Lo Stato residuale nell’Italia spezzata

Il regionalismo dell’autonomia differenziata è una variante del liberismo in salsa sovranista: serve a frammentare la solidarietà e privatizzare meglio

Il regionalismo italiano si trova a un punto di svolta. L’approvazione del disegno di legge Calderoli sull’autonomia regionale differenziata, sempre più vicina per le contingenze elettorali, ci pone dinanzi alla necessità di interrogarci sulle possibili ripercussioni della sua attuazione. L’equilibrio disegnato dai costituenti tra unità e autonomia rischia di rompersi a esclusivo favore della seconda. Questo perché si è scelto che, in un paese già profondamente diseguale sia socialmente che territorialmente, l’assoluta priorità, anziché tentare di costruire un po’ di uguaglianza, sia differenziare ulteriormente. 

Diventa quindi necessario accendere il dibattito pubblico su una materia di assoluto interesse generale ma che, anche in quanto giuridicamente complessa, resta generalmente appannaggio dei soli specialisti. In questo tentativo si misura Francesco Pallante, costituzionalista dell’Università di Torino, in Spezzare l’Italia. Le regioni come minaccia all’unità del Paese (Einaudi, 2024). Un saggio in cui il rigore analitico non toglie spazio né alla chiarezza espositiva, che lo rende accessibile anche a chi giurista non è, né alla radicalità delle idee e alla passione delle argomentazioni. Con lui abbiamo dialogato per approfondire alcuni dei nodi centrali della questione.

Un chiarimento preliminare: a cosa precisamente ci si riferisce quando si parla di autonomia regionale differenziata?

L’autonomia differenziata (o, come anche si dice, il regionalismo differenziato) è un processo attraverso cui si vorrebbero dare nuove e ulteriori competenze alle regioni a statuto ordinario rispetto alle competenze già ampie che erano state date nel 2001 con la «riforma del Titolo V» della Parte II della Costituzione. È un istituto che è stato introdotto nel 2001 inserendo nell’art. 116 un terzo comma che prevede la possibilità che le regioni che ne fanno richiesta possano ottenere, se lo Stato è d’accordo, ulteriori competenze in un totale di 23 materie che ordinariamente sarebbero rimesse alla competenza concorrente tra lo Stato e le regioni, oltre a tre materie che sono invece di competenza esclusiva dello Stato.

Al di là della tipologia, di che competenze stiamo parlando? In che misura possono incidere sulla rottura dell’unità nazionale?

Si va dai principali diritti costituzionali fino all’ambiente e ai beni culturali, dal governo del territorio fino alle attività produttive e all’organizzazione degli enti locali. Questi ambiti di competenza possono poi essere scomposti in materie e ognuna di queste materie è articolabile in una serie di funzioni molto di dettaglio (un documento del Ministero degli affari regionali dice che sono nel complesso quasi 500 funzioni). Se pensiamo alla scuola potrebbe voler dire avere insegnanti regionali, che diventano dipendenti regionali. Il che a cascata vuol dire moltissime cose: nel momento in cui le regioni avessero fondi integrativi come chiedono per poter migliorare la condizione economica degli insegnanti potremmo avere una concorrenza per prendere insegnanti migliori e portarli verso quelle regioni. 

Uscendo dal campo dei diritti colpisce la richiesta che fanno le due regioni leghiste di trasformare in acque regionali laghi e fiumi e la laguna di Venezia. Oggi in tempo di cambiamento climatico in cui ci sono problemi di siccità quelle sono le risorse idriche principali dell’intero paese: regionalizzarle avrebbe un impatto molto grave, come anche accadrebbe con porti, aeroporti, ferrovie ecc. Ma anche regionalizzare la scuola, i beni culturali, i musei ti porta a immaginare una regione che vuole costruire un’identità sovraindividuale, un’identità collettiva, più regionale che nazionale. Al contrario, la Costituzione all’art. 9 parla di un’identità nazionale non chiusa, ma affiancata a un’idea di cultura che è qualcosa sempre in evoluzione, di acquisibile, di mobile, lo stesso fa la scuola. Questa regionalizzazione è parte di una secessione, non economica come quella che denuncia Viesti, ma culturale, identitaria. 

Coerente e funzionale però, potremmo dire, alla costruzione di micro-cittadinanze regionali che giustifichino anche il federalismo fiscale.

Sì, l’idea sembra quella di affermare l’esistenza di popoli regionali, che è un’idea totalmente incompatibile con la Costituzione. Questo tentativo di affermare l’esistenza di un’identità collettiva regionale, cioè di una corregionalità che prevalga sulla connazionalità, va contro l’idea dell’art. 5 innanzitutto, che prevede sì l’autonomia ma dentro l’unità. Ma soprattutto va contro quell’idea che la solidarietà tra cittadini sia appunto il dovere inderogabile di solidarietà economica e sociale di cui all’art. 2 della Costituzione, indipendentemente dal territorio in cui risiedono. Invece le regioni nel momento in cui rivendicano il residuo fiscale, cosa che in alcuni casi fanno espressamente ponendone il recupero tra le principali ragioni della differenziazione, negano apertamente questo concetto di solidarietà.


Il federalismo fiscale ruota infatti intorno alla rivendicazione da parte delle regioni del Nord del residuo fiscale, un concetto che lei definisce «logicamente errato e giuridicamente insostenibile». Di che cosa si tratta?

Il  residuo fiscale indica la differenza tra quanto le regioni pagano in tasse e quanto ricevono in spesa pubblica. Se le regioni pagano più tasse di quanta spesa pubblica ricevono vuol dire che parte delle loro tasse sono spese in altre regioni. Viceversa, se ricevono più spesa pubblica delle tasse pagate vuol dire che una parte della spesa pubblica che ricevono è finanziata da tasse di altre regioni. Per Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, che ambiscono attraverso la differenziazione a recuperarne parte rilevante, si tratterebbe di somme enormi: circa 90 miliardi di euro. Questo modo di ragionare è totalmente illogico perché le regioni non pagano le tasse e non ricevono spesa pubblica, sono le singole persone che pagano le tasse e ricevono spesa pubblica e sulla base di una serie di criteri individuali (stato di salute, situazione familiare, situazione economica) in cui la residenza ha una rilevanza totalmente minore. Quindi imputare alle regioni ciò che è proprio delle persone è un’operazione nella migliore delle ipotesi illogica, nella peggiore maliziosamente truffaldina. 

Dal punto di vista costituzionale una simile regressione vorrebbe dire avere, anziché una solidarietà economica tra connazionali, una solidarietà soltanto tra corregionali. Ma allora a quel punto io potrei chiedermi: ma perché tra cittadini piemontesi? In fondo io vivo a Torino, di quello che succede nella provincia di Vercelli non mi interessa. Non voglio essere solidale nei confronti dei vercellesi, ma neppure con gli abitanti della mia provincia, o della stessa città in cui vivo, e così facendo arriviamo fino al pianerottolo di casa propria. Il che dimostra come questo sia un criterio che è intrinsecamente distruttivo del legame sociale ed è il criterio liberista per antonomasia perché alla fine ci dice che esistono solo gli individui, non esiste la società. 

Come si possono apprezzare profili di incostituzionalità di questa costruzione dell’autonomia differenziata a fronte del modello di Stato regionale disegnato dai costituenti?

Sicuramente i costituenti costruiscono lo Stato in termini di Stato regionale. Dibattono tra due modelli, Stato centralizzato e Stato federale, e, di fatto, creano questa via di mezzo che è lo Stato regionale. Loro conoscono i limiti dell’iper-centralizzato Stato fascista e sicuramente condividono l’idea che un pluralismo anche territoriale possa agire da contropotere nei confronti di un eccessivo accentramento del potere. Ma lo fanno sempre con l’idea che tutti questi enti non si affermino in quanto tali, ma siano degli strumenti attraverso cui la Repubblica persegue lo scopo fondamentale che è proprio di tutti gli enti in cui la Repubblica si articola che è il disegno di emancipazione di cui all’art. 3 della Costituzione: il pieno sviluppo della persona umana, che non è un fine in sé ma che si accompagna e rende possibile l’effettiva partecipazione di tutti alla vita politica, economica e sociale del paese. È chiaro che nel momento in cui le regioni diventano degli enti che invece vogliono aumentare il loro potere perché «regionale è meglio» senza dire il perché e il percome ma semplicemente perché aumentare i poteri delle regioni è un fine in sé allora si svia completamente da questa visione e si esce dall’alveo della Costituzione.

A che punto siamo quindi con questo processo di differenziazione? Che ruolo svolge il ddl Calderoli in questo processo e con quali criticità?

L’art. 116 comma 3 della Costituzione delinea una procedura essenziale. L’iniziativa è della regione, che apre la trattativa con lo Stato, si raggiunge un’intesa, questa intesa deve essere siglata e poi recepita in una legge approvata a maggioranza assoluta. Noi abbiamo una legge che può fare questa operazione, non una legge costituzionale ma una legge ordinaria, che ha una procedura atipica (che presenta quindi delle peculiarità, che possono essere contenutistiche o procedurali, rispetto alla legge tipo): doppia atipicità, in questo caso, perché ci vuole sia l’intesa che la maggioranza assoluta: normalmente l’intesa non è prevista e le leggi sono approvate a maggioranza semplice. 

Capita tante volte che la Costituzione delinei una normativa essenziale e che poi questa normativa venga specificata da interventi legislativi di dettaglio. Quello a cui invece abbiamo assistito in una prima fase è una cosa francamente incredibile: le regioni interessate, quindi il Veneto, la Lombardia e poi l’Emilia Romagna e il governo (nemmeno il Parlamento) hanno deciso di stabilire la procedura attraverso cui dare attuazione a questo terzo comma dell’articolo 116 tramite accordi di fatto privati tra la regione e lo Stato. A partire dall’allora dimissionario governo Gentiloni sono stati prima raggiunti dei pre-accordi con contenuti talvolta arbitrari: ad esempio si dice che una volta che la regione ha raggiunto l’intesa con lo Stato che va recepita nella legge del Parlamento, il Parlamento non può modificare quell’intesa. Un precedente inaudito. A quel punto iniziano le trattative tra il governo e le regioni interessate perché i pre-accordi aprono su cinque materie. Trattative che peraltro avvengono nel segreto più assoluto, fatta eccezione per le bozze del febbraio e del maggio 2019, pubblicate dal sito Roars.it solo grazie a una fuga di notizie. Da allora anche le recenti affermazioni del Presidente dell’Emila Romagna Stefano Bonaccini su un presunto passo indietro su sanità e istruzione non sono in alcun modo verificabili.

La partita si riapre con il governo Meloni e Roberto Calderoli ministro degli Affari regionali. Quello che fa è decidere di dare attuazione all’art. 116 con una legge, il disegno di legge Calderoli che in questi giorni verrà approvato definitivamente dal Parlamento. Prima di soffermarsi sui diversi profili di incostituzionalità del ddl Calderoli, bisogna sottolineare che poiché il processo di attribuzione alle regioni delle nuove competenze si conclude con una legge, per vincolare questo processo ci vorrebbe una fonte del diritto di rango superiore, cioè una legge costituzionale, che richiede però tempi più lunghi e maggioranze più ampie per essere approvata. Il fatto che il ddl Calderoli sia appunto una legge e non una legge costituzionale fa sì che le sue previsioni possano essere ignorate dalla legge che recepisce l’intesa e dà alle regioni le nuove competenze qualora volesse ignorarlo. Quindi lo strumento è del tutto inidoneo a essere uno strumento di garanzia.

Sotto quali profili poi, come ha già accennato, può parlarsi di incostituzionalità del ddl Calderoli?

Anzitutto questa lettura di impianto generale che consente alle regioni di chiedere qualunque cosa, senza che ci sia nessun criterio giustificativo di queste richieste, è incompatibile con l’art. 5. Ma poi prevede che anche le regioni speciali possano fare questa richiesta: qui è un problema politico naturalmente perché le regioni speciali si troverebbero in condizioni di minor autonomia delle regioni ordinarie che si differenziano, ma l’art. 116 comma 3 lo esclude, ed è quindi lesivo della Costituzione ammetterlo. Altri aspetti per cui il ddl Calderoli sarebbe incostituzionale è il già accennato finanziamento delle regioni che otterrebbero nuove competenze sulla base del criterio del gettito fiscale maturato sul territorio, il residuo fiscale, quindi in violazione dell’art. 2 e dell’art. 53 della Costituzione. Altro aspetto ancora: i livelli essenziali delle prestazioni (Lep): la Costituzione prevede che siano fissati con una legge del Parlamento mentre il ddl Calderoli prevede una copertura solo formale fornita da un decreto legislativo, ammettendo sia la definizione del contenuto in partenza con Decreto del Presidente del consiglio dei ministri (Dpcm), sia la modificabilità dello stesso sempre attraverso Dpcm. Anche sotto questo aspetto l’incostituzionalità è evidente. 

Lep che peraltro sono già di per sé difficilmente individuabili, infatti anche dai lavori della commissione Lep si ricava un insieme di indicazioni estremamente eterogenee tra cui figurano molte cose che non sono prestazioni. A oggi vengono definiti solo nell’ambito della sanità (dove sono chiamati Lea: livelli essenziali di assistenza), dove peraltro è più facile farlo rispetto ad altri diritti perché la salute è scomponibile in una serie di prestazioni standardizzate. E nei fatti, in questo ambito, il solo risultato prodotto è che quello che avrebbe dovuto essere il livello minimo di tutela del diritto è diventato il livello di tutela del diritto; anzi nemmeno, posto che oggi una regione su tre risulta inadempiente. La realtà è che ciò che avrebbe dovuto essere un «pavimento» al di sotto del quale non andare è diventato un «soffitto» al quale ambire.

Tutto questo ha radici profonde. Già alla fine degli anni Ottanta viene posta, sul contraltare di una questione nazionale come quella meridionale, la cosiddetta questione (tutta territoriale) settentrionale. Gianfranco Miglio, ideologo del regionalismo leghista, nel 1994 al Congresso federale della Lega profetizza che una volta ampliati anche di poco i poteri delle regioni sarebbe stato impossibile impedirne l’ulteriore espansione: «Il sistema salterà per aria e si arriverà […] ad un regime federale molto più radicale di quello a cui pensiamo noi oggi». Quella breccia verrà aperta dal centrosinistra pochi anni più tardi. Senza poter certo ricostruire qui l’intero processo storico che ha visto affermarsi l’ideologia regionalista, come valutare il ruolo svolto dalle forze politiche progressiste che negli ultimi anni hanno forse molto più assecondato che contrastato l’agenda politica imposta dalla Lega?

Si incrociano due elementi: da un lato tramite la riflessione di Miglio e l’azione politica di Umberto Bossi la Lega impone questo tema nell’agenda politica italiana. Nel libro ricordo che a un certo punto Bettino Craxi porta i socialisti a Pontida in riunione nei primi anni Novanta, proponendo riforme costituzionali che diano più poteri alle regioni, che cambino la forma di governo regionale in senso presidenzialista e nel frattempo facciano la stessa cosa a livello statale: regionalismo e premierato. Ed è chiaramente un tentativo di occupare il campo della Lega e toglierle argomenti. Un tentativo che non funziona allora così come non funzionerà nel 2001 quello che farà il centrosinistra recuperando i lavori della commissione bicamerale sulle riforme costituzionali messa in piedi da Massimo D’Alema. Ma si intreccia qui questa antica tradizione democristiana e popolare a favore delle autonomie territoriali, con un’attenzione da parte delle forze di sinistra, che hanno acquisito fiducia nello strumento delle regioni rispetto alla diffidenza nutrita durante i lavori della Costituente. Dopodichè quello a cui assistiamo è che nel 2001 di fatto la Costituzione viene cambiata dalla sola maggioranza di Centrosinistra ed è la prima modifica costituzionale che viene fatta senza il sostegno di una parte politica e poi, consapevoli di aver commesso questa forzatura, si cerca il consenso popolare utilizzando il referendum costituzionale non come strumento oppositivo, così come è previsto nella Costituzione, ma come strumento confermativo, cioè il plebiscito (come già suggerito peraltro da Miglio). Purtroppo i riformatori del 2001, oltre ad aver sdoganato un uso spregiudicato della Costituzione, hanno messo in moto un meccanismo di cui, alla stregua degli apprendisti stregoni, non sono stati capaci di mantenere il controllo.

Lei osserva una convergenza tra neoliberismo e regionalismo, entrambi proliferati negli ultimi trent’anni nel deserto e nel vuoto delle idee. È un aspetto che merita di essere approfondito.

Mi sono interrogato sul perché nell’epoca degli  imprenditori di sé stessi, del merito, della concorrenza, della competizione, della critica a tutto ciò che è statale c’è quest’altra idea del «regionale che è meglio che statale». A mio parere non sono idee in contraddizione, ma il regionalismo è una declinazione del neoliberismo. Il che poi è strano perché appunto c’è questa dimensione cattolica della sussidiarietà che non dovrebbe essere individualista. Però hanno entrambe questo obiettivo polemico nei confronti dello Stato. Lo Stato novecentesco viene messo sotto attacco politicamente e culturalmente: in questo anche l’ideologia regionalista gioca la sua parte. Con l’idea della sussidiarietà orizzontale che viene inserita in Costituzione nel 2001 si dice che finché la società riesce a fare da sé le autorità pubbliche non hanno titolo per intervenire. Nel momento in cui non sono più in grado di fare da sé allora può intervenire il Comune, sennò la Provincia, sennò la Regione, sennò, solo in ultima istanza, lo Stato. Lo Stato da titolare di una legittimazione di azione universale come era prima, diventa titolare di una legittimazione di azione totalmente residuale, doppiamente residuale nei confronti della società e nei confronti di tutte le altre istituzioni territoriali. Ma indebolendo lo Stato si creano le condizioni perché i poteri economici e sociali sul territorio diventino molto più forti, perché se un potere locale, dovendo fare i conti con lo Stato, ha delle difficoltà, dovendo fare i conti con una regione può farsi sentire molto di più. Così diventa molto più facile privatizzare se le competenze sono regionali invece che statali, perché ovviamente le regioni hanno meno forza per opporsi ai poteri e agli interessi locali. E dunque una dinamica alla quale potremmo assistere con l’autonomia differenziata è quella per cui la sanità e l’istruzione e molti altri servizi pubblici saranno privatizzati molto più di quanto già adesso non lo siano. 

In conclusione parla della differenziazione che si sta attuando come di una «trappola perfetta». Perchè possiamo ritenere questo processo devolutivo davvero irreversibile? Quali sarebbero i migliori strumenti per contrastarlo e a quali possiamo realisticamente, in questa fase storica, fare ricorso?

Il problema è che una volta date queste competenze alla regione, per toglierle bisogna seguire la stessa procedura: ci vuole l’intesa con la regione ed è molto difficile che una regione sia poi d’accordo a restituirle. D’altro canto sarebbe difficile fare sulla legge che recepisce l’intesa e dà le competenze alle regioni un referendum abrogativo: la Corte costituzionale finora ha detto che su una legge atipica il referendum abrogativo non dovrebbe tenersi. Però io sarei più aperto all’idea che sia ammissibile un referendum sulla legge Calderoli, quella che definisce le procedure complessive: è vero che è collegata alla finanziaria però è un collegamento del tutto formale.

Ovviamente l’altra cosa da fare sarebbe modificare la Costituzione. In un mondo ideale bisognerebbe riscrivere tutto il titolo V e quindi ridefinire i poteri tra lo Stato e le regioni in senso più vantaggioso per lo Stato. In un mondo semi-ideale bisognerebbe almeno togliere l’art. 116 comma 3 della Costituzione e quindi impedire il regionalismo differenziato. Nel mondo in cui viviamo, insoddisfacente sotto molti aspetti, quantomeno dovremmo interpretare l’art. 116 alla luce degli artt. 2, 3 e 5 della Costituzione, e quindi dire che in realtà l’unico modo per interpretarlo perché non sia incostituzionale è ritenere quell’elenco una ricognizione generale delle cose che le regioni potrebbero singolarmente chiedere e chiederne una, due, tre (non tutte!) perché hanno delle caratteristiche uniche che le connotano rispetto a tutte le altre regioni. Interpretato così lo possiamo ritenere non incompatibile con i principi fondamentali della costituzione. È una soluzione non ottimale, ma non potendo percorrere le altre due strade questa sarebbe una lettura secondo me costituzionalmente orientata del terzo comma dell’articolo 116. Però siamo lontanissimi da tutto questo. Siamo lontanissimi non soltanto da parte delle regioni di destra ma anche da parte di regioni guidate dal centrosinistra. La Toscana, ad esempio, ha fatto delle richieste. Anche le forze politiche che in Parlamento oggi si oppongono dovrebbero essere coerenti. E quando sento dire «siamo contro l’autonomia differenziata di Calderoli», come fatto da Bonaccini e anche da altri esponenti del Pd, questo mi pare un modo un po’ furbesco di porre la questione, perché allora sono contro questa attuazione, ma non sono in generale contro l’autonomia differenziata perché se lo fossero veramente allora ritirerebbero le loro regioni dal tavolo di trattativa col governo, cosa che invece non fanno. 

Giorgio De Girolamo è studente di Giurisprudenza all’Università di Pisa.

Francesco Pallante è professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Torino. Ha pubblicato Spezzare l’Italia. Le regioni come minaccia all’unità del Paese (Einaudi, 2024).

8/5/2024 https://jacobinitalia.it/

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