Libro. Volevo soltanto salvare le mie parole
di Giorgio Bona
Intervista all’autore a cura di Alberto Deambrogio
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Hai detto di essere stremato dopo la scrittura di “Volevo soltanto salvare le mie parole”, quasi in risonanza con la faticosa vita di Osip Mandel’stam. Ci vuoi parlare della genesi del tuo nuovo romanzo?
Giorgio Bona. Il romanzo l’ho portato per lungo tempo dentro. Erano parole che si agitavano in testa ma non facevano presa sulla carta. Allora erano appunti, pensieri, riflessioni, pause, trascrizioni.
Tutto ha avuto inizio nel 1981, la mia prima volta in Russia. Da studente ero venuto in contatto con la grande tradizione poetica russa, Osip Mandelstam, Sergej Esenin, Velemir Chlebnikov, Narina Cvetaeva e Anna Achmatova. Questi per me i più grandi di quel periodo, senza trascurare altri come Vladimir Majakovskj, Vjaceslav Ivanov, Boris Pasternak, Aleksandr Block.
Cercai e acquistai le opere complete di questi autori, non era facile, ma non disperai e portai a casa il mio frutto. Già allora pensai che un domani avrei dedicato loro qualcosa per restituire quello che loro mi avevano dato.
La scelta cadde su Osip Mandelstam quando diversi anni dopo lessi “L’epoca e i lupi” della moglie Nadezda che è la coprotagonista del libro e che ha un ruolo importante nella vita del poeta. Nel romanzo racconto gli ultimi mesi di Osip prima della deportazione, dove morirà in un campo di transito verso la Siberia stremato e privo di forze, poi sepolto in una fossa comune. Ancora oggi non si sa dove siano i resti del poeta perché il corpo non fu mai più restituito alla moglie.
Il romanzo cerca di ricostruire il periodo più duro e più martoriato della vita di Osip, giorni terribili, vissuti tra gli stenti, privo anche dei beni di prima necessità, senza neanche una tessera alimentare di quarta classe. Ma la poesia sarà sopra tutto e lui tra i tanti veti che gli verranno imposti continuerà a scrivere.
Così, pur messo in ginocchio davanti alla storia, potrà donare al mondo ancora dei versi bellissimi.
A. D. Nell’ultima lettera a Osip, Naredza, la sua compagna, scrive: – …possibile che proprio a noi inseparabili dovesse avvenire tutto questo? Noi cagnolini, tu angelo, ce lo siamo meritato? E tutto va avanti -. Come hai plasmato questo dramma esistenziale dentro la tragicità storica di un’epoca?
Giorgio Bona. Ho sottolineato prima il ruolo che ebbe Nadezda nella vita del poeta. Durante gli anni i ruoli mutarono perché lei rappresentò la vera forza, la resistenza, per andare avanti mentre il cappio si stringeva al collo del marito dopo aver scritto quella poesia su Stalin definito, in quei versi non graditi, “Il Montanaro del Cremlino”.
Nadezda fu colei che salvò l’opera del poeta con la forza della volontà e della memoria, perché tenne a mente versi e prose che la polizia segreta portò via durante le perquisizioni e li restituì negli anni a venire.
La cassaforte della mente
Dopo l’arresto li riscrisse sulla carta, nascondendoli e portandoli con sé durante la terribile esistenza da nomade che dovette fare per salvarsi da continue persecuzioni.
Fu anche una storia d’amore veramente profonda, pur senza trascurare le scappatoie di Osip nel libro non ne parlo perché si riferiscono ad anni precedenti, (ovvero i primi anni di matrimonio), una storia vissuta intensamente anche nel quotidiano, facendo la fame, senza un rublo per acquistare soltanto il pane, vivendo quasi di elemosina come due mendicanti.
È un amore puro, altissimo anche se ogni tanto sconfina dentro quegli spazi che non gli“appartengono: risentimento, rimpianto, nostalgia, sentimenti che non si potevano evitare“visto i tempi correnti.“Sarà lei la memoria.“Sarà il suo compito ricordare.
Dal momento che Osip è condannato, che i suoi versi non possono vedere la luce, lei, di“sua spontanea volontà, sarà la custode di quei versi proibiti.“A tutto questo non possiamo dimenticare i poeti amici di Mandelstam, Marina Cvetaeva e“Anna Achmatova e altri, una generazione perseguitata, esiliata, umiliata, che restituisce il“dramma di un’epoca che passa dall’entusiasmo rivoluzionario all’angoscia quotidiana“causata dall’emarginazione, dall’isolamento, con il terrore che anche l’amico più caro ti“possa denunciare o tradire.“Senza Nadezda Osip forse non avrebbe potuto essere se stesso e la stima e l’amore che“aveva per lui, nonostante le sue ferite, il dolore che si portava dentro, lo dimostrò in tutto“per tutto, amandone anche i punti deboli, i difetti e, come ho detto prima, i tradimenti del“passato.“La memoria di Nadezda sarà l’involucro di due autobiografie, perché accanto a quella di“Osip con la ricchezza dei suoi versi, ci sarà anche a propria. E la sua qualità di autrice“emergerà in seguito con gli scritti legati alle sue memorie.
A. D. Alla fine del romanzo crei uno spazio per la bibliografia che ti ha accompagnato nel lavoro di scrittura. In realtà nel romanzo vive direttamente la poesia di Osip. Ci puoi dire come sei arrivato alla scelta di quei frammenti e quale impulso danno alle pagine in cui sono inseriti?
Giorgio Bona. Dalle parole di Mandel’stam e dai poeti perseguitati del suo tempo qualcosa pare emergere; la poesia sembra l’unica arma che fa paura ai potenti e per questo bisogna isolarla, svuotarla, chiuderla in un serraglio al servizio del potere che vuole sottometterla.
La repressione del canto libero
Come svuotare l’essenza della parola dal suo primordiale contenuto
Non si cancellano le parole, anche quando graffiano, anche quando lasciano il segno.
Osip aveva questa ferma convinzione: un verso dura più di un uomo.
È contro questo pensiero che si è scontrato il potere sovietico. È un eterno conflitto, duro, brutale, tra Osip e il potere. Ma il potere non si scontra con un uomo, si scontra contro la sua parola, l’essenza della sua parola.
Ecco che allora la poesia vuole essere la rappresentazione del vero e il potere è menzogna. E la menzogna si cela con la repressione, isolando la parola, chiudendola.
Ho deciso così di dare spazio ad alcuni passaggi dei versi bellissimi di Mandel’stam. La maggior parte dei titoli di ogni capitolo è un passo poetico di Mandelstam e la scelta dei testi sono legati alla tematica di quei capitoli. Tutto il romanzo è un omaggio alla poesia di Osip.
La poesia resta per l’eternità. La poesia fa paura ai potenti perché non si può fermare. Il potere ha paura della poesia perché la poesia è verità, cancella la menzogna, smaschera sentimenti come la violenza, la cattiveria, l’infedeltà. Non dà spazio alla perfidia e alla miseria.
E torno a mettere in campo il ruolo di Nadezda, fondamentale per quei versi così intensi, belli. Nadezda in russo significa speranza ed è singolare trovarsi davanti all’assenza di speranza nella vita di Osip.
A impedire la totale tragedia della vita, che le tracce lasciate dal poeta si perdessero completamente, è servito conservare la speranza tenendo in vita i suoi versi. Grazie a Nadezda Mandelstam è diventato uno dei più grandi poeti de secolo scorso, uno dei più importanti, Nadezda fu anche in seguito il fulcro di una resistenza intellettuale e spirituale che sfidò il regime fino all’ultimo grammo di vita della sua esistenza vissuta in memoria della poesia del marito.
A. D. Osip è stato sicuramente un folle in cristo, figura tipicamente russa, un uomo in grado di consacrarsi alla propria ossessione. Vuoi parlarci del nodo, ben presente nel romanzo, che unisce paura, disperazione e resistenza?
Giorgio Bona. Con Cristo Osip può contare gli anni di persecuzione che dovette subire prima della sua tristissima fine.
E se i testi sacri ci dicono che Cristo è risorto ecco che dalla vita di Mandelstam per molti anni non si hanno notizie della sua morte e i suoi cari nutrono la speranza di rivederlo vivo. Tornare a casa dopo anni di lager era come morire e poi risorgere.
Invece morì nel viaggio di sola andata.
Non ci fu un ritorno.
Ma andiamo agli inizi che sono quelli con cui do vita al romanzo, raccontando di fogli e libri che scivolano tra le dita “sporche” della polizia politica. Cosa ne sanno costoro di versi, che sensibilità hanno verso la poesia? La poesia è sopra di loro e loro non hanno nessun potere per fermarla. Osip non è mai stato un pensatore politico, è stato un poeta e la sua vita è interamente rivolta alla letteratura, anche se ha dovuto confrontarsi con l’universo totalitario staliniano. La libertà del verso non si assoggetterà mai alla censura e a quella campagna di indottrinamento che veniva imposto in quel periodo.
Chiudo con queste parole scritte da Nadezda che mori nel 1980 prima del crollo dell’Unione Sovietica costantemente sorvegliata dalla polizia ma che ricevette durante la sua durissima esistenza molte visite da studenti di letteratura che ne ammirano il coraggio e la volontà di resistere: non c’è niente di più facile da noi che distruggere un libro, ma anche se verrà distrutto non sarà del tutto inutile, prima di finire nella stufa verrà pur letto dagli specialisti della distruzione dei manoscritti, delle parole e del pensiero, non ci capiranno niente ma nella loro ottusità capiranno che forse la forza delle parole non ha paura di nulla e supererà la brutalità del potere.
A. D. Moni Ovadia sostiene che occorre ricominciare a stabilire ponti e iniziative culturali con il mondo russo, che la letteratura russa, la cultura russa, la poesia, tutto ciò che è stato prodotto dall’intellighenzia russa sono imprescindibili per un uomo di cultura italiano. Tu che ne pensi?
Giorgio Bona. La letteratura non ha una dimora fissa
È nomade.
Il nomadismo è anche un vagare della bellezza.
Quando le parole ci raggiungono portano sempre con loro un messaggio che noi molte volte non riusciamo a cogliere e quando lo cogliamo capiamo che ci ha raggiunto la felicità.
La letteratura crea un ponte con il suo pubblico., un ponte fatto di parole. La parola è indispensabile, è l’essenza della vita perché scava nella moltitudine.
L’assenza della parola è assenza di significato, di sostanza.
Spero con questo libro di trasmettere questo pensiero. Una parola che non conosce barriere e Mandelstam come tutti i poeti della sua generazione ha pagato con la vita, ha frantumato la sua esistenza abbattendo quelle barriere perché la parola non avessi confini.
Forse le prime barriere dobbiamo infrangerle noi per andare a cercare e scoprire quelle parole.
Io non l’ho scritto nel libro perché mi sono fermato prima e non so quanto ci sia di vero in questo: la leggenda dice che nel gulag in cui trascorse gli ultimi giorni di vita un poeta Osip consolava i detenuti la sera recitando versi, quasi cantando le sue traduzioni di Petrarca.
Il verso trasudava come una febbre, incantava.
Chissà, sarà un segno premonitore.
Dopo questo lascio, a chi leggerà il libro, la conclusione.
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