Stampa “Ecco perché Eco sbaglia”, tende a smentire l’illustre letterato. Facile confrontarsi fra geni, scienziati o letterati da Nobel. Il difficile è argomentare con chi spara frottole e fandonie, dimostrandogli che la verità e la logica non sono illazioni. La sfida dei social è questa. Ognuno può esprimere se stesso e ciò che pensa, pur dicendo eresie. Nessuno deve essere emarginato solo perché non ha lauree honoris causa. La comunicazione é libera, anche se inutile, oziosa e poco intelligente. ”Non si produce pensiero nella cultura digitale se non si accetta di stare gomito a gomito con il lato imbecille della forza» afferma Nicoletti, in risposta a quanto afferma Umberto Eco.

Tornare alla carta stampata e alla comunicazione reale, provare a raccontarsi e a raccontare è di certo oggi una sfida che potrebbe apparire, ai più, anacronistica. Di contro l’eremitaggio e l’identità perduta nella rete non sono conquiste, ma pericoli atti a produrre alienazione e corruzione. Lontani dai social? Forse è meglio frequentarli per sfidare corruzioni e imbecillità, provando a dare un senso anche alla comunicazione virtuale.

Alba Vastano

13/6/2015 wwwlacittafutura.it

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“Quello sdegno aristocratico di Umberto Eco, che non gli fa cogliere il vero tema del confronto”. Intervento di Tonino Bucci

Questa riflessione di Tonino Bucci, ex giornalista di Liberazione, in polemica con Eco, merita di essere ripresa dal suo profilo Facebook. 

Umberto Eco lamenta il declino dei tempi presenti e imputa a Facebook di aver dato la parola a intere legioni di imbecilli. Gli imbecilli, però, sono sempre esistiti e sempre esisteranno, con o senza Facebook. Ma, a parte questo, l’argomento è insidioso. Di cosa mai si dovrebbe avere nostalgia, di un mondo selettivo dove solo le élite avevano diritto di parola? Dovremmo guardare all’indietro, a un tempo passato, quando solo le presunte avanguardie illuminate partecipavano della circolazione delle idee, quando i mezzi di trasmissione di queste erano appannaggio di ristretti ceti sociali? Dubito, tra l’altro, che sia mai esistita nella storia dell’umanità un’epoca in cui la cultura – intesa in senso lato – fosse il prodotto esclusivo degli intellettuali di professione e non invece un sistema complesso di norme, idee e valori elaborato dalla società nel suo insieme. La cultura non è fatta solo dalla Critica della ragion pura o da romanzi come Il nome della rosa. Cultura sono anche le mentalità collettiva.

Al posto di Eco mi chiederei piuttosto perché i cosiddetti intellettuali di professione abbiano fallito, dal momento che loro avrebbero dovuto fare da argine all’imbecillità dilagante, visto e considerato che per lungo tempo hanno goduto del pieno sostegno degli apparati culturali tradizionali, di case editrici, università, riviste e giornali. I ceti intellettuali avrebbero potuto utilizzare il proprio potenziale per orientare ed educare l’opinione – ammesso che potessero arrogarsi un tale monopolio morale. I mezzi, li avevano. Non l’hanno fatto. Per questo la boutade di Eco sembra il grido disperato dell’intellettuale classico, se non la manifestazione piccata del suo risentimento, per essere stato scalzato da Facebook e Twitter, per non essere più al centro dell’attenzione sulla scena pubblica. Se la categoria da lui rappresentata ha perso autorevolezza agli occhi dell’opinione pubblica non è certo per colpa dei social media. Va riconosciuto che le nuove tecnologie dell’informazione hanno scardinato le vecchie divisioni del lavoro, che molte professioni intellettuali un tempo considerate prestigiose oggi sono state discreditate e precarizzate (gli insegnanti, vero?) – anche per effetto della Rete, come dimostra lo stato del giornalismo. Sono processi profondi, contro i quali non c’è resistenza che tenga, processi che alla vecchia figura dell’intellettuale “legislatore” di valori a tutto campo, hanno sostituito figure più agili e flessibili di intellettuali specializzati (web designer, social media manager, agenti di pubblic relations) e il cui compito consiste nella “traduzione” e divulgazione di contenuti e valori del proprio campo specifico. Eppure, tutto ciò non basta a costruire un alibi. Se, una volta passati di scena i Pasolini e gli Sciascia, i Calvino e i Sanguineti, gli intellettuali sono diventati impotenti, questo lo devono anche a se stessi e all’essersi accomodati, un passetto alla volta, a recitare il ruolo di chierici del potere.

Ma se proprio vogliamo discutere di Facebook e compagnia bella, altri forse sono gli aspetti su cui valga la pena discutere. Piuttosto che lamentarsi con sdegno aristocratico per il potere di parola degli imbecilli, occupiamoci di come proprio le persone di media cultura utilizzano i social media. L’aspetto più dirompente è che Facebook ha trasformato la scena pubblica in uno sterminato spazio di esibizione del proprio privato. A questo esibizionismo non si sottraggono neppure i più culturalmente dotati. Lasciamo pure perdere di quanto pericolosamente questa società della comunicazione assomigli sempre più a una società del controllo orizzontale, in cui non solo tutti controllano tutti senza bisogno di un’autorità superiore, ma ognuno concede spontaneamente e con piacere tutto il proprio Io privato allo sguardo altrui.

Non passa giorno senza che milioni di utenti Facebook nel mondo non facciano un resoconto accurato delle proprie faccende domestiche, della lista delle spese future da approntare, dello stato del proprio umore, dell’ultimo litigio con il ragazzo o che diffondano proverbi, messaggi d’amore universali, aforismi in salsa sentimentale, saluti e baci. Una melassa di buoni sentimenti spalmata in bella vista convive fianco a fianco con l’esibizione delle pulsioni più feroci. Facebook è il regno di amorevoli madri e padri di famiglia che tra una foto e l’altra dei propri bambini invocano pulizia etnica e forni crematori per gli zingari fin dalla tenera età. Chi augura all’odiato collega di lavoro una lenta morte fra atroci tormenti, chi spande urbi et orbi stucchevoli messaggi d’amore ad amici e amiche del cuore.

Tanto più nei rapporti privati reali diventiamo taciturni, tanto più soffriamo di incomunicabilità, tanto più fatichiamo a costruire rapporti affettivi, tanto più i sociologi iniziano a lanciare l’allarme per la crisi delle relazioni sentimentali e private nei paesi del Nord Europa, quanto più siamo sopraffatti dal bisogno irrefrenabile di confessarci, raccontarci e metterci a nudo. Facebook non nega a nessuno la possibilità di costruirsi un Io privato pubblico, una interiorità tutta da raccontare, un canale di sfogo ad ambizioni letterarie – certo non sempre fondate -, una sensazione di onnipotenza al limite dell’egocentrismo e del delirio. Desideriamo esibire i nostri sentimenti in questa immensa vetrina sociale, ma siamo spesso incapaci di comunicare con le persone in carne e ossa con cui conviviamo.

Chi è incapace a sollevare lo sguardo dal tran tran quotidiano e incrociare quello altrui, chi ha perso per strada qualsiasi dote di introspezione psicologica e chi non l’ha mai avuta, può trasformarsi su Facebook in campione d’ineguagliabile profondità psicologica, nonché implacabile cacciatore di I like. Non occorre citare i comportamenti sociali più estremi – violenze domestiche, stupri, pedofilia – per testimoniare della difficoltà di costruire e gestire rapporti umani. È la stessa quotidianità della nostra vita affettiva e relazionale a entrare in crisi. Tanto più su Facebook allestiamo in scena un io traboccante di sentimenti, aforismi e frasi retoriche a effetto, quanto più nella vita reale non ci resta più nulla da dire.

È il paradosso della società della comunicazione. Siamo sempre connessi e tra Facebook, Twitter, Skype, WhatsApp o Viber abbiamo soltanto l’imbarazzo della scelta di come collegarci agli altri. Sartre diceva che non ci accorgiamo dell’inferno che è qui tra noi nel quotidiano, nelle relazioni tra individui, perché siamo sempre esposti al rischio di divenire opachi come le cose, inautentici, persone di malafede, cose tra le cose. Con la sola differenza che ai suoi tempi non esisteva Facebook per leggere nel post del proprio convivente la sua anima.

14/6/2015 www.controlacrisi.org

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