Mariuoli dei beni comuni. L’Italia tra fascio e sfascio

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di Marcella Raiola

Comitato nazionale contro ogni Autonomia Dfferenziata- Comitato NO AD di Napoli

Vorrei prenotare biglietto d’ingresso alla Pinacoteca di Brera, grazie!”
Sono 30 euro
Scusi… ma mi pare che il costo sia di 15 euro…
Per i lombardi, certo! Ma lei risiede in un’altra regione!”…

Hai comprato l’auto nuova?
Certo, posso permettermelo perché sono un’insegnante padovana e quindi ho un contratto regionale. Tu sei di Salerno e quindi hai il contratto delle regioni ordinarie, ma se prendi casa qui e ci resti, diciamo, una decina d’anni, sono certa che potrai avere il mio stesso stipendio anche tu!

No, non sono vignette antileghiste. E’ il futuro prossimo del paese, è domani, e a chi si domanda come sia stato possibile arrivare a tanto, forse potremmo rispondere che questo accade quando a respingere e denunciare certe balorde e incostituzionali proposte restano solo Cassandre per lo più ignorate dai circuiti della comunicazione di massa e l’ironia di qualche intellettuale non allineato, o tollerato perché politicamente ininfluente.

Lo scorso 16 Gennaio, in Senato, è stato presentato, per essere poi approvato qualche giorno dopo, tra l’esultanza incosciente dei deputati favorevoli e la resipiscenza tardiva di quelli che solo in dirittura d’arrivo hanno capito la gravità dello sfascio fino ad allora ignorato o avallato, il DdL 615 a firma del ministro Calderoli, un disegno di legge che compie i voti di Gianfranco Miglio e di Bossi, ed attua, di fatto, la secessione del Nord o, almeno, ne getta le basi su un solido terreno, fatto di accaparramento di risorse comuni e privatizzazione sistematica e totale di infrastrutture e servizi essenziali.

Veneto e Lombardia (ma anche l’Emilia Romagna del piddino Bonaccini aveva avanzato la sua brava istanza, chiedendo poco meno delle 23 materie pretese dalle altre due regioni, che si autodefiniscono “locomotiva” del paese) si apprestano a diventare praticamente due staterelli separati, due entità autonome che legiferano a modo loro sui contratti di lavoro, sulla Sanità, sulle infrastrutture, sui trasporti, sulla Scuola, (scegliendo i dirigenti, pagando in diverso modo i docenti e addirittura rimodellando i programmi scolastici su base regionale), sulle politiche ambientali, sulla valorizzazione dei Beni artistici e culturali patrimonio dell’intera nazione etc.

Grazie alla complicità di una stampa mai così asservita e incapace di fare il suo dovere, che è quello di “dire alla gente quel che non vuol sentirsi dire” (Orwell), la cosiddetta autonomia differenziata (un’espressione eufemistica rassicurante e persuasiva, come la distruttiva “Buona Scuola” della “meritocrazia” renziana) passa per una riforma capace di rispondere in modo concreto alle istanze dei cittadini, una sorta di decentramento amministrativo che opererà la sempre auspicata semplificazione burocratica.

Al contrario, si tratta di una secessione mascherata, che modifica irreversibilmente l’assetto istituzionale della Repubblica italiana “una e indivisibile” (art. 5 Cost.) e che porterà ad un nuovo centralismo, pericoloso in quanto non più compensato e bilanciato da poteri e correttivi di rango superiore cui appellarsi.

Veneto e Lombardia non verseranno più un euro di tasse al resto del paese (tecnicamente si dice che “tratterranno il residuo fiscale” sul loro territorio), in barba al principio solidaristico sotteso alla Costituzione, e dimentiche dei tanti privilegi fiscali ed economici, dei tanti patti scellerati tra imprenditoria e politica e dei tanti apporti di sudore del Sud che hanno consentito loro di raggiungere il livello di benessere che i presidenti di dette regioni, con insopportabile retorica e sapendo di mentire, ascrivono esclusivamente all’operosità e solerzia delle classi dirigenti locali.

Di fatto, verrà creato un terzo tipo di regione (violando l’art. 138 della Cost.), oltre a quelle ordinarie e a quelle a statuto speciale, cui spetteranno, ex art. 116 comma 3 della Cost., nuovi finanziamenti per la gestione delle autonomie ottenute. Il tutto, ovviamente, a spesa pubblica invariata e rispettando i trattati-capestro europei sui bilanci e il debito pubblico.

Insomma: la metaforica asserzione evangelica “a chi ha sarà dato e a chi non ha sarà tolto anche il poco che ha” perderà, con l’autonomia differenziata, il suo valore allegorico e diventerà brutale discriminazione legalizzata non solo tra Nord e Sud ma anche tra aree confinanti delle stesse regioni ricche, perché la qualità della vita e dei servizi, anche sui territori autonomi, dipenderà dalla capacità contributiva dei singoli residenti.

Quando, il 29 luglio del 2019 l’Università Federico II, presente il ministro Di Maio, organizzò un incontro pubblico per lanciare l’Osservatorio permanente sull’Autonomia differenziata, uno dei relatori, Adriano Giannola, allora presidente della Svimez, dichiarò che la mossa del Nord era da ascriversi ad una crisi drammatica della sua economia (altro che “locomotiva”!), che portava le regioni con velleità separatiste a condannare per legge il Sud a diventare la “colonia estrattiva” del Nord. Forse questa è la lettura più conforme alla situazione reale, se si pensa che il PIL pro capite delle regioni italiane ricche, negli ultimi 20 anni, è sprofondato nelle classifiche delle regioni europee, come rivela il rapporto Svimez del 2021 (p. 518), e se si guarda alle proteste dei piccoli imprenditori del Nord – acuitesi con la pandemia – contro il capitalismo concentrazionario e digitale, che fagocita la media e piccola impresa.

Il disegno di legge approvato in Senato ha avuto i suoi prodromi nel 2018, quando furono siglate, in segreto, le prime “intese” tra Zaia, Fontana, Bonaccini ed Erika Stefani, ministra di un governo dimissionario e dunque non abilitato a compiere se non atti di ordinaria amministrazione. Fu la rivista ROARS a pubblicare le intese, i cui contenuti suscitarono lo sdegno di quanti compresero la gravità estrema dello “scippo” di prerogative statali e di diritti che si preparava. La scoperta delle intese e la constatazione che erano state siglate con una procedura a dir poco irrituale, senza coinvolgimento delle camere elettive, all’oscuro di tutto, e senza dibattito pubblico, rallentò l’iter legislativo. Le forze politiche firmatarie delle intese, infatti, furono chiamate a rispondere all’opinione pubblica dai comitati civici sorti a decine e che, dal 2021, si sono coordinati dando vita al “Tavolo Nazionale contro ogni autonomia differenziata”, promotore di numerosissime iniziative di protesta pubbliche, l’ultima delle quali è stato il riuscito presidio organizzato proprio il 16 gennaio scorso simultaneamente in più di 25 città italiane, davanti alle rispettive prefetture, cui è stato consegnato, da delegazioni di forze politiche e sindacali unite, un comune documento contenente richieste di intervento per ottenere il blocco dell’iter legislativo, un iter cui Calderoli ha impresso un’accelerazione inusitata, anche in ragione della parallela e parimenti irricevibile riforma sul “premierato forte” postulata da Fratelli d’Italia, rispetto alla quale il regionalismo differenziato si pone come moneta di vile scambio politico.

Ma che fondamento normativo avrebbe questa incipiente secessione? Secondo i suoi sostenitori, l’articolo 116, comma 3 della Cost., che si trova in quel Titolo V che fu maldestramente revisionato dal centrosinistra nel 2001, allo scopo di recuperare i consensi degli operai e lavoratori destabilizzati dalla virata liberista e padronale dei partiti e sindacati cui tradizionalmente si appoggiavano, nonché sedotti dalle sirene separatiste e dalle diffamatorie campagne d’odio contro gli immigrati e contro il Sud scroccone e assistenzialista portate avanti dalla Lega, coinvolta poi, come tutti sanno, in diverse inchieste per corruzione.
Ma l’art. 116 va collocato nel generale contesto dei principi imprescrittibili e delle tutele garantite dalla Costituzione! Per dirla in breve: si possono chiedere delle autonomie se c’è una motivazione tecnica specifica, ovvero se ciò risulta funzionale all’ottimizzazione della spesa sociale complessiva, ma non si può scappare con il “bottino” che appartiene a tutti e al quale tutti devono attingere per la sopravvivenza!

La richiesta di 23 materie ha fatto giustamente parlare di una vera e propria “bulimia competenziale” (prof. Massimo Villone) giustificata, per di più, con il pregiudizio antimeridionalista più squallido e trito!

In più di venti anni, in verità, da quel 2001 fatidico che ha fornito l’avallo normativo alla secessione, molti diritti che per l’articolo 3 Cost. dovrebbero essere uniformemente garantiti grazie alla “rimozione degli ostacoli” che ne impediscono il godimento, sono diventati privilegi o merci: la Sanità pubblica è stata praticamente del tutto smantellata a favore di un sistema privatistico che modella l’offerta sanitaria sulle patologie più lucrose e si espande grazie al “turismo sanitario” forzoso (i mortificanti “viaggi della speranza”). In Calabria e Campania sono stati chiusi ospedali a decine.

A Napoli sono sorti comitati di lotta popolari, come quello per l’ospedale San Gennaro, che sono riusciti a strappare almeno la continuità di alcuni indispensabili reparti “salva-vita”. E’ di questi giorni, invece, la notizia della chiusura del Pronto Soccorso dell’ospedale di Boscotrecase, denunciata dal comitato “Ce avite acciso ‘a salute”, che ha già organizzato due cortei cittadini e dato vita ad un presidio permanente per riavere la certezza del primo soccorso su un territorio difficile, inquinato e saccheggiato. Le liste d’attesa sono tanto lunghe, e gli strumenti per rivendicare il proprio diritto alla salute così farraginosi e costosi che una percentuale inaccettabile di ammalati rinuncia alle cure.

Vogliamo parlare della Scuola? Tre studenti diciottenni morti sui cantieri, lo scorso anno, e decine di feriti durante sessioni di quella “alternanza scuola-lavoro” che è solo sfruttamento dei minori, privo di qualsivoglia ricaduta didattica o, in prospettiva, occupazionale; verticismo dirigenziale, con conseguente silenziamento degli organi collegiali; espropriazione delle prerogative dei docenti da parte dell’Invalsi, un ente diretto dalla Fondazione Agnelli e da Treelle; esternalizzazione della didattica; “contributo volontario” (incostituzionale) estorto ai genitori; competizione tra scuole per accaparrarsi la “clientela”, in barba alla funzione emancipante e perequativa della Scuola; crollo verticale del livello di preparazione generale dei diplomati…

Sarebbe doloroso e lungo illustrare i motivi che hanno portato allo sfacelo attuale. La storia recente del paese è nota, nelle sue cruciali tappe involutive, ed è noto il progressivo “commissariamento” della democrazia da parte di istituzioni sovranazionali.

Abbiamo patito tutte le inutili manovre “lacrime e sangue” imposte dall’Europa; abbiamo visto la faglia che separa i ricchissimi dai poverissimi diventare abisso; sprechiamo milioni di euro per prendere parte a tutte le inutili guerre di aggressione dell’anacronistica NATO, spacciate per missioni di “peace keeping”, mentre stigmatizziamo con moralismo insopportabile e affamiamo le vittime dei tagli “lineari” al lavoro e al welfare, negando loro anche un reddito minimo di cittadinanza; constatiamo che l’approccio economico neoliberista, cui si associa, in campo politico, il più disumano utilitarismo qualunquista, è diventato l’ideologia dominante e unicamente consentita, essendosi drammaticamente ristretti gli spazi della dialettica politica e del confronto (il che è anche la naturale conseguenza del fatto che l’alterità strutturale e radicale di impostazione e visione della vita associata e delle relazioni è diventata diversità di sfumature o di metodi per applicare le stesse soluzioni, che penalizzano sempre le stesse fasce di popolazione).

In questo scenario, la secessione di Calderoli appare come nient’altro che il sigillo legale apposto ad una scissione già di fatto avvenuta da tempo e dolorosamente percepita da quelli che, come diceva Totò, vivono “sotto lo stivale”.
Ma è proprio qui la trappola concettuale: se è vero che esistono già due Italie, quella dei ricchi sempre più ricchi e quella di chi sprofonda sempre più nella miseria, ciò non può voler dire che tale divario debba essere naturalizzato e istituzionalizzato! Quali surreali provvedimenti si dovrebbero prendere, del resto, se volessimo ragionare in questo modo per tutti i fenomeni che creano maggiore allarme sociale, come il femminicidio?

Non si tratta di contrapporre “utopia” a “realismo”, ma politiche improntate a giustizia e inclusione sociale ad atti legislativi fondati su un egoismo truce, razzista ed escludente, che si spaccia per dinamismo riformistico.

La foglia di fico che Calderoli sta usando per far digerire la sua secessione sono i LEP, i “livelli essenziali di prestazione” che l’art. 117 prescrive di garantire a tutti i cittadini delle regioni rimaste “ordinarie”. Già la denominazione, però, risulta irritante, nel suo paternalismo concessivo: perché ad alcuni territori (segnatamente al Sud) dovrebbe essere garantito “l’essenziale” e ad altri il massimo e il meglio possibile? I LEP rappresentano solo la soglia dei diritti al di sotto della quale non si può scendere, ma non pareggiano il conto con chi tiene per sé tutto il suo e prende anche cospicua parte di quanto destinato a tutti.

Il prof. Villone, illustre costituzionalista, ha provato, redigendo una legge di iniziativa popolare che ha raccolto ben 106.000 firme di presentazione, a sostituire i LEP con i LUP (Livelli uniformi di prestazione) e ad arginare le derive autonomistiche, prospettando correttivi e una clausola di supremazia della legge statale per garantire l’unità giuridica ed economica del paese e l’interesse nazionale, ma la sua proposta è stata bocciata in poche ore da un Parlamento sempre più esautorato e ridotto ad organo consultivo, rispetto al quale l’esecutivo e le Regioni assumono un potere sempre più evidente e schiacciante, specie se si pensa che sono le Regioni a prendere l’iniziativa della trattativa per le autonomie, e sono solo loro a poterne chiedere l’eventuale revisione.

In uno dei numerosi incontri di controinformazione e illustrazione dei rischi connessi all’autonomia differenziata (svoltosi il 14/01/2023 presso l’Istituto di Storia Patria, sito all’interno del Maschio Angioino a Napoli), lo stesso prof. Villone ha dichiarato: “Pensare che un paese resti unito dove ogni pezzo può contrattare autonomamente il suo regime giuridico, è follia”. Lo stesso Villone citò un docente bocconiano (Tabellini), candidato a quel ministero dell’Economia poi ricoperto da Cottarelli, il quale dichiarò senza remore che l’orientamento più indicato per l’economia italiana è quello che aumenta la distanza tra Milano e Napoli. Per mantenere Milano competitiva in Europa, insomma, Napoli deve morire.
Ma le perplessità e le critiche non sono venute solo da chi fin dall’inizio ha lottato contro la frantumazione dell’Italia. Lo stesso Ufficio parlamentare di Bilancio ha fatto presente che non ci sono soldi per i LEP e che ce ne vorrebbero troppi, in ogni caso, per colmare i divari tra Nord e Sud; autorevoli membri del CLEP, la Commissione per i LEP voluta da Calderoli per avere dei “correi”, quali Giuliano Amato, si sono dimessi, gettando la spugna di fronte a un compito impossibile; la CEI ha tuonato contro l’abbandono dei poveri alla loro sorte; il presidente della Banca d’Italia ha paventato “effetti negativi sulla gestione delle risorse pubbliche”.

Tutti contro, dunque; molti, magari, solo timorosi di pagare lo scotto elettorale dell’ennesima mazzata, stavolta definitiva, data al Sud. Ad ogni modo, l’Autonomia differenziata ha provocato uno di quei compattamenti di interessi che, sommati alla sintonia originaria e permanente di chi si oppone per principio, di chi l’ha proscritta e osteggiata da subito, cioè, per le sue implicazioni devastanti, potrebbero sortire l’effetto di risvegliare il paese dal suo coma politico-ideologico, riportando la gente in piazza, a pretendere pace, lavoro, pane, istruzione, salute, stampa libera e un futuro che non preveda solo l’emigrazione coatta.

Con tale speranza “palingenetica”, il Coordinamento campano contro l’autonomia differenziata, unitamente al Tavolo nazionale, invita tutte e tutti a Napoli, il prossimo 16 Marzo, per una grande manifestazione nazionale contro quella che è ormai nota come “secessione dei ricchi”. La mobilitazione e la pressione dal basso sono imprescindibili anche per il buon esito degli eventuali ricorsi ex post alla Corte Costituzionale, perché la Carta può essere strappata o inficiata subdolamente, ma la consapevolezza di avere dei diritti “alla pari” e di avere comune memoria storica e culturale non ce la può e non ce la deve strappare nessuno.

Marcella Raiola

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